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Migliorano la nostra esperienza su internet e salvaguardano la nostra privacy. Ma è giusto usare le applicazioni di ad blocking? Una guerra tra i colossi del web che rischia di compromettere il futuro dell'editoria.

Il 98% degli utenti di internet non ha mai sentito nominare AdBlock”, dichiarava nel 2011 il creatore di AdBlock, Michael Gundlach. Ma, si sa, nel mondo di internet le cose cambiano rapidamente; o forse era proprio nell’interesse di Gundlach fornire stime più basse del reale, così da non attirare troppa attenzione a un prodotto in grado di sferrare un colpo letale al mondo delle news online e al modello di business che gli ruota attorno.

Come che sia, oggi usare AdBlock, ABP e tutti gli altri tool per Chrome, Firefox e Safari che bloccano le pubblicità non è più una cosa da nerd: è la normalità. Ed è questo che fa tremare molte delle media company che affidano i loro incassi a una pubblicità che si è fatta sempre più invasiva: interrompe i video, interrompe le gallery, interrompe la lettura dell’articolo, compare davanti ai nostri occhi quando meno ce l’aspettiamo costringendoci a una spasmodica ricerca col puntatore del mouse per trovare quella “X” che, finalmente, ci farà tornare alla lettura.

Stando così le cose, non stupisce che il numero di persone che usa AdBlock & co. sia salito vertiginosamente: dai 21 milioni del 2010 si arriva ai 181 milioni di fine 2014. E la crescita non accenna a diminuire, visto che i dati parlano già di 198 milioni di utenti a giugno 2015. Il risultato? Secondo un report di PageFair e Adobe gli editori hanno perso globalmente qualcosa come 22 miliardi di dollari (rispetto ai 7,2 del 2013). In un mercato già difficile, per usare un eufemismo, come quello dell’editoria online, si tratta di un tornado che rischia di spazzare via tutti i media che basano i loro introiti sulla pubblicità classica.

I numeri della diffusione degli ad blocker.

E qui arriviamo all’aspetto dilemmatico della questione: è giusto bloccare la pubblicità, visto il modo in cui ci viene gettata addosso con la forza; o è sbagliato, visto che è grazie a lei che possiamo fruire di una miriade di contenuti gratuiti, spesso anche di ottima qualità? Per come la mette il sito americano The Awl, sembra che si sia tutti nel torto: “Gli editori non hanno alcun diritto di costringere i lettori a essere esposti a un certo tipo di pubblicità e di permettere a numerose ‘terze parti’ di raccogliere informazioni su di loro senza un precedente assenso. Ma i lettori non hanno diritto di leggere e vedere contenuti per i quali non pagano in nessuna forma, né con i soldi, né con i dati”.

In effetti, la questione non riguarda solo la pubblicità, ma anche la privacy: basta installare un semplicissimo tool come Ghostery per scoprire quanti siano gli strumenti che, costantemente, seguono ogni nostra mossa su internet per poi inondarci di annunci basati sulle nostre ricerche.

Bloccare tutto significa navigare in maniera molto più veloce (una pagina si carica fino a quattro volte più rapidamente), senza essere spiati, potendo leggere e vedere tutto senza interruzioni: indubbiamente un grande vantaggio per i lettori. In tutto questo però, le grida di dolore degli editori – che spiegano come, in media, tra il 75 e l’85% delle loro pubblicità può essere bloccato – rimangono in larga parte inascoltate e chi prova, come fa il Guardian, a segnalare a chi sta usando un ad blocker la possibilità di sostenere la testata attraverso una forma di abbonamento si trova davanti a una realtà sconfortante: quasi nessuno sceglie di pagare, mentre sempre più persone bloccano le pubblicità.

Un grafico mostra il danno economico degli ad blocker.

D’altra parte, i sostenitori degli adblocker hanno dalla loro argomentazioni più che valide: l’invadenza della pubblicità su internet, oggi come oggi, non è tollerabile. E se si vuole che le cose cambino, è proprio attraverso gli adblocker che “si costringe il sistema a evolvere”. Una posizione che ha dato i natali anche all’inevitabile slogan: “Per una migliore pubblicità domani, bloccate la pubblicità oggi”. Chissà se è vero, visto che al momento gli unici veri vincitori di questa guerra alla pubblicità sembrano essere le app per mobile dei social network, dove le pubblicità sono quasi impossibili da fermare e dove sempre più siti stanno trasferendo parte dei o tutti i loro contenuti (per esempio, tramite Facebook Instant Articles).

