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Più che un semplice disco 22, A Million sembra un tentativo del cantautore americano di “controllare il mondo”.

“Quando abitavo a Parigi stavo in un quartiere un po’ fuori mano. Ci arrivava la metro e tutto il resto, ma nella geografia locale non era ancora considerato uno di quei posti ‘futuribili’. Alla fine mi ci trovavo bene. Poi, qualche giorno prima della mia partenza, ho visto che stavano arrivando loro. I creativi. I nuovi abitanti. Con le loro buste del verduriere e i loro tatuaggi simmetrici e geometrici”.

Il racconto di questa mia conoscente è una storia di normale coesistenza contemporanea. Sei a Parigi, a Londra, a Berlino, a Milano, a Barcellona e cerchi di convivere nel quotidiano con le tue idiosincrasie, le tue aspirazioni, i tuoi tentativi di gestire le ansie, le contraddizioni, le ambizioni. Abbiamo tutti quanti letto troppa letteratura sul caos, sulle conseguenze della globalizzazione e la finanziarizzazione, sull’impossibilità di gestire tutto e di come la “mania del controllo” sia quanto di più difficile da realizzare nel mondo a venire. Sappiamo che l’unica cosa che ci rimane, per controllare e gestire se non il mondo almeno il nostro mondo è andare per tentativi. Anche stupidi. Anche naif. Anche banali. Come i tatuaggi. Io non ho tatuaggi e penso non me ne farò mai, ma so che anche quando dietro i tatuaggi non ci sono storie, sono comunque un tentativo di fare o dire qualcosa.

Negli ultimi tempi sono sempre rimasto affascinato dai tatuaggi geometrici. Triangoli. Linee. Segmenti. Quadrati. Forme astratte. Precise, indirizzate, nette. Se intendiamo il corpo come campo di battaglia, allora questi tatuaggi sono un tentativo di inscrivere il corpo nella gestione quotidiana del caos. La geometria, assieme alla matematica, è un principio ordinatore del mondo. Forse il più efficace che ci siamo dati noi esseri umani per tentare di controllare, capire, interpretare e “agire” sul mondo.

Justin Vernon + tatuaggio.

Tra i vari tatuaggi che raccontano il corpo di Justin Vernon, c’è un triangolo spesso sul braccio destro; sull’avambraccio destro invece ha una serie di simboli e segni altrettanto geometrici che servono a “ricordami quello che è importante per me”; sul petto c’è il profilo del Wisconsin, con la sua forma chiusa, quasi quadrata, e i confini che – come da tradizione americana – sembrano tracciati col righello: l’uomo che cerca di dare un ordine alla natura. Simboli chiusi. Forme che ordinano. Creano un sistema. Contribuiscono a mettere gli elementi in prospettiva.

Quando Justin Vernon/Bon Iver ha esordito nel 2007 con For Emma, Forever Ago gli appassionati di indie rock – dai semplici ascoltatori ai vari livelli di addetti ai lavori – hanno esaltato il lavoro credendo di stare assistendo all’esordio del nuovo cantautore tutto sommato tradizionale ma in grado di collegarsi, in un periodo storico particolare, all’allora emergente sensibilità new sincerity. In quelle canzoni, della cui genesi ormai conosciamo tutto, stava prendendo forma una personalità che, nonostante cercasse di nascondersi come corpo e volto, raccontava una storia attraverso uno svelamento totale dei sentimenti, delle sensazioni e delle paure. Nel 2007 ancora pochi illuminati erano definitivamente usciti dalle analisi culturali sulla musica basate sulla contrapposizione manichea, la categorizzazione in generi e la tendenza a storicizzare ogni fenomeno infilando qualsiasi nuovo artista all’interno di una linea di pensiero e una serie di cause storiche ben definite; per dire, quando nel 2007 parlavi di Simon Reynolds, lo usavi per la sua conoscenza enciclopedica, non per la sua capacità di mettere assieme i puntini che usava la musica pop come chiave di interpretazione dei cambiamenti sociali e politici del Novecento (adesso Simon Reynolds viene usato come “rifugio” per giustificare qualsiasi analisi ombelicale pubblicata su qualsiasi sito internet a caso, ma questo è un altro discorso).

