E se la più controversa eresia politica dell’ultimo biennio servisse a spiegare il nuovo corso delle musiche indipendenti? In ogni caso: addio retromania, è ora di tornare al futuro.
La parolina, Adam Harper la lascia cadere così, sulle prime di sfuggita ma soffermandovisi quanto basta per sottolinearne il peso: «Cʼè anche tutta una discussione sullʼaccelerazionismo… Che è quella sorta di filosofia politica, o forse di filosofia estetica, secondo la quale lʼunica vera rivoluzione è, ehm, esasperare le qualità negative del regime attuale fino alla loro dissoluzione finale. Quindi anziché protestare contro il capitalismo, diventi più capitalista dei capitalisti».
Lʼintervento risale a qualche mese fa e lo trovate facilmente su YouTube. La cornice è la Berlin Music Week svoltasi lo scorso settembre nella capitale tedesca; Adam Harper, a mio parere il più acuto critico musicale attualmente in circolazione, vi è invitato a parlare di quella che lui stesso definisce «musica hi-tech»: suoni tirati a lucido e dallʼopalescente patina 3D, trame fredde e affilate, linee taglienti e assieme vaporose, qualcosa come unʼelettronica vitrea e più vera del vero, che pare condividere le stesse qualità estetiche di un tablet o di una schermata di Google Street View.
Harper la descrive come «il mondo digitale che ascolta se stesso, internet che si guarda allo specchio», e cita gli esempi di Arca e FKA Twigs, Fatima Al Qadiri, Oneohtrix Point Never, James Ferraro: musica insomma che riflette non solo lʼimmaginario, ma anche gli umori, gli stati emotivi del tecnocapitalismo globale, coi suoi display a cristalli liquidi, le sue interfacce virtuali, le sue criptovalute, i suoi big data, le sue corporation anonime e volatili.
A che fine, è faccenda controversa. Leggi i titoli, guardi le copertine, ascolti i suoni, e il più delle volte ti viene da pensare a un inconsulto trionfo di certa retorica corporate virata scuola dʼarte. E però, proprio per i suoi caratteri indigesti e sottilmente demenziali, non è difficile avvertire una critica allo stesso sistema di cui questa musica sarebbe specchio. È qui che la parolina di cui sopra – accelerazionismo – torna utile.
A questo punto, mi rendo conto che dovrei spiegare cosʼè lʼaccelerazionismo e perché il termine in questione abbia tanto fatto discutere nellʼultimo biennio circa. Ci provo, consapevole che in poche righe non potrò che fornirne unʼinterpretazione parziale.
Per cominciare, la definizione che ancora alla Berlin Music Week ne dà lo stesso Harper («una specie di futurismo del XXI secolo») verrebbe rigettata da molti dei teorici che a tale sigla fanno riferimento, anche se lʼidea che «per sconfiggere il capitalismo, bisogna diventare più capitalisti dei capitalisti» una qualche verità ce lʼha. Lʼidea di fondo, è quella di… beʼ, di accelerare alcuni processi latenti del capitalismo globale (in termini di tecnologie, comunicazioni, modi di produzione ecc) fino a liberarli dai loro utilizzi in termini di ingiustizia e sfruttamento, e di conseguenza superare il capitalismo stesso.
Poi sì, cʼè anche un accelerazionismo diciamo così apocalittico per il quale «the worse, the better»; in questo caso, a furia di enfatizzare gli aspetti distruttivi del capitalismo, lʼesito non potrà che essere uno soltanto: il collasso generale e quindi, anche qui, la fine del capitalismo in quanto tale. Più o meno, eh? Se vi interessa, qualche settimana fa è uscita unʼintervista a riguardo sullʼedizione americana di VICE.
Comunque: lʼantologia #Accelerate – The Accelerationis Reader curata lʼanno scorso da Robin Mackay e Armen Avanessian, riassume bene radici ed evoluzioni del pensiero accelerazionista: è lunga 536 pagine e mette in fila testi di, tra gli altri, Deleuze & Guattari, Lyotard, Ballard, Toni Negri, e ovviamente Karl Marx, che tra lʼaltro apre il volume. In effetti lʼaccelerazionismo viene spesso presentato come «lʼultima eresia marxiana», anche se uno dei nomi che più vengono identificati con tale eresia, lʼinglese Nick Land, è noto per essere passato dalle classiche teorie tecnoutopiste della cybercultura anni 90 a una specie di anarcocapitalismo parossistico e fondamentalmente reazionario.
