Ovvero: come tornare a immaginare il tempo libero in tempi di automazione totale e robot che “ci rubano il lavoro”?
Da qualche tempo, il mio amico Valerio Mannucci ha deciso di documentare (scherzosamente) le innumerevoli varianti che il sostantivo “aperitivo” va conoscendo in giro. C’è l’aperimentari, l’aperitual, l’aperipiper for aperipeople (il mio preferito), insomma, immagino sappiate di cosa sto parlando. Ora: questo diluvio di variazioni sul tema, può essere interpretato come ultimo, grottesco lascito della food-hipsterizzazione eataliana, o più semplicemente come sintomo della decadenza morale che unisce tutti i Pigneti e le NoLo (l’ho detto!) del pianeta. Ma è anche la dimostrazione della centralità che questa piacevole abitudine tardo-pomeridiana, nata nel Nord Italia in un evo leggendario che a seconda delle fonti varia dalla Torino pre-unitaria alla Milano da bere, ha preso a esercitare in quello spaccato biografico-esistenziale che a suo tempo avremmo catalogato alla voce “tempo libero”.
Anzi, più che di centralità parlerei a questo punto di colonizzazione. Nel senso: io potrei pure buttarvi lì che, nella mia personale graduatoria di priorità quotidiane, il fantomatico “rito dell’aperitivo” occupa una posizione pari alle tecniche di rilegatura senza filo nelle edizioni antiche: e cioè molto, molto in basso. Ma la realtà è che questa fiumana di aperiqualcosa ha preso a infiltrarsi in maniera invadente nei discorsi, nei commenti, nello stesso immaginario con cui quotidianamente mi confronto. Per dire, c’è quest’altro mio amico, si chiama Toni e gestisce un locale per concerti piccolo ma piuttosto noto a Roma, e lui questa cosa degli aperitivi l’ha presa mica tanto bene. Perché il suo locale apre solo attorno alle 10 di sera, e “se alle 10 sono già tutti ubriachi e stanchi perché è dalle 7 che bevono IPA e mangiano cicchetti veneziani, ai concerti chi ci viene più?”. Ho pensato a lui quando ho letto che anche in Inghilterra i giovani hanno smesso di passare la serata fuori. Basta clubbing e concerti notturni: è tempo di chillout, di birrette, insomma di aperitivi, diciamo.
Come ha fatto, questo rito quintessenzialmente interstiziale, questa cerimonia nata come breve passaggio che chiude la giornata lavorativa, a mangiarsi tutti quei momenti di cui era preludio nei meravigliosi giorni in cui a uno spritz non corrispondeva la totalità delle interazioni sociali? Prendiamo l’esempio più ovvio e da quel che capisco comune, quell’obbrobrio lessicale noto come “apericena”: già dal nome, denuncia l’arbitraria fusione di due momenti distinti e appartenenti a sfere umorali sulla carta diverse (l’aperitivo e la cena), che vengono riunite sotto un unico cappello e in sostanza ottimizzate secondo la più classica formula del risparmio di tempo e risorse. Se poi torniamo alla testimonianza dell’amico Toni, notiamo anche che la dilatazione temporale dell’evento-aperitivo è arrivata al punto di sottrarre ore alla notte, che non è un particolare da poco – perlomeno se continuiamo a interpretare la notte come quella parte della giornata in cui vengono sospese convenzioni, gerarchie e ruoli. D’altronde, è questa una qualità già messa in crisi dalle recenti politiche 24/7.
C’è infine un ultimo, decisivo dettaglio: la prosecuzione della sfera lavorativa all’interno di una cornice nominalmente ascritta al tempo libero. “Che cazzo sta dicendo”, vi domanderete voi. Niente di particolarmente bizantino: semplicemente, dico che agli aperitivi la gente parla di lavoro. E in questo senso, continua a – uhm… – lavorare, appunto. Questo è particolarmente evidente se pensiamo alla “classe creativa” che è poi la naturale destinataria di tutte le apericene da qui a Isola. “Chi va sempre agli aperitivi?”, si chiedeva retoricamente una ben nota firma di Prismo in una conversazione privata; “Gli artisti, i freelance: per trovare nuovi lavori”. Sapete com’è: tra uno spritz e un piatto di nachos magari si stringono rapporti, si stabiliscono contatti, si valutano occasioni. Ne consegue che, se l’aperitivo è un modo di estendere surrettiziamente la sfera lavorativa in territori ove questa prima era negata, e se l’intera vita sociale dell’individuo si riduce all’equazione tempo libero = aperitivo = business… be’, l’avrete capito: abbiamo messo a prodotto finanche quell’oasi di improduttività che pure ci eravamo ritagliati come via di fuga dagli obblighi del lavoro salariato.