Da quel disco sono passati quasi dieci anni. Nel mentre, Justin Vernon/Bon Iver (a proposito: possiamo fare i precisi dicendo che tecnicamente Bon Iver non è uno pseudonimo ma il nome del progetto che ha in Vernon il suo centro, ma è una questione trascurabile) è diventato un artista centrale dell’attuale panorama musicale. Non solo indie. Del suo rapporto con Kanye West se ne è letto ovunque. Così come del divertente caso del Grammy vinto nel 2012, che ha generato una selva di commenti infuriati sui social network di gente che di Bon Iver non aveva mai sentito parlare e che si chiedeva chi cazzo fosse “Bonny Bear”.

Who the fuck is Bonny Bear.

E poi: le collaborazioni con gente tipo James Blake. I featuring. Il secondo disco – Bon Iver, Bon Iver – in cui si è cercato di portare più avanti la sua ricerca musicale partendo dal folk ma contaminandolo, riadattandolo, sporcandolo e ampliandone le prospettive anche attraverso la famigerata voce effettata. Disco in cui convivono “Beth/Rest” e “Holocene”. Ma soprattutto il lavoro con i Volcano Choir, il cui disco Repave è altamente significativo non solo per la bellezza delle canzoni (una questione soggettiva, alla fine) ma anche e soprattutto perché territorio di sperimentazione in cui Vernon affina la sua ricerca stilistica attorno a una voce contaminata e destrutturata e per la formazione di una sorta di neo-lingua.

In quella collaborazione di ormai tre anni fa, Justin Vernon inaugura una ricerca architettonica per la parola, per la forma, che si apre, si rovescia, si destruttura, diventa “pura immagine” (in “Comrade”, ad esempio: “Said that we could go back / Said that we could go find / Terra-forming! / Said that you were coke blind / Drinking in dramnesic / Tore out at the comrade”). Come se si tendesse a un’essenzialità capace di superare sia il dualismo modernità/postmodernità, sia il neo-pauperismo neo-sincero. La forma si condensa in parole che, da sole, riescono a diventare una vera parte del tutto. In questi anni, Justin Vernon è diventato sempre più “corpo” Bon Iver. Un vettore di significati complessi alla ricerca di una dimensione sua definitiva in grado di unire il personale e il pubblico.

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10 d E A T h b R E a s T ⚄ ⚄.

C’è una costante nel nuovo progetto 22, A Million. Il disvelamento. Justin Vernon/Bon Iver si nasconde dietro numeri, suoni, gli effetti che alterano la voce, una lingua sempre più enigmatica (“I’m unorphaned in our northern lights / Dedicoding every daemon / Taken in the tall grass of the mountain cable / And I cannot seem to find I’m able”), dietro parole iniziatiche e una simbologia che parte dalla geometria dei riferimenti grafici (la copertina) per arrivare ai titoli delle canzoni, piene di caratteri ASCII. Il volto di Vernon, poi, a conferma del suo complicato rapporto con la celebrità, la fama, il suo essere personaggio pubblico che soffre di attacchi di ansia e di depressione, non viene mai fotografato nella sua interezza. Sono sempre dettagli. È sempre un campo ingombrato.

Nel video di 22 (OVER S∞∞N) poi – canzone dalla cui frase/mantra “It might be over soon” è partito tutto il concepimento del disco – il volto, preso dal naso in giù, sparisce in una fotografia incendiata (Vernon ha recentemente parlato al Guardian del suo rapporto con le fotografie in questi termini: “I’ve played the game enough, and next time I probably won’t do photos at all. The more years that go by where there’s no pictures of me, the more that will happen. It’s my self-preservation thing.”). Nascondersi come meccanismo di opposizione e tentativo personale di “controllo” del mondo. Nascondersi, però, non più per costruire un mondo nuovo seguendo un posticcio e francamente ridicolo progetto alla Thoreau, una fuga dalla propria autobiografia per cercare una supposta e inesistente “purezza”, “sincerità”, o il “centro” delle cose; ma secondo una costruzione nuova, una ricerca ossessiva del linguaggio fondendo appunto una musica che diventa frammento infinitesimale, capace di intercettare i tempi e gettarsi dentro da una prospettiva critica, e una lingua che nasconde inventando.

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29 #Strafford APTS.