«Cʼè bisogno di una politica a proprio agio con una modernità fatta di astrazione, complessità, globalità e tecnologia: una politica accelerazionista, appunto»
Le sorti della parolina sono drasticamente cambiate quando nel 2013 è apparso il Manifesto per una politica accelerazionista firmato Alex Williams e Nick Srnicek, il cui messaggio di fondo è: la crisi del 2008 non ha cambiato le sorti del capitalismo globale, al contrario lʼha rafforzato; i movimenti di protesta che in tale crisi sono emersi (i vari Occupy & co) non hanno inciso in modo alcuno; le risposte «primitiviste» (ritorno al territorio, politiche locali ecc) messe in campo dalla sinistra radicale si sono rivelate di retroguardia; e nel frattempo, i disastri ecologici, sociali ed economici provocati dal neoliberismo hanno compromesso lʼidea stessa di futuro.
Spiegano quindi Williams e Srnicek che «il futuro ha bisogno di essere costruito». E dovrà essere un «futuro più moderno – una modernità alternativa che il neoliberismo è intrinsecamente incapace di generare»; non solo perché «il capitalismo è un sistema ingiusto e perverso», ma anche perché è «un sistema che trattiene il progresso. Il nostro sviluppo tecnologico è stato soppresso dal capitalismo tanto quanto è stato da esso scatenato». Cʼè quindi bisogno di una politica «a proprio agio con una modernità fatta di astrazione, complessità, globalità e tecnologia»: una politica accelerazionista, appunto.
Fantasie post-internet: l’estetica accelerazionista
Qualunque cosa ne pensiate, sappiate che il Manifesto di Williams e Srnicek ha provocato un piccolo cataclisma. Nellʼantologia Gli algoritmi del capitale (lʼunico testo in italiano sul tema, almeno a mia conoscenza) il curatore Matteo Pasquinelli lo descrive come «il caso editoriale del 2013 per quanto riguarda il pensiero radicale», ed è senzʼaltro così. Al punto che, pressoché immediatamente, il dibattito è fuoriuscito dai ristretti e un poʼ oscuri circuiti della filosofia politica, per riversarsi nel mondo dellʼarte, delle culture digitali, e infine (anche se in maniera lenta e sotterranea) della musica.
Il corposo speciale che e-flux dedicò al tema già nel 2013 è stato il primo, cruciale tentativo di delineare non solo una politica, ma unʼestetica accelerazionista vera e propria; col tempo, sono arrivati i contributi di altre testate come Frieze e 3:AM Magazine e qualche confuso accenno su Artforum.
Ma la realtà che a torto o a ragione più viene accostata alle tematiche sollevate dal manifesto di Williams e Srnicek, è senza dubbio DIS Magazine: il suo surreale immaginario iper-consumista, la sua minuziosa mappatura dei feticci dellʼera tecnologica, i suoi speciali sui big data, i concettosi ritratti su «lifestyle evoluti», «neoliberal fantasies» e «tech-secessionismo», nonché lʼorganizzazione lo scorso maggio della mostra newyorchese Dark Velocity (il cui manifesto si propone di «intensificare le contraddizioni del neoliberismo»), sono tutti ingredienti che sì, in qualche modo forniscono un esempio fin troppo esplicito di critica «a proprio agio con una modernità fatta di astrazione, complessità, globalità e tecnologia».
Ribadire il peso di DIS nel panorama artistico e culturale attuale, è quasi superfluo. Il collettivo americano è stato recentemente chiamato a curare la prossima Biennale di Berlino, e il suo immaginario hi-tech, ultranitido e saturo di colori sgargianti, ha in pochi anni esercitato unʼinfluenza incalcolabile nel campo della moda, delle sottoculture digitali (vedi il fenomeno health goth), delle arti «post-internet» e chiaramente della musica, un ambito con cui DIS intrattiene da sempre un rapporto privilegiato.
Per quanto mi riguarda, trovo interessante come lʼaggettivo «accelerazionista» abbia preso a comparire in recensioni e comunicati di musicisti anche molto diversi tra loro: Boomkat (il più importante distributore indipendente europeo) applica il termine tanto allo shangaan del sudafricano Nozinja quanto alla pointillistic trance dellʼitaliano Lorenzo Senni, passando per il grime mutante di tizi come Slackk e Bok Bok. Il Financial Times tira invece in ballo Fatima Al Qadiri, così come il giornalista inglese e collaboratore del Guardian Alex Macpherson. Per Tiny Mix Tapes, il papà dellʼaccelerazionismo in musica è James Ferraro, e più recentemente Amnesia Scanner. Per Pitchfork, nulla è più accelerazionista di PC Music. Per Frieze, accelerazionista è il footwork. Il solito Adam Harper riprende il termine a proposito del fenomeno vaporwave. Eccetera.