Gli adblocker rischiano di compromettere la già precaria salute di numerosi editori online e di costringerli a trasferire i loro contenuti su quelle piattaforme come Facebook.

Nel tentativo di liberarci della pubblicità e di chi spia i nostri movimenti, stiamo rendendo sempre più potente e onnipresente Facebook, ovvero una piattaforma che basa il suo business sullo studio e la rivendita dei nostri comportamenti; senza nemmeno liberarci della pubblicità.

Sul lungo termine, insomma, gli ad blocker rischiano di compromettere la già precaria salute di numerosi editori online e di costringerli a trasferire i loro contenuti su quelle piattaforme, come Facebook, che temono molto meno i colpi dei nemici dell’advertising tradizionale. In tutto questo, che fine fa l’evoluzione della pubblicità? La cosa più curiosa è che a prendere in mano la situazione non siano stati né i lettori, né gli editori. Ma le stesse società che gestiscono gli ad blocker.

Un giudice della corte di Amburgo ha emesso sentenza di assoluzione che ha anche legittimato gli ad blocker.

Le prime avvisaglie si sono avute a febbraio di quest’anno, quando è uscita la notizia che Google, Microsoft, Amazon e Taboola (un gigante degli annunci) pagano AdBlock Plus (ABP, da non confondere con AdBlock) per permettere alle loro pubblicità di aggirare i filtri. Ma come funziona la cosa? Da tempo ABP inserisce di default una whitelist, ovvero un elenco di annunci considerati non invadenti in grado di superare i suoi stessi blocchi. Per le piccole aziende, entrare nella whitelist è gratuito, mentre le grandi corporation devono pagare. Le loro pubblicità, quindi, diventano accettabili previo pagamento, e a decidere della “bontà” delle pubblicità è la stessa società che gestisce ABP, vale a dire la tedesca Eyeo. Messa così, non suona per niente bene: fa subito pensare a una forma di estorsione.

In effetti, qualcuno ha preso il tema molto sul serio e ha deciso di portarlo davanti a un giudice. Per la precisione, due testate tedesche: Die Zeit e Handelsblatt. L’accusa nei confronti di AdBlock Plus era proprio di estorsione, visto che alcune aziende si trovano “costrette” a pagare per vedere pubblicati gli annunci sui computer dov’è presente ABP. Un’accusa che non ha convinto il giudice della corte di Amburgo, che nell’aprile di quest’anno ha emesso sentenza di assoluzione e ha anche legittimato gli ad blocker: “Gli utenti devono avere l’ultima parola su ciò che appare sui loro schermi”.

La questione, comunque, non è chiusa e sono tante le cause in giro per il mondo contro i vari ad blocker. Una situazione che mette costantemente in pericolo le società che li gestiscono e che infatti ha portato, per prima Eyeo, a tendere una mano agli editori e agli inserzionisti: “Vogliamo lavorare con loro, invece che contro di loro. Sviluppiamo nuove forme di pubblicità che siano utili e piacevoli per gli utenti”, affermava Ben Williams, capo ufficio stampa della società tedesca.

Come cambia l'homepage de La Repubblica grazie all'utilizzo di AdBlock.

Il risultato, oggi, è sotto gli occhi di tutti: nel giro di un anno si è passati dall’Acceptable Ads Manifesto (con il quale ABP poneva le sue condizioni per consentire agli annunci di aggirare i filtri, a pagamento o meno) alla Acceptable Ads Board lanciato il primo ottobre 2015.

In sintesi, Eyeo si sta dotando di un vero e proprio consiglio indipendente che valuterà quali pubblicità possano essere inserite nella whitelist di ABP e di tutti gli altri blocker che decideranno di partecipare al programma. Una mossa che, sul blog di Adblock Plus, viene presentata così: “Abbiamo deciso di rimuovere noi stessi dall’equazione. (…) Adesso potete smettere di parlare di estorsione, grazie”.

Ma qual è la portata di quella che pare una rivoluzione di ottobre, in cui gli ad blocker stessi prendono in mano la partita pubblicitaria su internet e provano a costringere, in qualche modo, siti e concessionarie a creare annunci migliori, più interessanti, meno intrusivi? Un primo indizio arriva dal fatto che, immediatamente, AdBlock (rivale storico di ABP) e Crystal hanno deciso di aderire all’Acceptable Ads Manifesto. Concretamente, significa che è stata inserita la stessa whitelist nelle impostazioni dei principali blocker e che questa è attivata di default quando li scaricate.