È un tentativo di controllo del mondo perché riesce a mettere tutti gli elementi in prospettiva ed essere la parte finale di un percorso: dall’esilio dal mondo, all’esilio nel mondo costruendosi la propria base operativa nella cittadina di Eau Claire nel Wisconsin. Come se nelle parole intermedie della vecchia “Holocene” (“And at once I knew I was not magnificent / Strayed above the highway aisle Jagged vacance, thick with ice / And I could see for miles, miles, miles”) ci fosse la presa di coscienza di un passaggio epistemologico e culturale. Il senso di una fine. Ed è un senso che si esprime attraverso forme geometriche che segnano una strada; una musica che si segmenta in campioni, frammenti, piccoli spunti che questa strada la puntellano; una voce che non descrive più una realtà che vede ma una prospettiva interna, una ricerca dentro il sé che non può che essere – appunto – disvelatrice. Bon Iver guarda il mondo da un rifugio situato al suo centro.

Gli articoli che stanno uscendo in questi giorni stanno cogliendo molte cose giuste. Molte cose ovvie. Molte cose che a un semplice primo ascolto – trascendendo l’aurea categoria pre-critica della noia – emergono spontanee. Raccontare, però, 22, A Million solo attraverso la musica è altamente riduttivo. Guia Cortassa su The Quietus ha scritto di paesaggi “psicogeografici”, andando proprio verso quella sensazione di creazione di uno spazio capace di conciliare il personale profondo e l’universale, usando tutto questo come tentativo di controllo. Hua Hsu, sul New Yorker, titola il suo articolo alla “nuova voce”, parlando di fuga forzata da una “comfort zone”, ma sbaglia la prospettiva quando scrive: “Vernon seemed like an artist from the past transported to the present, his selfies rendered as daguerrotypes”.

Sbaglia perché cerca di inserire gli elementi nella solita e vaga prospettiva storica. Qui, invece, stiamo parlando di qualcosa di nuovo: the artist from the future. Un “futuro” che è sì legato allo spazio psichico costruito da social network, capitalismo finanziario, deriva tecnologica totale e una totale atomizzazione dell’essere umano; ma è anche legato a strategie di resilienza, di consapevolezza nei propri mezzi e limiti e capacità di usarli come elementi per disegnare una nuova (forse) traiettoria precisa. Qui non sono selfie che diventano dagherrotipi. Stiamo proprio parlando di qualcosa di completamente diverso, che ancora non siamo in grado di identificare. È questa contraddizione profonda che secondo Jon Pareles del New York Times rappresenta un paradosso della dualità.

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8 (circle).

22, A Million è un tentativo di sintetizzare il suono di questo mondo, filtrandolo attraverso paesaggi mentali, e tentando il controllo sulla materia impalpabile attraverso ogni strategia possibile. Justin Vernon/Bon Iver ha viaggiato in lungo e in largo ma è tornato a Eau Claire, ci ha costruito il suo osservatorio in cui è riuscito a mettere ordine nel caos. Ha sciolto i nodi analizzando le dinamiche cui è passato attraverso. È passato dal rifiuto del mondo (For Emma, Forever Ago) alla sua accettazione e seguente tentativo di “azione” anche con una presa di coscienza e l’inizio della nuova via (il passaggio Bon Iver, Bon Iver con i suoi titoli geografici a disegnare una mappa e le sue sonorità elettroniche, folk e “arena” e Repave come Volcano Choir).

È come se in questa “rarefazione espansa” della musica, questa frammentazione che cerca di catturare la totalità e non indugiare sul particolare, in questo tentativo archetipico di disegnare il futuro, Justin Vernon mostrasse un modo per l’uomo bianco di affrontare e fare musica nel XXI Secolo. Come se ci fosse la piena consapevolezza della dualità tra l’introspezione totale, la rinuncia allo spazio pubblico, e la necessità di recuperare un senso di totalità e condivisione collettiva (ad esempio il passaggio tra 21 M♢♢N WATER e 8 (circle)). È il tentativo di un uomo di “agire” sulla sostanza, sulla materia, e costruirne una non a sua immagine e somiglianza, ma a immagine e somiglianza di una “idea” (anche perché questa immagine, l’immagine di Justin Vernon, è lasciata fuori campo quando non bruciata, appunto). Insomma, archiviato l’olocene, facendo entrare l’uomo bianco nel suono del nuovo mondo, Bon Iver ha forse scritto il primo disco dell’antropocene.

Hamilton Santià
Abita a Torino da trent'anni. Ha un dottorato. Si occupa di comunicazione politica. Collabora con vari siti e riviste ma lo trovate principalmente su Rolling Stone.

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