Musica accelerazionista?
Cosʼè quindi che renderebbe una musica, un disco, un artista, accelerazionista? Nessuno dei musicisti fin qui citati ha rivendicato finora il termine, almeno che io sappia. Però è vero che si tratta di nomi che riflettono tutti quellʼapproccio hi-tech esaminato da Harper alla Berlin Music Week, e che il critico inglese riassume in formule tipo «freddezza digitale», «suoni cibernetici», «attinenza al mondo moderno» e così via.
In più, alcuni tra questi occhieggiano a un immaginario sonoro dal sapore inconfondibilmente corporate: suonerie di cellulari, muzak da lobby dʼalbergo, sigle dʼavvio di computer e smartphone, effetti sonori presi a prestito dal mondo dei videogame… Quasi sempre, si tratta di musiche dalle superfici levigate e cristalline, che però trasmettono sensazioni stranite e il più delle volte inquietanti: diciamo che, da questo punto di vista, interpretano alla lettera lʼapparente contraddizione «criticare il capitalismo attraverso il capitalismo».
«Suoni così spudoratamente inoffensivi, così sfacciatamente proni ai cliché del corporate mainstream, da risultare per paradosso indigesti, scandalosi, inascoltabili, e a loro modo più estremi di una compilation wall noise»
Come unʼinnocua musica da ascensore possa essere percepita come «critica», lo spiega Steven Shaviro in uno dei testi comparsi su e-flux nel sopraccitato speciale del 2013: «Nel ventesimo secolo (…) gli artisti modernisti tentavano di infrangere tabù, di scandalizzare il pubblico, e di oltrepassare i limiti del buongusto borghese. Da Stravinsky ai dadaisti, da Bataille agli autori di Gola Profonda, da Charlie Parker a Elvis e i Guns NʼRoses (…) la trasgressione veniva semplicemente e assiomaticamente interpretata come sovversiva. Ma oggi non è più così. Il neoliberismo non ha problemi con gli eccessi. Ogni gesto o rappresentazione che si suppone “trasgressiva”, espande il campo dʼintervento del capitalismo».
E quindi: se il gesto «trasgressivo» si rivela inefficace, unʼalternativa può essere quella di lavorare in direzione contraria. Il che, se parliamo di musica, significherebbe più o meno produrre suoni così spudoratamente inoffensivi, così sfacciatamente proni ai cliché del corporate mainstream, da risultare per paradosso indigesti, scandalosi, inascoltabili, e a loro modo più estremi di una compilation wall noise.
Può sembrare una via dʼuscita semplicistica, ma è esattamente quello che è successo quando nel 2011 James Ferraro diede alle stampe Far Side Virtual, in assoluto uno dei dischi più discussi degli ultimi anni. Lʼalbum – una collezione di luccicanti quadretti audio a metà strada tra suonerie midi e sigle Windows – impressionò subito molti (tra cui il sottoscritto), ma scatenò anche critiche feroci e reazioni aspre come non si vedeva da tempo. Anzi, a mia memoria non esistono altri titoli che, nel recente passato, abbiano suscitato un tale vortice di polemiche, diatribe incontrollate e tragicomici dibattiti: basti dire che il riverito mensile The Wire dapprima lo elesse album dellʼanno, e poi fu costretto a una grottesca lettera di scuse indirizzata ai lettori che a quanto pare avevano protestato in massa.
Lo scandalo Far Side Virtual si ripeté due anni dopo, anche se in misura minore, con un altro dei dischi chiave degli anni ʼ10, lo splendido ed enigmatico R Plus 7 di Oneohtrix Point Never, che di Far Side Virtual era una specie di versione refined. Mentre nel 2014 reazioni persino più isteriche le ha suscitate il collettivo inglese PC Music, come Ferraro accusato di suonare troppo carino («cute») per poter essere preso sul serio.
Per la critica affezionata alla vecchia retorica rockista tutta bile e perdizione, questa musica non è insostenibile perché troppo difficile, astrusa o magari rumorosa: semmai, lo è per i motivi opposti. E per il pubblico abituato ai foschi panorami underground, questo coloratissimo tripudio di commodities elevate a pietra dʼangolo di unʼestetica intera, suona non solo sospetto, ma francamente inaccettabile.