E vabè dai, sto esagerando. È tutta un’iperbole (forse). Poi la ben nota firma di Prismo mi accusa di essere troppo psichedelico (lo dice come se fosse una cosa brutta), quindi ribadiamolo: c’è vita oltre l’aperitivo. Almeno mi sembra. Ma la realtà è che non sto dicendo nulla di particolarmente nuovo, strambo o schizzato. La sempre più pressante intrusione del lavoro in aree della vita privata che ne credevamo immuni, è un fatto ampiamente studiato e, oserei dire, comunemente accettato – qualcuno anzi lo rivendica pure, ma poi ci torniamo.
L’ultimo saggio che ho letto sul tema (il lavoro, non gli aperitivi) l’ha scritto il sociologo inglese David Frayne e si intitola, guarda un po’, The Refusal of Work. Racconta le storie di persone che, a un certo punto, semplicemente non ce l’hanno fatta più e hanno smesso di lavorare, o quantomeno hanno sensibilmente ridotto le porzioni della propria vita dedicate ad attività professionali di varia natura. Il Financial Times ha parlato del libro come di “un’utile provocazione” ma ammette anche che la lettura “feels liberating”. E se lo dicono loro!
Nella prima parte del libro, Frayne è molto bravo a ricostruire i meccanismi che hanno portato il lavoro a occupare una posizione non semplicemente centrale, ma direttamente totalizzante, nelle nostre biografie individuali. Al di là degli aspetti economici (“se non lavori non hai di che vivere”), di fondo c’è un dato etico: “non lavorare” è uno stigma sociale, persino in tempi di insicurezza, precarietà e bassi salari. Nemmeno il fatto che la maggior parte delle persone detesti il lavoro che fa sembra scalfirne la supposta sacralità, e nemmeno la disoccupazione di massa è riuscita a mettere in discussione l’aura moralizzante del “lavorare duro”. Anzi: “per quanto i disoccupati siano tecnicamente fuori dal mondo del lavoro, non significa che ne siano liberi (…). In una società lavoro-centrica, la disoccupazione è una terra di nessuno: un tempo morto degradato da preoccupazioni finanziarie e isolamento sociale”.
Se da una parte i periodi di non lavoro sono ansiogeni episodi di ricerca del lavoro stesso, dall’altra, quando il lavoro c’è, è un’occupazione inaffidabile e incerta (e generalmente malretribuita), che però richiede un grado di “partecipazione emotiva” sempre maggiore: la knowledge economy insiste molto sulle qualità morali dell’aspirante lavoratore, che deve immancabilmente essere estroverso, brillante, capace di lavorare in squadra, ecc ecc. Se una volta, ricorda Frayne, al lavoratore veniva chiesto di lasciare le proprie qualità umane a casa e di alienarsi alla catena di montaggio, adesso “ai lavoratori viene espressamente chiesto di portare con sé le proprie emozioni, personalità e individualità”. Non stupisce quindi che si verifichi anche il processo inverso, e cioè che il lavoro contamini a sua volta quel dominio per definizione ascritto alle “emozioni” e alla definizione della propria personalità: l’ormai vagheggiato “tempo libero”, vale a dire il tempo degli affetti, dello svago e del piacere. E delle apericene, giusto.
Sotto l'apparentemente innocua patina del consiglio motivazionale, si cela una precisa visione che è assieme antropologica, economica, politica e diciamo pure filosofica, oltre che la giustificazione morale per una vita di merda.