ABP ha circa 23 milioni di utenti, AdBlock arriva a 40. Se a questi si aggiungono i clienti delle tante altre società che si stanno unendo al “programma per una pubblicità accettabile”, si arriva a un totale (molto approssimativo) di “un centinaio di milioni di utenti”.

Pare che ABP abbia compiuto il crimine perfetto: prima ha contribuito notevolmente alla diffusione degli ad blocker; poi ha iniziato a farsi pagare dai colossi della pubblicità per lasciar passare i loro annunci.

C’è di più: ABP pagherà un fisso mensile (non si sa di quanto) alle altre compagnie che entreranno a far parte del programma, in modo da permettere loro di sostenere i costi di sviluppo. Tutto bene, quindi? A prima vista sembrerebbe di sì: si sprona chi di dovere a studiare pubblicità meno fastidiose in modo da non vedersele bloccate; si dà la possibilità agli utenti, comunque, di bloccare tutte le pubblicità; si costituisce una sorta di commissione indipendente per decidere quali annunci possano essere inseriti della whitelist.

A pensarci bene, invece, viene il sospetto che ABP abbia compiuto il crimine perfetto: prima ha contribuito notevolmente alla diffusione degli ad blocker; nel momento in cui questi hanno seriamente iniziato a danneggiare gli introiti delle testate online, ha iniziato a farsi pagare dai colossi della pubblicità (Google, Amazon, ecc) per lasciar passare i loro annunci. Dopodiché ha incentivato le altre compagnie a unirsi al loro programma, in modo da evitare (o almeno così si può pensare) di perdere tutti i suoi utenti.

Sospetti che non vengono meno mentre, col passare del tempo, emergono nuovi dettagli sul funzionamento del programma “Acceptable Ads”: si ritiene che circa il 90% degli inserzionisti che partecipano al programma non paghi nulla, mentre il restante 10% – ovvero i colossi della pubblicità, che generano almeno 10 milioni di impression al mese – deve pagare, ma non è dato sapere quanto. Quello che lascia perplessi è il fatto che Eyeo si rifiuti di divulgare i dettagli, anche economici, di tutta questa operazione. Un altro aspetto non torna: ma perché Eyeo paga un fisso mensile a chi entra a far parte del programma per sostenere le “spese di sviluppo”, quando – da quello che si sa – aggiungere alla propria app la “whitelist” è un’operazione elementare per ogni sviluppatore?

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Crystal, uno dei più recenti ad blocker.

Chris Aljoudi, sviluppatore di Purify a cui Eyeo ha vanamente offerto 250mila dollari per l’acquisto del software, ha spiegato così il suo rifiuto a entrare nel “programma”: “Le intenzioni possono anche essere buone, ma dare il controllo agli utenti è più importante e preferibile rispetto a darlo a una sola entità che controlli tutto quello che viene mostrato”.

Un altro aspetto che non torna è quello della vendita a un misterioso acquirente del software più noto in assoluto: AdBlock, creato da Michael Gundlach e che si stima abbia, come detto, 40 milioni di utenti. Sempre nell’ottobre 2015, infatti, la società ha accettato di entrare a far parte del programma, mentre contemporaneamente veniva venduta. Per dirla con le parole dello stesso Gundlach: “Ho sempre condiviso gli obiettivi di ABP, ma non mi piaceva che avessero loro il controllo del programma Acceptable Ads. Ora, le chiavi del programma sono state trasferite a un gruppo di esperti imparziale, un’idea che adoro. Grazie a questo cambiamento, sono felice di annunciare che anche AdBlock ha aderito al programma. Contestualmente, ho deciso di vendere la mia compagnia”.

Non si sa, però, chi sia l’acquirente – ma si sospetta che sia la stessa Eyeo – e non si sa nemmeno per quanto sia stata venduta. Altri aspetti poco trasparenti, quindi, e che riportano alla mente le tante volte in cui variazioni di questo tipo si sono rivelate dannose per gli utenti, che hanno visto, per esempio, introdurre in software simili strumenti in grado di spiare il comportamento degli utenti.

Il via libera di Apple agli ad blocker rischia di sferrare il colpo di grazia, aprendo una prateria in un campo, quello del mobile, che era ancora relativamente al sicuro.

Ma tutti questi cambiamenti rischiano di passare in secondo piano rispetto a un’altra decisiva novità: la decisione di Apple – lo scorso settembre – di permettere anche agli utenti iOs (quindi, a chiunque possegga un iPhone) di scaricare gli ad blocker dall’AppStore, cosa che prima era possibile solo a chi aveva “jailbreakato” lo smartphone di Cupertino.