In questo senso, lʼoperazione inaugurata da James Ferraro con Far Side Virtual, ha effettivamente un sapore accelerazionista (anche se viene da chiedersi di quale accelerazionismo stiamo parlando: quello eretico-marxista del Manifesto o quello anarcocapitalista di Land?). Ma soprattutto tocca un nervo scoperto: se viviamo nel mondo di Google, dei big data e della realtà aumentata, questo mondo andrà pur raccontato. E allora addio muretti scrostati, addio cantine umide col poster di Kurt Cobain ingiallito dalle troppe canne, addio posaceneri in cui riposano mozziconi di Marlboro: è tempo di chat notturne che vanno avanti tra una e-cigarette e una Red Bull, di monitor perennemente connessi, di notifiche pop up e algidi bleep Skype. Potrà suonare poco romantico, ma per la miseria: è il mondo in cui viviamo, no?
Darkside
Immaginari kawaii e bevande energetiche a parte, lʼestetica accelerazionista può comunque virare verso tinte cupe o meglio ancora distopiche. È di nuovo Shaviro a suggerire in Gamer uno dei titoli chiave in tal senso: il film diretto dalla coppia Neveldine e Taylor nel 2009, è fondamentalmente una specie di La decima vittima aggiornato ai tempi di Second Life e degli shooter games, e visivamente alterna sequenze di una morbosa ridondanza ultrapop a lugubri spaccati sci-fi in alta definizione. «Lavori del genere sollevano senza dubbio critiche [al sistema politico-economico attuale, ndr], ma si compiacciono anche dello squallore e degli abusi che con tanta enfasi portano sullo schermo», spiega il critico americano.
E in effetti è proprio alle parole di Shaviro che sono dovuto ricorrere in un mio vecchio articolo per Blow Up, in cui tentavo di rendere il senso al tempo stesso di stesso di ansia e liberazione provocatomi dallʼascolto di musicisti come Logos o perché no gente come Arca: «Intensificare gli orrori del capitalismo non porterà a farli esplodere; ma ci procura una specie di soddisfazione e sollievo, raccontandoci che abbiamo finalmente toccato il fondo, che ci troviamo dinanzi al peggio».
Se Gamer lʼavete visto, provate a pensare a Far Side Virtual e alle surreali idol del giro PC Music come alla colonna sonora di Society, la community che nel film trasforma persone in carne ed ossa nei personaggi di un mondo in cui a dominare sono colori accesi ed esagerata depravazione; al contrario, dischi come Cold Mission di Logos sembrano provenire direttamente da una scena di Slayers, il sanguinario gioco multiplayer che in Gamer trascina le intuizioni di Society in una cornice sospesa tra simulazione ultraviolenta e iperrealismo sparatutto. Potremmo chiamarlo accelerazionismo darkside, toh.
Hi-Tech 3D
Lʼeffettistica sonora dei videogiochi, è un altro dei termini di paragone che non più frequenza ritornano quando si parla di musica hi-tech: in effetti, molti di questi dischi sembrano tenersi in bilico tra «musica» vera e propria e mero sound design. Ma forse è più stimolante approfondire alcuni dettagli tecnici che rendono le musiche qui trattate così distintamente, uhm, futuribili; se non altro perché gli artifici a cui questi musicisti ricorrono sono spesso gli stessi contro i quali lʼunderground anni ʼ00 ha scagliato un anatema dopo lʼaltro.
Il caso più interessante è per me lʼutilizzo calcolato della compressione, la stessa responsabile della famigerata loudness war tanto odiata dagli alfieri della «naturalezza dellʼascolto» e della superiorità dellʼanalogico sul digitale.
Per chi non lo sapesse, la loudness war è la tendenza a schiacciare verso lʼalto i volumi dei brani, compromettendo di conseguenza non solo la dinamica degli stessi ma anche il senso di calore dato dallʼascolto dei vecchi dischi, magari registrati su nastro a un quarto di pollice. Si tratta di un fenomeno tipico dellʼera prima del CD e poi dellʼmp3, che la grande industria discografica ha sfruttato in maniera non di rado goffa riducendo i delicati giochi di equilibrio dati dallʼinterplay dei musicisti in mattoncini assordanti e freddi, oltre che emotivamente sfiancanti: un brano troppo compresso risulta «faticoso» allʼascolto, e da qui è partita una crociata che in nome del ritorno ai sani valori di una volta, ha fatto della lotta al concetto di loudness un vessillo orgogliosamente sbandierato da qualsiasi audiofilo fai-da-te.
Eppure sono proprio i caratteri estremi della loudness war a tradire un certo potenziale rivoluzionario, o almeno così la pensa Robin James, la critica e ricercatrice statunitense che al tema ha dedicato un controverso saggio. È lʼebb and flow (lʼalternanza tra alti e bassi) propugnato dai nemici della compressione coatta a essere «totalmente artificiale. Ci sembra più “naturale” solo perché crescendo vi ci siamo abituati». Le crociate anti-compressione hanno anche un certo sapore reazionario: «in unʼera in cui tutti gli individui possono suonare vergognosamente alti, abbiamo bisogno di tecnologie e pratiche che moderino le voci considerate inappropriate e affaticanti, e amplificare quelle che contribuiscono alla cosiddetta salute della popolazione».
