Il festival olandese Afrofuturism Now! è stato l'ennesimo ritorno all’Afrofuturismo, tra fantascienza e utopia black. Ripercorriamone le tappe, da Sun Ra ai Drexciya passando per i moderni riti dell’Africa postcoloniale.
“Per apprezzarlo bisogna vederlo”: così, nel 1975, un giornalista di provincia descrive Sun Ra, il più eccentrico campione del nuovo jazz americano. E descrive un impianto estetico, ancor prima che sonoro ed estatico: “Lui e l’Arkestra [il gruppo fondato dallo stesso Sun Ra] indossano tutti costumi ornati con segni astrologici e simboli dai colori accesi che si mescolano tra loro”. La riproduzione dell’articolo è inclusa in un box prodotto dal Museum of Contemporary Art Detroit (MOCAD) contenente stampe in edizione limitata, stickers, fotocopie e paraphernalia assortita che registrano il passaggio dell’Afrofuturismo a Detroit. Continua: “La musica di Sun Ra parla di Universo, di Concetti Universali e Astrologia”. I suoi brani portano titoli come Space is the Place, Next Stop Jupiter, Secrets of the Sun.
Dare una spiegazione netta, concisa e storica del concetto di Afrofuturismo è pressoché impossibile. Il recente festival Futurism Now! ha messo assieme musica, fantascienza, film e moda, in un programma che andava dal dj statunitense King Britt all’egiziano Islam Chipsy. Ma forse, per meglio comprendere cosa intendiamo col termine, conviene raccogliere, collezionare e archiviare manufatti e pezzi di immaginario, e da lì provare a costruire un ipotetico panorama di senso.
Nel box per il MOCAD, Cary Loren – già membro del gruppo Destroy All Monsters – mette insieme cose come: un libro di disegni basati sulla collezione di arte africana di André Breton; un poema di Amiri Baraka intitolato I Liked Us Better; un booklet contenente le fotografie e le descrizioni dei mostri scultorei di Rammellzee (The RAMM:ƩLL:ZƩƩ “Super Heroes and Villains / Monster Models & Garbage Gods”); il manifesto di OGUN, un gruppo attivo a Detroit negli anni 80 e 90 che decorava carcasse di vecchie Ford come fossero maschere tradizionali Yoruba, creando quelli che definivano “Urban Monumentz”; e ovviamente, una fotografia di Sun Ra e la sua Arkestra in residenza al Detroit Jazz Center nel 1979, con la corrispettiva registrazione audio stampata in vinile.
Il contributo della personale cosmologia di Sun Ra è fondamentale per una possibile comprensione dell’Afrofuturismo. E questo è da ricercare nel punto di unione tra un’idea radicale di Africa, e dunque dell’origine e del transito – il cosiddetto Middle Passage che l’esperienza della schiavitù ha generato, in particolare per un afroamericano – e la tensione al futuro, a qualcosa di inspiegabilmente extra-terrestre.
Space is the Place è un avvertimento, una nota che Sun Ra utilizza per dirci che la schiavitù e la sua forzata imposizione sono eventi assimiliabili a un rapimento da parte degli alieni. La teoria dunque non riguarda solamente la semplice fantascienza in chiave black, ma ha radici complesse, sviluppate su basi identitarie. Per questo è poco indicato approcciare l’Afrofuturismo come una scena specifica, circoscritta temporalmente e contenutisticamente (come ad esempio il genere Blaxploitation) ed è impossibile tracciarne una storia. Conviene avanzare per scatole di contenuto, appunto.
È il 1996 quando John Akomfrah e il suo collettivo di cineasti Black Audio Film Collective realizzano il film–saggio The Last Angel of History. Al suo interno, un Data Thief, sorta di migrante spaziotemporale, dirige il film attraverso una serie di mondi sonori e le mitologie dei rispettivi protagonisti. L’opera si annoda attorno a tre figure cardine: Lee “Scratch” Perry, il demiurgo del dub, George Clinton, creatore del congegno funk Parliament/Funkadelic e, comprensibilmente, Sun Ra.