In una sola settimana, quella successiva al 16 settembre, i dieci software più popolari sono stati scaricati 600mila volte. Tra questi, al terzo posto, troviamo anche Crystal, ad blocker che ha iniziato a far parte del “programma” pochi giorni dopo essere stato lanciato.

Per gli editori è una pessima notizia, perché il via libera di Apple agli ad blocker rischia di sferrare il colpo di grazia, aprendo una prateria in un campo, quello del mobile, che era ancora relativamente al sicuro. La cosa più interessante da approfondire, però, è un’altra: perché Apple ha deciso di aprirsi agli ad blocker? La risposta ha un nome ben preciso: Apple News, l’applicazione creata in collaborazione con numerose, e grosse, testate per la fruizione di notizie su mobile.

L'app di Apple per leggere le notizie.

Non è un caso che Apple si sia aperta agli ad blocker su iOs mentre contemporaneamente lanciava Apple News (per ora, nei soli Stati Uniti e Regno Unito). Il legame è strettissimo: più gli editori si vedranno penalizzati nei ricavi dalla marea montante di ABP & co., più saranno invogliati a trasferire i contenuti su Apple News. Dove, ovviamente, la pubblicità c’è, eccome.

Come spiega bene il Nieman Lab, “per Apple, che dipende dalle pubblicità solo per lo 0,3% dei suoi ricavi, l’ad-blocking è un affarone. Primo, assesta un grosso colpo al suo competitor Google, che dipende dai clienti di iOs per il 75% dei suoi introiti da mobile; secondo, le dà la possibilità di premiare e incanalare i ricavi in direzione dei suoi nuovi compari, gli editori diventati partner. Gli editori che partecipano a Apple News godono, per il momento, del 70% degli introiti di ogni pubblicità venduta da Apple”.

Al momento sono circa 50 le testate che hanno deciso di entrare a far parte del giro di Apple News (tra cui il Guardian, BBC News, Financial Times, il New York Times, ESPN), puntando proprio sul fatto che su quella applicazione la pubblicità non potrà essere bloccata. La stessa identica logica sta portando sempre più editori tra le braccia di Facebook, attraverso i suoi Instant Articles.

Si sta parlando di una guerra in corso tra tre dei principali colossi della Silicon Valley, in cui sono in ballo quantità immense di soldi e di potere.

È chiaro che stiamo assistendo a un nuovo capitolo della guerra dichiarata da Facebook e Apple a Google. Lo scenario che si presenta, quindi, è questo: Apple impedisce a Google di mostrare i suoi annunci, aprendo agli ad blocker su iPhone e iPad, e contestualmente lancia Apple News, mostrandosi così come una sorta di salvatore della patria per gli editori. Tra i due litiganti, spunta il terzo, quello che gode: Facebook. Che approfitta delle schermaglie per rafforzare il suo ruolo di distributore principe delle news e diventare sempre più strategico per gli editori grazie a Instant Articles.

Chi pensava che gli ad blocker riguardassero solo ed esclusivamente la qualità della fruizione dei contenuti in rete si sbagliava di grosso. In verità, si sta parlando di una guerra in corso tra tre dei principali colossi della Silicon Valley, in cui sono in ballo quantità immense di soldi e di potere. E anche se Google, al momento, sembra essere quella più in difficoltà, le vere vittime di questa situazione rischiano di essere ben altre: gli editori indipendenti e le piccole realtà online. Quelle che cercano di sostenersi tramite la pubblicità tradizionale e che non hanno i mezzi per creare una loro piattaforma di distribuzione, non hanno i numeri necessari per stringere partnership con Apple o Facebook o per entrare in contatto con i grossi brand interessati al native advertising (gli articoli sponsorizzati da grandi marchi).

Se nel futuro ci sarà spazio solo per grandi piattaforme di distribuzione, grandi editori tradizionali e grandi marchi digitali, il rischio è che le realtà più “pure” del web – quelle che in questi anni ci hanno garantito ottimi contenuti e che spesso si sono dimostrate l’avamposto dell’innovazione online – vadano incontro a un futuro davvero cupo.

Andrea Daniele Signorelli
Milanese, classe 1982, scrive di politica, new media e innovazioni legate alle nuove tecnologie informatiche. Collabora con Gli Stati Generali, Prismo, Studio, Blogo e cheFare. Collabora come editor e traduttore per alcune case editrici. Nel 2015 ha pubblicato Tiratura Illimitata: inchiesta sul giornalismo che cambia per Mimesis.

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