Naturalmente, chi decide quali siano le voci «sane», lo decide il potere stesso. La soluzione, sembra suggerire la James, è rifiutare la retorica del ritorno allʼebb and flow e liberare il potenziale rimasto latente nella gara a chi suona più alto. Se ci pensate, è una posizione accelerazionista anche questa, no?
Ora, a rendere la musica hi-tech così… insomma, hi-tech, è proprio questʼaura 3D data dal lavoro di compressione che «spinge» sulle frequenze alte, le fa brillare, e assieme trasforma i suoni in oggetti duri, solidi e lucenti come un diamante. In linea di massima, sono i singoli suoni a essere compressi e non i brani nella loro interezza: a uscirne, è una raggelante sequenza di vuoti e pieni che sembra generata automaticamente da non meglio identificabili astrazioni numeriche, o per dirla con le parole del mio amico Polysick, «è come riprodurre un brano su YouTube con la connessione che ogni tanto salta e ti restituisce un momento di vuoto mentre il buffer si riempie».
Altri gesti per definizione associati al corporate mainstream che i musicisti «liberano» dal contesto dʼappartenenza per proiettarli in una landa aliena, sono ad esempio la frustrante tendenza a trasformare i marcatori più emotivamente forti del pop commerciale (drop, build up, crescendo ecc) in momenti isolati a zero tasso di emotività, che però danno lʼimpressione di piombare nei brani con la stessa delicatezza di un iceberg da 200.000 tonnellate scagliato da un asteroide.
In alcuni casi, le tecniche utilizzate chiamano in causa procedimenti più smaccatamente sperimentali: è il caso di Holly Herndon che trasforma la sua voce in unʼafona successione di dati alfanumerici, o delle glaciali reiterazioni trance di Lorenzo Senni. Molti dei musicisti provengono non a caso da retroterra artistici o se non altro artistoidi: gente come Fatima Al Qadiri, TCF, lo stesso giro PC Music, considerano la propria musica solo un elemento tra i tanti di un più complesso lavoro sulla modernità.
Ritorno al futuro
«Che questi musicisti considerino la loro opera accelerazionista o meno», scriveva Laura Battle sul Financial Times, «condividono comunque un interesse nellʼesibire le strutture del potere, e trovano piacere nella sottile linea che separa artificio e autenticità, critica e complicità». La Battle pronunciava queste parole lo scorso maggio chiamando in causa la chillwave, un fenomeno a dire il vero spentosi già qualche anno fa: ma suvvia, non è che dal Financial Times ci si possa aspettare granché in termini di aggiornamento e ultime tendenze underground.
Io direi piuttosto che, al di là di definizioni ardite e paragoni di comodo, quello che questi musicisti condividono è prima di tutto il rifiuto di qualsiasi tentazione nostalgica, la sensazione tangibile di una musica che, dopo anni di recuperi retrò e revivalismi più o meno camuffati, torna finalmente a guardare al futuro.
«Uno cominciava a sentirsi a disagio a bere cedrata Tassoni allo stesso bar in cui eri arrivato tramite navigatore satellitare»
Il parallelo diventa a questo punto intrigante: il Manifesto per una politica accelerazionista di Williams e Srnicek nasceva tra le altre cose come reazione alle inclinazioni passatiste del pensiero radicale e della sinistra (ex) rivoluzionaria. Similmente, dagli inizi degli anni ʼ10 in poi, una fetta sempre più consistente delle musiche underground ha cominciato a tradire una certa insofferenza per quella che Simon Reynolds ha battezzato Retromania: la nostalgia per i tempi andati, il ritorno a stili ed estetiche provenienti dal passato, la predilezione per i toni caldi delle strumentazioni dʼepoca (sintetizzatori analogici, amplificatori valvolari, effettistica vintage ecc) sono tutti stati ingredienti chiave del pop indipendente anni 2000; che prima o poi si sarebbe finiti a opporvi i suoni freddi e HD dellʼera digitale, non so se fosse inevitabile, ma alle mie orecchie suona se non altro salutare.