Il film indaga il personalissimo vocabolario alieno dei tre sciamani, il loro utilizzo dello studio di registrazione come qualcosa molto più prossimo a una capsula aerospaziale che non a una semplice location di creazione musicale, il rapporto con la pazzia e l’eccentricità artistica. A parlarci è la coscienza macchinica di Perry: I’m a robot, I’m a computer.
L’archetipo dell’esplorazione dello spazio è la principale ossessione di Last Angel of History; tra gli intervistati c’è Bernard A. Harris Jr., il primo astronauta afroamericano ad aver compiuto una spacewalk, una passeggiata spaziale. Harris nelle mani ha una copia di Mothership Connection, il quarto album dei Parliament di George Clinton.
Le traiettorie del suono si moltiplicano lungo il corso del film: la techno di Detroit (che Detroit sia anche il nome di un pianeta ancora inesplorato?), Dj Spooky, l’artista e teorico Kodwo Eshun, l’hardcore continuum inglese della jungle e del drum ‘n bass (A Guy Called Gerald, Goldie)…
Drexciya è il nome di un mondo sottomarino popolato dai figli mai nati delle donne africane gettate a mare durante la tratta degli schiavi. Drexciya è il nome di un progetto di musica elettronica da ballo nato a Detroit nei primissimi anni 90. L’intera discografia, seppur breve a causa della morte prematura del fondatore James Stinson, racconta le caratteristiche di questo ecosistema sottomarino generato da un effetto collaterale inaspettato del Middle Passage.
L’oceano è una metafora prediletta per gli studiosi delle teorie post–coloniali. Nell’Atlantico Nero di Paul Gilroy non esiste terraferma, ma solo una grande area liquida transnazionale.
Come gli abitanti del Mondo Sommerso di Ballard, i techno-anfibi di Drexciya – i Drexciyans, appunto – si muovono in uno scenario onirico e fluido: il loro è un viaggio attraverso lo spazio intra-terrestre. L’album Drexciya 5: The Journey Home (1995), dirige la tribù verso la terra promessa, l’Africa, il “ritorno a casa” del credo rastafariano, la cosiddetta repatriation. Black Man, you’re going home, canta Fred Locks nel classico reggae Black Starliner.
Con l’Afrofuturismo, la teoria della doppia coscienza nata dalla diaspora africana si aggiorna: il dilemma della dualità è revisionato e riletto in chiave extra-umana.
Ma di quale dimora parliamo? Sun Ra ha cancellato la propria identità e il proprio nome e cognome, dichiara di essere un alieno proveniente da Saturno. I Drexciya non hanno mai rivelato la loro vera identità fino alla morte di Stinson nel 2002, e rilasciavano interviste indossando maschere dei personaggi di Star Trek. I rasta stessi, per quanto Marcus Garvey avesse realmente provato a mettere in pratica il Back to Africa con la compagnia navale Black Star Line, insistono che la repatriation debba avvenire mentalmente, ancor prima che fisicamente.
Con l’Afrofuturismo, la teoria della doppia coscienza di W.E.B. Du Bois – quella secondo cui gli afroamericani sono costretti a convivere con una doppia identità: “un americano, un negro; due anime, due pensieri, due lotte inconciliabili; due ideali in contrasto tra loro in un corpo scuro la cui sola forza ostinata evita che vada in pezzi” – si aggiorna e cambia di statuto. Il dilemma della dualità è revisionato e riletto in chiave extra-umana.
[…] Subtle Living Equations
Clear only to those
Who wich to be attuned
To the vibrations of the Outer Cosmic Worlds […]
(Sun Ra, Cosmic Equation)
L’adagio “chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il futuro controlla il presente” potrebbe fornire una spiegazione parziale dell’Afrofuturismo, se non fosse stato coniato in un contesto come il futuro distopico immaginato da George Orwell in 1984. Eppure il movimento che ad oggi include ogni immaginario futuribile di speculative-fiction afroamericana ha effettivamente molto a che fare con la concezione e la continuità della storia, con la sua gestione comunitaria e la sua profonda relazione con il presente. Una forma di storiografia sovversiva che genera un paradosso: una comunità orientata alla ricerca del proprio passato, cancellato da uno spostamento coatto e dal divieto imposto ai propri antenati di parlare la propria lingua, si assume il ruolo di immaginare futuri possibili.
