Giornalismo emotivo, colonnine destre, tabloidizzazione imperante, approssimazione e rapporti col potere: il giornalismo italiano è davvero uno dei peggiori al mondo?
C’è una vignetta di Quino, l’autore di Mafalda, che risale a più di quarant’anni fa e che è più attuale che mai. Senza che ve la stia a descrivere, la vignetta è questa:
“I giornali parlano sempre più dell’inquinamento dell’aria”, esordisce Mafalda. E la sua amica Libertad risponde: “I giornali! I giornali inventano la metà di quel che dicono! E se a questo sommiamo che non dicono la metà di quel che succede, il risultato è che i giornali non esistono!”. È una vignetta che trovo significativa sia nel contenuto che nell’atteggiamento dei personaggi. Questa vignetta è significativa perché ci dice due cose: la prima è che la percezione che i giornali omettano o inventino notizie non è recente, non è soltanto italiana, è più vecchia di Grillo e anche dei recenti populismi; la seconda è un tantino più complessa e ci tornerò a breve, perché prima andrebbero elencati i fattori che rendono i maggiori quotidiani italiani uno schifo.
Lunga storia di una colonna destra
Due anni fa, un’amica che faceva uno stage in uno dei maggiori quotidiani del paese mi ha raccontato come funziona la filiera produttiva della famigerata “colonna destra”: è una redazione di svariate persone (pochi giornalisti e per il resto stagisti) che si dedica a cercare le notizie più assurde sul web. Lo stagista che trova la notizia più bella del giorno ottiene addirittura gli applausi e l’approvazione dei colleghi, e se la trovata è ottima può anche finire sulla famosa fotogallery (che a volte è interamente ripresa da siti come Buzzfeed).
Sembra quasi di essere in una di quelle start up in cui non pagano ma chiedono un atteggiamento positivo e ottimista. Si tratta comunque di una caccia costante alle migliori assurdità che possano generare click. A scanso di equivoci parliamo di notizie di questo genere:
Raccontata in questo modo viene da ridere; eppure provate a riflettere su quanto tutto questo possa essere frustrante per un aspirante giornalista, probabilmente sottopagato. Non dovrebbe quindi meravigliare se a rimanere a galla, in un processo del genere, siano solo due tipi di persone: da una parte, quelle che per sopportazione o mancanza di pensiero critico non vedono problemi in questo tipo di “notizie”; dall’altra quelle che possono permetterselo dal punto di vista economico, perché fare uno stage o un lavoro sottopagato per molto tempo non è un lusso da tutti. Spesso poi, ed è lì che nascono i maggiori problemi, le suddette tipologie di persone si incontrano e coincidono.
Ne consegue che già nel “reclutamento” di nuovi giornalisti, le testate assorbano persone che non hanno alcun interesse a metterne in discussione la crescente tabloidizzazione. Ma i contenuti “da colonna destra” rappresentano anche un problema molto più complesso, aggravatosi nel tempo. Non è certo una novità che in Italia non è mai esistita la divisione tra tabloid e stampa di qualità come in Inghilterra1, e gossip e notizie soft hanno sempre trovato spazio nei quotidiani “maggiori”. Tuttavia la crisi economica che ha attraversato (e attraversa ancora) l’editoria, unita all’avvento di internet – e quindi alle diverse abitudini degli acquirenti che una volta leggevano solo un quotidiano – ha peggiorato le dinamiche del mercato dell’informazione.
Insomma, da una parte è cambiato il lettore, al punto tale che chiamarlo semplicemente lettore risulterebbe oggi anacronistico; dall’altra le testate hanno concentrato sempre più risorse per preservare o generare visite, e nel farlo hanno individuato nella colonna destra la scorciatoia più facile. Oggi questa scelta editoriale non solo si sta rivelando poco efficace sul piano economico, ma ha contribuito in maniera sensibile ad abbassare il livello del discorso.
Prima ho usato le espressioni filiera produttiva e mercato dell’informazione non a caso. Dopo essere venuto a conoscenza delle dinamiche con cui viene gestita una colonna destra, ho iniziato a chiedermi quante persone effettivamente ci lavorassero e come si organizzassero per generare nuovi contenuti a getto continuo: l’ossessione di dovere sempre e comunque scrivere qualcosa.