Perché voglio dire: bello il «ricordo del ricordo» che fu dellʼhypnagogic pop, più irritante la chillwave ispirata dagli anni ʼ80, incommentabile il revival post-punk, molto meglio (e a volte semplicemente meravigliosa) la hauntology inglese che reinterpreta lʼimmaginario BBC anni 60/70, ottime le ristampe di dischi usciti quarantʼanni fa e troppo in fretta dimenticati, interessanti le riscoperte che hanno puntellato i primi dieci anni del millennio, ma insomma, dopo un poʼ BASTA. Insomma, chi ne poteva più? Uno cominciava a sentirsi a disagio a bere cedrata Tassoni allo stesso bar in cui eri arrivato tramite navigatore satellitare. E ve lo dice uno che suona in un gruppo i cui dischi sono finiti in speciali francesi sulla «hauntologie italienne».
Ipotesi per una discografia accelerazionista
Nel suo bel Malign Velocities – uno dei testi chiave sullʼaccelerazionismo, anche perché estremamente critico a riguardo – Benjamin Noys dedica diversi passaggi a come jungle e drumʼnʼbass abbiano influenzato lʼimmaginario di tizi quali Nick Land, e a come la stessa techno di Detroit possa essere considerata un oggetto quintessenzialmente accelerazionista. Come detto, Noys è molto severo nel giudizio sul Manifesto di Williams e Srnicek, ma anche lui è costretto ad ammettere che è difficile non subire il fascino quantomeno dellʼestetica accelerazionista (a Noys la techno piace).
Bene: negli ultimi anni, alle prese coi suoni beatamente HD del dopo Far Side Virtual, ho avuto spesso a che fare con dischi che non sapevo bene come interpretare. Non capivo nemmeno se mi piacessero: sulle prime, questa roba fredda, antiemotiva, che faticavo a distinguere dalla suoneria del mio iPhone, non riusciva nemmeno a suscitarmi emozione alcuna – e dire che di Far Side Virtual ero stato uno strenuo sostenitore.
Che però queste musiche tentino se non altro di ragionare sul presente da una prospettiva nuova, mi pare difficilmente smentibile. Il fatto che siano emerse nello stesso periodo in cui a prendere piede è stato il dibattito sullʼaccelerazionismo, mi sembra più di una coincidenza: diciamo che sono entrambi esiti di una certa temperie, o più semplicemente di un bisogno di riappropriarsi dei linguaggi di una modernità a conti fatti ostile.
«Eppure questa musica mi attira, mi ammalia, a volte mi entusiasma anche. Soprattutto, mi dice qualcosa sul presente che nessun disco di criptorevivalisti analogici potrà mai trasmettermi, e pazienza se questo è un presente che non mi piace: affrontarlo senza pudori, ha uno strano sapore liberatorio»
Ho già accennato al fatto che nessun musicista tra quelli qui citati abbia finora rivendicato lʼaggettivo «accelerazionista», e la lista che segue coincide in diversi punti con quella presentata da Adam Harper nel suo seminario sulla musica hi-tech. Non so quanto i due termini siano sovrapponibili, ma mi viene da pensare che, per essere seriamente accelerazionista, una musica deve in qualche misura contenere elementi hi-tech, mentre non è detto che una musica hi-tech sia automaticamente accelerazionista.
Saranno elucubrazioni tutte mie, e diciamo infatti che quello che trovate sotto è un elenco molto personale, contraddittorio e in buona misura arbitrario. Perché per dire non inserire Heatsick, uno dei pochi a essersi esplicitamente riferito al manifesto di Williams e Srnicek (un suo brano si chiama appunto Accelerationista)? E perché non infilare almeno un titolo footwork, generalmente considerato uno dei suoni più «futuristi» degli ultimi anni? (Fino allʼultimo sono stato tentato di citare almeno il nuovissimo Dark Energy di Jlin, anche perché è un disco che mi piace veramente tanto). Insomma, sono soltanto ipotesi, chiaro?
Infine: sulla scia di Noys, sullʼaccelerazionismo «politico» nutro più di qualche dubbio, anche se ne apprezzo il prometeico sforzo di immaginazione. E allo stesso modo, verso lʼestetica accelerazionista provo una specie di attrazione/repulsione: dopo un pomeriggio di soli sound effects in 3D sento come il bisogno di mettere su un gracchiante vinile di vecchia musica folk, diciamo di recuperare un contatto umano.
Eppure questa musica mi attira, mi ammalia, a volte mi entusiasma anche. Soprattutto, mi dice qualcosa sul presente che nessun disco di criptorevivalisti analogici potrà mai trasmettermi, e pazienza se questo è un presente che non mi piace: affrontarlo senza pudori, ha uno strano sapore liberatorio. O forse si tratta di puro potere esorcizzante. Perché in fondo, è difficile trovare sollievo in angosciose istantanee del lato oscuro del web tipo questa:
James Ferraro
Far Side Virtual
(Hippos In Thanks, 2011)
Ne ho già parlato abbondantemente sopra. Più che un disco, praticamente un manifesto, anche se a distanza di pochi anni mi sembra già un pizzico datato. Suppongo che sia per quella sua patina anni 90 che un poʼ fa a botte coi panorami 2025-circa dipinti da chi è venuto dopo di lui.