Si potrebbe vedere in quest’ottica il ciclo di lezioni tenute dal solito Sun Ra a Berkeley nel 1971, indicate a seconda delle volte con i titoli Sun Ra 171, The Black Man in the Universe, oppure The Black Man in the Cosmos. Gli studenti di Berkeley si trovarono nella bibliografia di riferimento una serie di letture consigliate che spaziavano tra il biblico, l’esoterico e il filosofico, compresa un’interpretazione della bibbia in chiave egittologica. Nell’unica registrazione sopravvissuta si può ascoltare il musicista-filosofo cimentarsi in interpretazioni teologiche ed etimologiche come quella che fa risalire la parola convicted ad un termine egizio. Sun Ra in fondo non si è mai definito afrofuturista.
A differenza della quasi omonima corrente artistica italiana fascio-colonialista, il termine Afrofuturismo non è nato in seguito a un manifesto specifico, ma è stato coniato dal critico letterario Mark Dery nel 1994 per descrivere un’attitudine all’immaginazione del futuro e alla concettualizzazione del presente che attraversa opere letterarie, artistiche e musicali. La definizione precisa fornita dal critico in una raccolta di interviste intitolata Black to The Future è la seguente:
“Speculative-fiction che affronta tematiche afroamericane, e che individua argomenti afroamericani nel contesto della tecnocultura del XX secolo; o più generalmente, una sensibilità afroamericana che si appropria di immaginari tecnologici e di un futuro profetico”.
In particolare Dery si chiedeva come mai gli scrittori di fantascienza afroamericani si potessero contare sulle dita di una mano (Samuel Delany, Octavia Butler, Steve Barnes e Charles Saunders) nonostante l’esperienza della comunità nera possa sovrapporsi troppo spesso a uno scenario fantascientifico. Gli afroamericani sono letteralmente discendenti di alieni rapiti dal proprio continente, la cui libertà di movimento è limitata dall’intolleranza, dall’incarcerazione e dalla sperimentazione di tecnologie sul proprio corpo.
Per i cittadini afroamericani gli Stati Uniti possono in qualsiasi momento ritornare a essere una nazione aliena, come dimostrano i fatti di Ferguson e Baltimora.
Dopotutto, a causa di Verne, ancor prima che fosse coniato il termine fantascienza, nella Francia di fine Ottocento i romanzi di questo genere venivano indicati come viaggi meravigliosi, dei quali il Middle Passage e la diaspora africana forniscono una variante sinistra. Esperimenti come quello di Tuskegee, condotti negli Stati Uniti dapprima sugli schiavi e poi su prigionieri o cittadini di classi disagiate, non porta che a confermare l’impressione distopica di Dery.
A questa pesante memoria storica si aggiunge la mattanza di uomini e donne neri disarmati da parte della polizia, oltre il doppio rispetto alle vittime di altre identità razziali. Nonostante sia passato oltre mezzo secolo dalla fine della segregazione razziale, e sei anni dalla prima elezione di Obama, per i cittadini afroamericani gli Stati Uniti possono in qualsiasi momento ritornare a essere una nazione aliena, come dimostrano i fatti di Ferguson e Baltimora.
Quando è stato coniato il termine Afrofuturismo le rappresentazioni del futuro e del dominio sulla tecnologia rimanevano soprattutto appannaggio dei WASP (white anglo saxon protestant), così come tuttora la Silicon Valley trascina con sé un grosso problema di inclusività delle minoranze. Rappresentare un soggetto afroamericano in controllo di avanzate forme di tecnologia, significa aprire altri orizzonti di senso rispetto a un futuro che sembra già di proprietà del potere tecnocratico vigente.
Chi rimane fuori da questo divario può, tuttalpiù, appropriarsene e dirottarne gli strumenti per scopi eversivi. Da questo punto di vista la tecnologia stessa è costruita con meccanismi simili alla magia: è conosciuta e controllata da una minoranza di iniziati e la massa può solo interfacciarsi ad essa senza padroneggiarne del tutto i meccanismi occulti. Un chiaro esempio è il modo in cui il padrino del dub Lee “Scratch” Perry si è appropriato delle strumentazioni di produzione e registrazione di suono, modificandole per produrre suoni visionari e innovativi. Perry maneggiava l’attrezzatura con un approccio tra la scienza del suono e un Obeah man, connettendo la tecnologia al linguaggio tramite benedizioni, manipolazione dei nastri registrati e rituali inventati.