Quando parliamo di mass media dobbiamo pensare alle “notizie” come a dei prodotti di massa, progettati per raggiungere un target definito e spesso concepito in modo antiquato: i lettori cioè, vengono ridotti a un numero da vendere agli inserzionisti. Quello che le testate sembrano non aver capito, è che i lettori sono diventati consumatori attivi che, quando si sentono presi in giro, hanno a disposizione una voce per esprimere il proprio disappunto, e che di conseguenza il rapporto tra giornalisti e lettori non è più di tipo passivo come nella comunicazione broadcast.
E pensare che la Repubblica nacque come “secondo giornale” d’approfondimento per un pubblico già informato sui fatti. Com’è stato possibile, per il quotidiano romano, passare da un profilo tanto impegnato a diventare la testata che la colonna destra l’ha praticamente inventata, e che seleziona le notizie in base al numero di click che queste otterranno? La prima risposta è che è il modello di business ad aver drasticamente modificato il prodotto finale. La seconda, è che grazie alle metriche delle piattaforme social o a programmi come Google Analitycs, chi genera un contenuto sa cosa attira di più l’attenzione, e viene quindi spinto a scartare i contenuti meno utili in tal senso. È esattamente così che siamo finiti a trovarci notizie “da colonna destra” nella colonna centrale. La tabloidizzazione del giornale, è ormai compiuta.
I tentativi di attirare lettori con contenuti che rasentano il clickbait diventano sempre più ridicoli. Per non fare che un esempio: lo scorso 29 novembre, il Corriere della Sera riportava nella homepage – non nella colonna destra, ma proprio nella colonna principale – questo video (peraltro preso paro-paro dal documentario della BBC Planet Earth, che non viene nemmeno citato nel sottotitolo ma solo più avanti nel testo, dopo un “continua a leggere”, forse nel goffo tentativo di farlo sembrare un contenuto del Corriere):
Oppure: qualche settimana fa Repubblica e Corriere hanno riportato a caratteri cubitali il rifiuto di Bob Dylan di presentarsi a ritirare il premio Nobel. Interessante, certo. Ma lo stesso fatto, sul Guardian e sul New York Times veniva relegato alle notizie secondarie. E che dire della notizia secondo cui Trump sarebbe stato contrario alla Statua della Libertà, riportata in prima pagina dai maggiori quotidiani italiani senza che nessuno capisse che era un pezzo satirico dell’Huffington Post? A quanto pare, ad aver diffuso per prima la non-notizia sarebbe stata l’AGI, Agenzia Giornalistica Italiana, la cui nuova linea editoriale si è fatta subito riconoscere: dal 3 ottobre di quest’anno infatti, l’AGI è diretta da Riccardo Luna.
Dopotutto, sappiamo che in Italia le uniche “inchieste giornalistiche” degne di fare notizia sono quelle sull’identità di Elena Ferrante, uscita su Il Sole, roba che altrove verrebbe considerata come uno scoop da tabloid, un po’ come le innumerevoli scoperte del Sunday o del Daily Mail sul vero nome di Banksy.
Giornalismo emotivo
Questi non-fatti che non sono nemmeno notizie, o a essere buoni queste notizie di poca importanza, vanno a braccetto con un genere di giornalismo paternalista che in Italia non è mai tramontato: il cosiddetto “giornalismo emotivo”. E sappiamo tutti chi è il maestro assoluto di questo genere: Massimo Gramellini coi suoi Buongiorno su La Stampa.
Soltanto nell’ultimo anno, in poche righe lette da milioni di persone, il vicedirettore del quotidiano torinese (fresco di nomina a vicedirettore del Corriere, per giunta) è riuscito a veicolare: stereotipi di genere (in sostanza, le donne in politica non si comportano “da femmine”, se sono aggressive è perché abbracciano il “modello maschile”); inesattezze random (ormai mitologico il passaggio in cui definì la Cina “uno Stato turbocapitalista che espone ancora la falce e il martello nella bandiera”, nonostante non vi sia traccia di falce e martello sulla bandiera cinese); e anche un sano concentrato di sessismo e razzismo condito con un pizzico di islamofobia: il famoso “caso” (sigh…) Alì Italia.