Macintosh Plus
Floral Shoppe
(Beer on the Rug, 2011)
Tra i primi e recepire la lezione di Ferraro (e di Daniel Lopatin, vedi sotto) ci furono i giovanissimi protagonisti del fenomeno vaporwave, forse il primo genere musicale nato coscientemente su internet e per internet. Musicalmente, la vaporwave si limita perlopiù a modificare e stiracchiare campioni presi dalla muzak più melliflua e dal pop commerciale vecchio e nuovo, e spesso e volentieri ha un sapore nostalgico e persino retrò – il contrario quindi di qualsivoglia impulso accelerazionista. È semmai il suo immaginario ultracapitalista e tecno-esotico (titoli in giapponese, riferimenti al web design più desueto, digital folklore ecc) a rendere obbligatoria la sua presenza in questa lista. Della vaporwave, lʼartista più rappresentativa è senza dubbio Ramona Xavier, anche nota come Vektroid, New Dreams Ltd, Laserdisc Visions, o appunto Macintosh Plus. Floral Shoppe è considerato da molti il suo capolavoro (non da me).
Jam City
Classical Curves
(Night Slugs, 2012)
Un altro disco chiave, che ha avuto un impatto profondissimo in particolar modo sullʼunderground elettronico inglese e che ha trasformato la Night Slugs in una delle etichette più «studiate» (e imitate) degli ultimi anni. Il magazine Dummy ne ha parlato evocando le sensazioni che si provano a ritrovarsi in qualche desolata landa digitale di un videogame, e mi sembra tuttora una descrizione appropriata.
Oneohtrix Point Never
R Plus Seven
(Warp, 2013)
Ancora un classico. Di fatto, Daniel Lopatin aka Oneohtrix Point Never aveva già inventato la vaporwave col progetto Chuck Personʼs Eccojams (2010), ma è R Plus Seven il suo capolavoro, per non dire del video di Still Life firmato Jon Rafman di cui sopra.
David Kanaga
Dyad OGST
(Software, 2013)
La frastornante colonna sonora del videogame Dyad, ad opera di uno dei più penetranti teorici del mondo videoludico contemporaneo.
Logos
Cold Mission
(Keysound, 2013)
Uno dei miei preferiti. Diciamo che è una specie di Classical Curves (il disco di Jam City) ammutolito e come fluttuante a mezzʼaria (weightless, la chiama Logos). È anche uno dei testi sacri della recente avanguardia grime, quella dei vari Mumdance, Rabit, ecc ecc.
Jar Moff
Financial Glam
(PAN, 2013)
Basterebbe il titolo, anche se a un primo ascolto può sembrare un «normale» disco a cavallo tra noise e musique concréte, ma risolto in una freddissima chiave digitale. Jar Moff è greco quindi il lato glamorous della finanza globale lo conosce bene.
PC Music
PC Music X DISown Radio
(soundcloud, 2014)
Anche di PC Music ho già detto, e questo mix prodotto per DIS e uscito come al solito su soundcloud (per molto tempo, di PC Music non sono esistite prove «fisiche») ne è un riassunto tra i tanti. Il collettivo fondato da A.G. Cook viene perlopiù identificato con icone come Hannah Diamond, QT (da pronunciare cutie) e GFOTY (Girlfriend Of the Year): finte popstar eccitate dalle troppe bevande energetiche, la cui immagine glossy fa venire alla mente le più eccessive stelle del j-pop. La musica segue di conseguenza: è frizzante, tutta saltelli e vocette pitchate, una roba talmente zuccherina da provocare istantanee crisi di diabete. Però PC Music può contare anche su nomi dal taglio più dichiaratamente – ehm… – sperimentale, se col termine prendiamo lʼelettronica ridotta a brandelli di gente come Felicita e ovviamente Sophie, che di PC Music è un noto fiancheggiatore. Non sono sicuro quale delle due anime preferisco.
Fatima Al Qadiri
Asiatisch
(Hyperdub, 2014)
Direttamente dai laboratori della Foxconn, o almeno questa è lʼimpressione che ha fatto più o meno a tutti, detrattori compresi. È musica che ha la stessa consistenza di qualche gas ionizzato e gli stessi colori di un plasma traslucido e irrimediabilmente artificiale. Fatima Al Qadiri è anche responsabile del recente progetto Future Brown assieme a J-Cush e a duo Nguzunguzu, altro nome molto vicino al mondo DIS.