Una convivenza analoga tra magia e tecnologia digitale è la pratica del Sakawa, un fenomeno che unisce magia e moderne frodi online diffusosi in Ghana nell’ultimo decennio. I giovani scammers adescano le proprie vittime in rete per estorcergli del denaro e, per riuscire al meglio nella propria impresa, praticano rituali, spesso in forma di sacrifici, per propiziarsi il sostegno di forze spirituali.
Oltre ad aver stimolato la cultura popolare ghaneana, questa commistione di tecnologia digitale e rituali occulti è stata bollata dal governo e dal clero come segno della pigrizia delle nuove generazioni, ma in realtà nasconde un profondo problema di disoccupazione giovanile e di rapporto con le classi e le generazioni che detengono e concentrano su di sé potere e ricchezza. Lettres du Voyant, un documentario realizzato dal regista inglese Louis Henderson, pone il Sakawa in una diversa prospettiva, mostrandolo come un altro lato di quello che possono rappresentare le tecnologie digitali nell’Africa contemporanea. Un metodo postcoloniale per estrarre dalla rete l’oro che è stato rubato al Ghana durante lo sfruttamento delle potenze occidentali, scavando letteralmente nelle discariche per estrarre email, dati bancari e altre informazioni utili dagli hardisk di computer da tutto il mondo.
A venir meno è l’immagine esotica dello stesso continente africano, rappresentato continuamente come una “terra degli spiriti”; Wanuri Kahiu, la regista keniana che ha girato il cortometraggio fantascientifico Pumzi, lamenta proprio la dominazione delle ONG sull’immaginario del continente africano e del proprio paese d’origine, dove è molto difficile ottenere i fondi per girare film che non trattino di tematiche umanitarie.
Quasi per definizione, le invenzioni afrofuturiste lavorano per l’abolizione degli stereotipi sull’Africa: un mese fa il critico musicale Philip Sherburne ha pubblicato un articolo su Pitchfork intitolato Drexciya, Lamin Fofana, and What Techno Can Teach Us About the Migrant Crisis. Nel pezzo, oltre a ripercorrere il mito drexciyano sopra descritto, Sherburne introduce il lavoro di Lamin Fofana, un giovanissimo producer di origine sierraleonese di stanza a New York che ha dedicato il suo ultimo EP alle morti dei profughi nel Mar Mediterraneo. Another World, la seconda traccia del disco, non è altro che una sintesi digitale del suono delle onde, né più né meno: alle incalcolabili vittime del mare che, ciclicamente, sono costrette ad un rapimento forzato, Fofana altro non può fare che augurare un futuro a Drexciya.
Trasportato fuori dal contesto in cui è stato per la prima volta coniato, senza bisogno di navicelle spaziali alla Mothership Connection, l’Afrofuturismo si è esteso in tante forme a significare ogni rappresentazione del futuro in chiave black, forse perdendo parte del significato che aveva in partenza, forse a causa del suo potenziale di riappropriazione culturale dell’avvenire, di sicuro aprendosi a un insieme di fantasie, racconti e idee presenti anche nelle letterature, nei racconti orali, nelle cinematografie e in altri discorsi culturali costruiti nelle diverse realtà dei cinquantaquattro stati africani.
Simone Bertuzzi è il fondatore di palmwine.it, un sito dedicato a movimenti, suoni e immaginari del mondo post-globale. Come dj, suona regolarmente proponendo sonorità border-crossing catalogabili sotto la definizione di Tropical Bass. Marta Collini vive a Milano e lavora nell'antropologia dei consumi per MEMEThic Lab. Si è laureata con una tesi sulla fotografia di studio in Iraq dopo aver collaborato alla rivista Girls Like Us e progettato una mostra fotografica al Tropenmuseum di Amsterdam.