Ecco, proprio quest’ultimo Buongiorno spiega al meglio cos’è il giornalismo emotivo: dunque, secondo Gramellini le nuove divise di Alitalia “coprono” troppo le hostess; questo sarebbe un ovvio segno che il committente delle divise è musulmano (non importa che il designer sia milanese); per Gramellini quindi, il problema sta nell’aver consegnato un bene italiano “nelle mani di una cultura” che non può imporre esempi “in materia di donne”.
Il giornalismo emotivo sta all'informazione come il kitsch sta all'arte: ha la pretesa di informare o far riflettere, ma provoca solo reazioni istintive e peggio che viscerali.
Ora, badate bene, il fallimento di Alitalia o i diritti delle donne negli Emirati Arabi non sono il punto centrale, così come non interessa se Alitalia sia stata venduta a una compagnia aerea e non a una “cultura”. In questi casi i fatti non hanno più importanza delle opinioni, perché senza le divise “brutte” Gramellini non avrebbe mai scritto quel Buongiorno. In fondo, l’obiettivo di questi articoli non è quello di concentrarsi sul contesto o sui fatti, ma piuttosto quello di enfatizzare l’effetto emotivo che provocano cose come le divise di Alitalia o qualunque altro dettaglio irrilevante, e dando quindi la possibilità di diffondere opinioni mediocri e stereotipi della peggiore specie. Il giornalismo emotivo sta all’informazione come il kitsch sta all’arte: ha la pretesa di informare o far riflettere, ma provoca solo reazioni istintive e peggio che viscerali.
Accanto a Gramellini, tra i portabandiera del giornalismo emotivo andrebbero citati parecchi altri editorialisti, dai meno conosciuti ai più gettonati: Vittorio Zucconi, Beppe Severgnini, Roberto Saviano, Andrea Scanzi, Gianni Riotta… Su Riotta in particolare servirebbe un articolo a parte: ci basti sapere che prima ancora di essere stato definito “il contrario del giornalismo” dal premio Pulitzer Glenn Greenwald, Riotta fu considerato per anni un “guru” del web e dei new media in Italia (!). Né il suo passaggio fallimentare per il Sole 24 Ore ha impedito che poi approdasse a La Stampa, dove trova sempre spazio per i suoi editoriali. Esempi del genere però, ci fanno anche capire che il problema peggiore dei giornali italiani non è semplicemente la loro tabloidizzazione.
Il rapporto col potere
A indebolire e affossare definitivamente la credibilità del giornalismo italiano, è innanzitutto il suo rapporto col potere. Mettiamola così: in Italia, quando un uomo con la penna incontra un potente, l’uomo con la penna è un uomo morto – e non per finta. Le poche volte in cui un giornalista fa bene il suo lavoro, rischia infatti di finire nei guai: non a caso sono proprio le minacce di morte per inchieste su corruzione e mafia che hanno portato l’Italia al 77° posto nella classifica sulla libertà di stampa. D’altra parte, se un giornalista non fa bene il suo lavoro… Be’, può anche arrivare in alto ed entrare a far parte dell’élite culturale del paese.
Se però aprissimo un discorso serio sui fantomatici “miti” del giornalismo italiano – direttori, vicedirettori o editorialisti di punta dei maggiori quotidiani – ricaveremmo un panorama davvero desolante. Tanto per essere chiari, parliamo di persone la cui etica e deontologia è stata messa in dubbio innumerevoli volte. Esempio: a gennaio, Maurizio Molinari è diventato il nuovo direttore de La Stampa (succedendo a Mario Calabresi, che è passato a Repubblica). Solo che quando parliamo di Molinari, parliamo della stessa persona che ha scritto un libro sullo Stato Islamico in cui fa coincidere l’Islam con l’ISIS, e al-Qaeda con la resistenza palestinese. E come se ciò non bastasse è stato accusato di plagio con molte prove alla mano.