Lorenzo Senni
Superimpositions
(Boomkat, 2014)
Uno dei titoli più stranianti in assoluto, nonché uno dei classici casi in cui mi trovo a chiedermi «cosʼè esattamente questa roba? Perché la sto ascoltando?». Senni la chiama pointillistic trance e Boomkat la descrive come un «approccio ascetico ed estremo allʼestetica anni 90» e boh, suppongo sia così.
TCF
415c47197f78e811feeb78…
(Liberation Technologies, 2014)
Il titolo è esattamente quello che vedete: il norvegese TCF compone musica a partire da algoritmi e codici crittografati, e gli riesce anche molto bene.
Arca
Xen
(Mute, 2014)
Il celebrato album di debutto del produttore di FKA Twigs e Bjork. Su questo disco è stato detto così tanto che non saprei cosa altro aggiungere. È comunque lʼalbum che ha portato Philip Sherburne a scrivere su Pitchfork quanto segue: «Era da un poʼ che non si sentiva qualcosa di veramente, categoricamente nuovo nella popular music»; adesso però «è diventato chiaro che qualcosa si sta affacciando allʼorizzonte (…). Questa new thing non è esattamente un genere; chiamatelo stile, sensibilità, apparenza. Ha a che fare coi computer, i suoni e gli immaginari digitali (…) La storia compressa in una pennetta USB». Naturalmente, fondamentali i video firmati per Arca dal socio Jesse Kanda.
Amnesia Scanner
As Angels Rig Hook
(soundcloud, 2015)
Stranissimo radiodramma (credo si possa chiamare così) a tema sci-fi, se per sci-fi intendiamo misteriose entità digitali, tecnofinanza e catastrofi ecologiche. Quindi il presente. Per me un piccolo gioiello.
Lotic
Heterocetera
(Tri Angle, 2015)
Lotic è uno di quelli a cui si deve Janus, la serata berlinese “futuribile” della Berlino più o meno povera, sempre meno sexy (la stessa serata da cui viene Amnesia Scanner, per inciso). Heterocetera suona come se i file audio di Arca fossero stati corrotti da un virus particolarmente aggressivo. Angosciante.
Holly Herndon
Platform
(4AD/RVNG Intl., 2015)
Il nuovo album della Herndon esce a maggio e tratta temi quali «ineguaglianza sistematica, stati di sorveglianza e neofeudalesimo». Oppure, per dirla come da comunicato stampa, «un appello al progresso». Se le due cose vi sembrano in contraddizione, è perché non state accelerando abbastanza.
Fuori categoria:
FKA Twigs
Qualsiasi cosa
(2013-2015)
Da qualche parte scrissi che FKA Twigs è la cosa più aliena capitata al pop da anni a questa parte, e credo sia unʼopinione piuttosto condivisa: voglio dire, parliamo di una tipa i cui video fanno milioni di contatti e la cui musica è una scivolosa e a tratti incomprensibile gelatina di RʼnʼB geneticamente mutato (so che a lei non piace essere descritta come artista RʼnʼB ma beʼ, pazienza). Quando nel 2013 uscì il suo EP2, era veramente qualcosa di bizzarro, a partire dai video che lo accompagnavano. Che guarda tu erano firmati Jesse Kanda, mentre a produrre il disco era Arca: quindi vedi, tutto torna. LʼLP1 seguito nel 2014 era se vogliamo un passo indietro, ma vedremo dove arriverà col prossimo EP previsto questʼanno (le premesse sono buone).
Possiamo definirlo RʼnʼB accelerazionista? Non lo so, forse è un titolo che starebbe meglio a Kelela che si fa produrre dal giro Night Slugs e relativa controparte americana, la Fade To Mind (quella dei vari Fatima Al Qadiri, Nguzunguzu, Total Freedom ecc). Ma certo le danze di FKA ispirate ai Google Glass superano in audacia i sogni erotici di qualsiasi geek. In ogni caso, parliamo di unʼartista che non sa che farsene delle concettose serate DIS oriented di Janus e che semmai punta diritta al mainstream, quindi lʼimpatto di questa musica così estranea, disorientante, futuribile è se possibile ancora maggiore. Quantomeno, per colpa di FKA Twigs mi è toccato sorbirmi i BRIT Awards per la prima volta in vita mia.
Valerio Mattioli, caporedattore di PRISMO, ha scritto tanto in giro. Il suo libro "Superonda - Storia segreta della musica italiana" è uscito per Baldini & Castoldi nel 2016.