Tutti questi passaggi suonerebbero come un incubo (e lo sono) se non avessimo introiettato da tempo il caro vecchio adagio “siate imprenditori di voi stessi!”. E cioè: inventatevi qualcosa, state sempre all’erta, occhio alle occasioni che vi passano sotto il naso, tenetevi aggiornati, lasciate lo smartphone acceso, rispondete alle email la domenica a mezzanotte, fregatevene degli orari, frequentate più apericene. Sotto l’apparentemente innocua patina del consiglio motivazionale, si cela insomma una precisa visione che è assieme antropologica, economica, politica e diciamo pure filosofica, oltre che la giustificazione morale per una vita di merda. Ma oh, magari a qualcuno piace.
Il fatto però è che questa visione (non dirò “sulla quale regge l’intero sistema economico-politico attuale” perché poi mi segnalano a È tutta colpa del neoliberismo), che assieme alle business-apericene ci ha lasciato in eredità altri pregevoli articoli chiamati “ansia & depressione”, rischia giorno dopo giorno di apparire non solo sempre più ingiusta, ma anche sempre meno sensata. E il motivo è sempre lo stesso: di qui a non molto tempo, di lavoro potremmo non avere più bisogno. Dico noi come esseri umani, beninteso. Perché lo sappiamo: in quell’era geologica che per paradosso porta il nome di Antropocene, e che quindi denuncia sin dal nome l’indelebile impronta dell’uomo sul pianeta, a lavorare potrebbero pensarci altri. Perlomeno, così ci spiegavano i diretti interessati appena un paio di mesi fa: “Noi, i robot, vogliamo lavorare per gli umani”.
Hai voglia ad andare a caccia di contatti mentre sorseggi il cocktail delle 7 di sera. Tanto per cominciare, il tizio barbuto che fino a un paio di mesi prima ti shakerava il Moscow Mule potrebbe già essere stato sostituito da un Makr the bartender a caso. Ma i baristi non si disperino! Ci ha pensato il Guardian a tranquillizzarci sugli effetti che l’automazione totale prossima ventura avrà sull’occupazione. È vero, spiegava l’articolo, i robot ci stanno rubando il lavoro. Ed è vero: in futuro demanderemo alle macchine sempre più mansioni, comprese molte tra quelle in cui tuttora giudichiamo fondamentale “il fattore umano” – tipo non so, preparare un cocktail. Però niente paura: la storia ci insegna che a ogni rivoluzione tecnologica corrisponde sì la scomparsa di forme di lavoro ormai obsolete, ma anche la creazione di nuove, più moderne figure professionali. Per esempio: già negli ultimi anni, ricordava sempre il Guardian, a fronte della scomparsa di innumerevoli posti di lavoro per mano dei cattivissimi computer, abbiamo assistito a un autentico boom di… istruttori di zumba. Capito, sì? La zumba. “Che cazzo è, la zumba?”, mi domandavo mentre leggevo l’articolo, confessando la mia totale ignoranza del mondo del fitness. “Sei matto?! Sono anni che furoreggia”, mi ha prontamente rimproverato un altro amico ancora. Che poi ha aggiunto: “Certo, forse adesso è un po’ in calo. Da quel che capisco, è stata soppiantata dal power yoga”.
Io non so voi, ma a me la prospettiva di un esercito di istruttori di power yoga che rimpiazzano ragionieri, fornai, trader di borsa, conducenti di autobus, addetti ai call center, e già che ci siamo pure baristi, non è che suoni proprio plausibile. Il tema sembra semmai essere un altro: le nuove tecnologie non stanno producendo lo stesso numero di posti di lavoro di quelle che le hanno precedute. Sull’argomento esiste ormai una letteratura immensa: negli Stati Uniti, ricordava un articolo comparso la scorsa estate su The Atlantic, “9 lavoratori su 10 sono impiegati in occupazioni che già esistevano 100 anni fa, e solo il 5% dei posti di lavoro generati tra 1993 e 2013 provengono da settori hi-tech”. Già adesso, “le industrie più innovative tendono a essere anche le più efficienti: semplicemente, non hanno bisogno di tante persone”. Il parallelo ormai classico, è quello tra la AT&T che nel 1964 impiegava quasi 760.000 individui, e Google che di impiegati ne conta “appena” 55.000. E allora, questa differenza di 705.000 persone, dove la mettiamo? Nel senso: che gli facciamo fare? Tutti ai corsi di aggiornamento di zumba?