Non c’è da stupirsi: da anni la stampa italiana adotta i famosi “due pesi e due misure”, specie quando si tratta di conflitti politici. La percezione cambia a seconda degli interessi e della vicinanza geografica delle lotte in corso, perché in fondo il rivoluzionario del vicino è sempre più carino di quello che hai in casa. Non trovate sbalorditivo come le persone che tre anni fa difendevano Gezi Park venissero definite automaticamente dei coraggiosi “freedom fighters”, mentre sempre nello stesso periodo si additavano i NoTav come “terroristi”, un’accusa poi respinta persino dai magistrati?
In questo senso la stampa mainstream diventa davvero omogenea e una testata vale l’altra. Prendiamo ad esempio l’editoriale di Paolo Mieli in cui l’ex direttore del Corriere della Sera, senza alcuna preparazione degna di questo nome, decide di mandare all’aria il dibattito pubblico sul riscaldamento globale negando come nulla fosse le evidenze scientifiche perché in contrasto con le sue visioni politiche ed economiche. E poi c’è quello che resta forse l’esempio più significativo del conflitto tra giornalismo e potere: la controversa intervista esclusiva che Mario Calabresi ha ottenuto con il dittatore Al Sisi qualche mese fa.
Nell’intervista del direttore di Repubblica, non viene portata neanche una critica valida sull’omicidio di Giulio Regeni. Nessuna domanda che cerchi di fare chiarezza sulla mancata collaborazione delle autorità egiziane o sulla responsabilità del regime di Al Sisi nella serie di depistaggi seguiti all’accaduto. Calabresi si limita a definire la collaborazione dell’Egitto “debole e insufficiente”, permettendo ad Al Sisi di smentire senza problemi. Ciò che però impariamo dall’intervista è che Matteo Renzi e il governo sono in ottimi rapporti con il regime egiziano e che questo incidente (…) non dovrebbe interferire nell’ottima relazione tra i due stati.
L’intervista di Calabresi non è un’eccezione: è la norma, e ci dice qualcosa sul rapporto che il giornalismo italiano intrattiene con lo storytelling politico. Un rapporto in cui il giornalista si limita a riportare in modo passivo le dichiarazioni del politico senza indagare oltre. Il che denota l’enorme conflitto di interessi tra media e politica che vige in Italia più o meno da sempre. La dinamica è stata spiegata in modo magistrale dal professore di comunicazione politica Cristian Vaccari – attualmente alla Royal Holloway University of London – durante un panel al Festival Internazionale del Giornalismo di quest’anno. Per Vaccari i problemi sono due e il primo riguarda il fatto che lo storytelling è una tecnica usata per scavalcare il giornalista:
“[…] Il giornalista ha bisogno di storie, il politico gliele dà. Quindi se il giornalista riproduce più o meno acriticamente quello che il politico ha fatto con lo storytelling – se quello storytelling è fatto bene – il giornalista ha la storia, ha già due terzi del suo lavoro fatto. […] Lo storytelling, dal punto di vista del rapporto tra media e politica, è una tecnica di news management. Quindi è un modo per cercare di domare la bestia del giornalismo”.
Ora, il fatto che il giornalista politico italiano non opponga resistenza si collega al secondo problema, ovvero:
“[…] Quando noi parliamo di come i politici utilizzano lo storytelling in Italia, e di come i giornalisti se ne dovrebbero occupare, dobbiamo sapere che in Italia l’informazione non è quasi per niente orientata a perseguire un paradigma di imparzialità, di critica costruttiva alla politica, di watchdog. Il giornalismo politico in Italia non ha questa storia. Il problema del giornalismo critico italiano è che è critico a corrente alternata in base al rapporto di affiliazione che c’è fra il politico che parla e la testata o il programma televisivo che se ne occupa. […] Lo scopo di gran parte dei media italiani non è quello di sottoporre il potere ad uno sguardo critico. Non è di porsi come difensore dei diritti o degli interessi del cittadino, nei confronti dei rischi e abusi di potere, menzogne e false verità, di framing o di manipolazioni della realtà. [lo scopo] È di fare parte di macchine di manipolazione, quindi lo storytelling mette a nudo, secondo me, questo problema. […] la riproduzione acritica dello storytelling è un sintomo di un problema più ampio con il quale in Italia non siamo riusciti a fare i conti […]”.
In Italia, sin dalla loro nascita, i giornali hanno adottato una narrazione degli eventi concorde a quella dell'ideologia che li finanziava e che li aveva generati.
Per il professore Vaccari il caso italiano non è isolato a livello mondiale; ma i fenomeni di questo “tratto storico” non danno segni di miglioramento: in sostanza il problema è sistemico e strutturale. Possono cambiare i direttori delle testate, ma finché ci sarà questo conflitto d’interessi la stampa resterà in simbiosi con l’establishment politico ed economico.
Il tratto storico a cui fa riferimento Vaccari riguarda d’altronde l’origine stessa dei mass media italiani: ne Il giornalismo, che cos’è e come funziona Carlo Sorrentino ha spiegato che in Italia, sin dalla loro nascita, i giornali hanno adottato una narrazione degli eventi concorde a quella dell’ideologia che li finanziava e che li aveva generati, mantenendo quel tipico approccio autoreferenziale di élite-intellettuale che parla a e di un’élite politica. Oggi la crisi economica mette questo approccio alle strette, obbligando le testate a restare in bilico tra il rispondere al potere o il rispondere agli inserzionisti. Inutile dire che il lettore non viene preso in considerazione neppure per sbaglio.
È indicativo notare come la dura regola delle inserzioni pubblicitarie valga anche per Confindustria, che possiede il terzo giornale più venduto in Italia. Come sappiamo, a ottobre la Procura di Milano ha aperto un fascicolo d’indagine sul Sole 24 Ore per un’accusa di falso in bilancio: stando al Fatto Quotidiano, il Sole avrebbe accumulato quasi un miliardo di perdite in 9 anni. Ma la cosa più curiosa è la comparsa in scena di una società registrata a Londra chiamata Di Source Ltd che, per farla breve, doveva occuparsi della gestione e attivazione di abbonamenti ed edizioni digitali. L’ipotesi attuale è che la complicità tra questa società e il Sole abbia potuto portare ad una manipolazione dei dati di diffusione. Insomma, tenendo a mente che il dato della diffusione totale comprende le copie cartacee e quelle digitali, se dico di vendere 109.500 copie digitali sto aumentando la mia raccolta pubblicitaria. Un risvolto interessante per il giornale che si permette di consigliare all’élite politica quali misure economiche adottare e applicare nel paese.
E quindi?
Da questa serie di esempi e vicende si può trarre quantomeno un insegnamento. Innanzitutto dobbiamo dare per assodato che per avere un giornalismo forte è necessaria un’importante indipendenza economica. Perché un sistema che premia le visite e non la qualità mette in secondo piano l’etica, porta a un giornalismo debole e servile, oltre che al clickbait. E tutto ciò, in ultima istanza, si tramuta in un prodotto che non tiene conto né rispetto del lettore.
Al tempo stesso, se la verifica di un fatto comporta autorevolezza e quindi credibilità, l’assenza di verifica non può che comportare lo screditamento della testata, creando una sensazione di inattendibilità che alimenta il populismo e porta le persone a dire ciò che dice Libertad nella vignetta di Quino. Certo, la vignetta è stata disegnata più di 40 anni fa in Argentina, quando c’era un regime militare e i giornali erano, appunto, totalmente assenti. Oggigiorno il populismo si presenta in altre forme, e forse non è un caso se l’Italia è stato il luogo dove l’esperimento politico di Gianroberto Casaleggio ha preso piede.