È ormai un po’ che gli analisti ci inondano di dati e previsioni più o meno allarmanti: un citatissimo (e assai criticato, va detto) studio della Oxford University del 2013, annunciava che nei prossimi vent’anni le macchine saranno in grado di svolgere la metà di tutti i lavori attualmente esistenti nelle società tecnologicamente avanzate. Ma siamo davvero in una terra incognita, in cui ancora non è chiaro quale sarà l’impatto di intelligenze artificiali, macchine autoapprendenti, stampanti 3D e via di questo passo – tutta roba che potenzialmente potrebbe ridurre in maniera ancora più drastica la quantità di lavoro umano necessario. Per non parlare delle pratiche collaborative che già adesso esulano dal classico meccanismo domanda-offerta, e che – assieme alla stessa automazione – getterebbero le basi di quello che Paul Mason ha chiamato Postcapitalismo (ne abbiamo già parlato tempo fa, adesso il libro è stato tradotto in italiano quindi date un’occhiata).
L’interrogativo più pressante, è dunque la diretta conseguenza di questo tipo di scenario: se non ci saranno tecnicamente più posti di lavoro da occupare, come faremo a sopravvivere? Di cosa vivremo, in un mondo popolato da disoccupati? Di che parleremo, alle apericene?
La risposta più ovvia, o se non altro quella che ha preso a ricorrere con una certa insistenza, è il famoso U.B.I., che sta per Universal Basic Income, che sta per Reddito Base Universale. È questo un vecchio tema della sinistra più o meno radicale, che però col tempo è stato adottato anche da correnti di pensiero che con la sinistra non hanno nulla a che spartire. Un recente articolo del New York Times faceva notare come, di nuovo negli USA, forme di Universal Income siano diventate un’ipotesi percorribile anche per alcune fette della destra repubblicana, sebbene secondo la classica variante “sostitutiva” al welfare state. Ancora in questa chiave, il mantra del Basic Income echeggia forte anche tra ideologi e venture capitalists della Silicon Valley, da Google in giù. E in Italia, il reddito minimo garantito è stato per qualche tempo un (assai azzoppato) cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle, anche se rispetto ad altri proclami di Grillo non è che abbia proprio girato!!! granché. Ad ogni modo: è senz’altro per via di questi precedenti che Renzi ammonì che “il reddito di cittadinanza è la cosa meno di sinistra che esiste” e che solo “chi lavora duro ce la può fare”.
In un mondo in cui l'automazione ha provveduto a sostituire l'uomo nelle mansioni lavorative più disparate, e in cui forme di reddito-base provvedono alla sussistenza degli individui, come riconvertire l'idea di tempo libero? Insomma, siamo pronti a non lavorare?
Forme di reddito-base sono allo studio in diversi paesi, ma qui si entra in un dibattito che lascio a chi è più competente di me. Anche perché non è di questo che volevo parlare. Qui si parla di apericene (diosanto). E allora torniamo a quello che si azzardava sopra: un’innocua attività ricreativa preserale si è trasformata in un ulteriore proseguimento della sfera lavorativa, perlomeno dal punto di vista emotivo-concettuale. Ma in un mondo in cui l’automazione ha provveduto a sostituire l’uomo nelle mansioni lavorative più disparate, e in cui forme di reddito-base provvedono alla sussistenza degli individui, come riconvertire l’idea di tempo libero? Insomma, siamo pronti a non lavorare? A passare il nostro tempo senza fare altro che, boh, vivere? A bere uno spritz senza orecchiare i discorsi su start up e progetti del tavolo accanto?