Ancora prima della Brexit, di Trump o dell’avvento dell’Alt-Right, in Italia è comparso un partito politico che ha preso il maggior numero di voti alle ultime elezioni dichiarando “guerra aperta” ai giornali. In fondo il M5S non ha fatto altro che cavalcare un sentimento diffuso per ottenere il consenso di persone che legittimamente dubitano dei media e del potere: d’altronde, se i giornali non informano più a dovere, scatta un circolo vizioso in cui le persone smettono di fidarsi e vengono manipolate dalla propaganda politica (bufale e meme creati ad hoc compresi). Il problema dunque non sono tanto le bufale su Facebook: queste semmai sono la conseguenza di un cattivo sistema mediatico. Dopotutto se la gente non crede più ai media, i politici difficilmente verranno smentiti; e se smentita ci dovesse essere, desterebbe comunque poca attenzione. Quindi ecco la seconda ragione per cui la vignetta di Quino è significativa: un giornalismo debole aiuta il populismo a prosperare.
Il concetto di servizio pubblico è morto da un pezzo e quello che resta è un'élite di persone pronte a produrre notizie come si producono cereali zuccherati: in serie e preconfezionati a seconda dell’effetto che vogliono provocare.
Trovo incredibile come molti giornalisti non abbiano ancora capito che attaccare il M5S in modo infondato è controproducente: conferma il frame di Grillo, secondo cui i media sono “collusi” col potere e li prendono di mira, aiutando a creare quella contrapposizione “noi vs. loro” che tiene insieme il caos alla base del movimento. Se Grillo viene paragonato gratuitamente a boss mafiosi – come ha fatto Francesco Merlo su Repubblica – è impossibile dargli torto quando afferma che i media ce l’hanno con lui: siamo ai livelli di Vanity Fair nel 2013, che a ridosso delle elezioni ha attaccato Grillo per via della condanna per un incidente stradale risalente a trentuno anni prima. Ancora una volta: notizie che non erano notizie.
Oggi questo trend continua: la recente accusa di un’ipotetica “Struttura” di cyber propaganda legata al M5S, che Jacopo Iacoboni ha portato avanti su La Stampa, si basa su uno studio di metadati e “analisi matematiche” di cui però Iacoboni non riesce a rendere conto, sollevando più di un dubbio tra i suoi colleghi. Ironico che nel frattempo La Stampa abbia conferito un premio a Iacoboni per la sua “inchiesta”.
In questo contesto il concetto di servizio pubblico è morto da un pezzo e quello che resta è un’élite di persone pronte a produrre notizie come si producono cereali zuccherati: in serie e preconfezionati a seconda dell’effetto che vogliono provocare. E non contenti di essere artefici della propria rovina, le testate, i loro direttori e le élite giornalistiche accantonano l’autocritica e salgono in cattedra: la colpa è del web o dei webeti, della massa ignorante – nella declinazione post-Brexit narrata come conflitto tra “vecchi” e “giovani” – o persino delle piattaforme social, come se il problema delle notizie false potesse risolversi grazie a un algoritmo che ne vieti la proliferazione, quando invece sono proprio loro – le testate – che, per portare click al loro sito, spesso diffondono per prime queste notizie che invece dovrebbero verificare.
Dare la colpa sempre al lettore fa parte di un approccio politico-pedagogico – questo sì, tipicamente italiano – che appartiene alla professione sin dai tempi dell’Unità d’Italia e poi del dopoguerra, quando non solo i mass media hanno contribuito a forgiare l’opinione pubblica, ma hanno persino insegnato l’italiano standard a persone che parlavano solo il dialetto. Peccato che dal dopoguerra sia passato più di mezzo secolo, ma evidentemente la voglia di “educare” il popolo è un retaggio storico che il giornalismo italiano fa fatica a estirpare.
1 Tanto per essere precisi, la divisione esatta sarebbe Broadsheet (stampa di qualità), middle-market (quotidiani popolari alla Daily Mail) e Tabloid (scandalistici, come il Sun). In Italia, non essendoci una distinzione precisa, i quotidiani hanno sempre cercato di coprire le tre categorie. Il primo in Italia a tentare un’analisi seria su questo fenomeno è stato Alessandro Gazoia, in arte Jumpinshark, sul ebook “il Web e l’arte della manutenzione della notizia”.
Nato e cresciuto in Argentina, vive in Italia da circa 10 anni. Ha studiato presso la SSLMIT - Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori e ha una laurea magistrale in Mass Media e Politica. Scrive in rete da svariati anni con lo pseudonimo "anonimoconiglio".