Di nuovo, spritz a parte, è una domanda che ricorre con allarmante frequenza nei discorsi sulla fine del lavoro per mano delle macchine, a cominciare dagli articoli di New York Times e The Atlantic che riportavo sopra (altri, nel frattempo, si sono aggiunti). E be’, messa così è una domanda dai contorni paradossali. Voglio dire: a chi non piacerebbe passare le proprie giornate con tutto il tempo a disposizione per stare appresso alle proprie cose, ai propri interessi, ai propri affetti, finanche ai propri ozi, anziché rispondere a ritmi calati dall’alto e scadenze imposte? A me per dire piacerebbe molto. Certo, so anche che c’è gente che nel lavoro individua gratificazioni non solo economiche ma anche umane, che nella dimensione lavorativa si realizza, insomma gente a cui lavorare piace. E non è detto che siano solo spregiudicati businessman che senza agenda programmata 24/7 si sentono abbandonati, confusi e sperduti in un mondo di solitudine e cellulari che non squillano più; magari è gente che effettivamente fa lavori belli; o anche se non sono belli, prova comunque soddisfazione nel “fare le cose per bene”; io stesso vengo da una famiglia di estrazione popolare ma dall’etica del lavoro incrollabile: sapete, il sano orgoglio operaio eccetera eccetera. Ne parla anche David Frayne nel suo The Refusal of Work, per dire.
Negli Stati Uniti, The Atlantic ne fa una questione di – diciamo così – identità nazionale: “In America, il concetto di operosità [industriousness] è servito da religione semiufficiale sin dalla sua fondazione. La sacralità e la preminenza del lavoro sono il cuore della politica, dell’economia e delle interazioni sociali della nazione. Che succederebbe se il lavoro scomparisse?”. Il New York Times prova ad allargare lo sguardo chiedendosi se noi, “come specie”, non abbiamo “bisogno di essere impiegati in qualcosa per sentirci realizzati”. Infine, assai più prosaicamente, non molto tempo fa Larry Page suggeriva: “Un sacco di gente non è felice se non gli dai qualcosa da fare. Hanno bisogno di sentirsi utili e necessari”.
Larry Page sembra quasi trattenersi dal non chiosare con un “poveracci!”. Ma veramente si tratta soltanto di una mandria di dissociati che confidano di essere utili in un mondo che di loro non ha più alcun bisogno? Io penso che quello che non viene mai sufficientemente sottolineato, sia il tipo di (occhio!) narrazione che implicitamente sottende questa perversa forma di horror vacui. La metto giù in termini molto semplici: se già dai tempi della scuola mi spiegavano che “studiare serve a preparare al mondo del lavoro”, e se finiti gli studi non è passato giorno che non abbia provato a “diventare imprenditore di me stesso”, se quando non lavoro passo il tempo a cercare lavoro, e se pure finito il lavoro parlo di lavoro, come volete che reagisca quando alla fine del corso da barman mi ritrovo una macchina che il Moscow Mule lo fa al posto mio, per giunta meglio e pure più velocemente?
Insomma, l’avrete capito: emanciparsi dalla retorica dell’imprenditorialità quale ragione di vita, ribaltarne gli assunti e rivendicare la sfera dell’improduttività, è a questo punto non solo una questione di generiche rivendicazioni sociali; è proprio faccenda di sopravvivenza, oltre che di salute mentale. Forse è ora che cominciamo non solo a riallargare, ma a ridisegnare la finestra temporale entro cui abbiamo relegato il binomio tempo libero-vita sociale. A sganciarla da un dogma che già si è rivelato dannoso e che adesso denuncia pure la sua inutilità, e a estenderla oltre quell’area grigia che sfuma il lavoro in qualcosa che lavoro non è, ma che continua ad esserlo. Certo, il rischio è che, tra le varianti che la parola “aperitivo” va conoscendo, potremmo a breve ritrovarci neologismi tipo “apericolazione”, “aperipranzo”, “aperimerenda”, “aperi-afterhour” e dio solo sa cos’altro. Il risultato sarebbe un’aperivita (!), che poi sarebbe un altro modo di dire “festa continua”, almeno a prenderla con ottimismo. Ma venendo meno la ragione di quell’aperi (che in latino sta per sta per “aperire”, e cioè aprire) mi piace pensare che ci risparmieremo pure l’ennesimo affronto alla lingua italiana.
Confido di essere stato sufficientemente psichedelico.
Valerio Mattioli, caporedattore di PRISMO, ha scritto tanto in giro. Il suo libro "Superonda - Storia segreta della musica italiana" è uscito per Baldini & Castoldi nel 2016.