Col suo erotismo in overdrive, il progetto musicale di Alejandro Ghersi è un radicale esempio di queerness mutante, che porta a interrogarci sul nostro rapporto tra corpo e identità di genere.
Arca sarà tra i protagonisti della nuova edizione di Club To Club, il festival che quest’anno si tiene dal 2 al 6 novembre, come al solito a Torino. Non è la prima volta che sbarca in Italia, né è la prima volta che di lui si scrive. Ma forse, arrivati a questo punto (e in vista di un nuovo album atteso a quanto pare in tempi brevissimi), possiamo provare a ragionare sulla specificità di un autore la cui figura travalica abbondantemente quella della semplice “nuova sensazione della musica elettronica”.
D’accordo, scrivere di musica è come ballare di architettura (come se poi l’architettura non si potesse ballare, bah). E proprio per questo, quello che state per leggere è più simile a una serie di appunti su alcuni problemi appena abbozzati, che una riflessione compiuta o chiusa. Non ci si può nascondere, comunque, che Arca e più in generale quella che Adam Harper ha definito musica hi-tech (o se preferite – ebbene sì, di nuovo – musica accelerazionista), presentino alcuni spunti non solo interessanti ma cruciali, che vale la pena continuare a sviluppare. E vorrei provare a farlo proprio attraverso il lavoro di Arca, vero nome, Alejandro Ghersi, producer e dj venezuelano e queer. E il posizionamento non è citato casualmente.
La disputa tra Lotic del collettivo Janus e PC Music a causa di un commento (forse involontariamente) razzista di GFOTY, ci consente immediatamente di riconoscere gli estremi del problema. E cioè: dove finisce il sarcasmo, e dove inizia la complicità profonda tra la strategia accelerazionista e il sistema che vorrebbe oltrepassare espandendone a dismisura le contraddizioni? Cosa rende, cioè, la vaporwave diversa dai sottoprodotti dell’internet complottista e dell’Alt-Right, o le sbarazzine popstar di PC Music tipo QT da quelle del mainstream ufficiale di Mtv?
D’accordo, seapunk e vaporwave sono probabilmente la parte più sfruttata e ri-catturata di tutto il panorama delle musiche hi-tech, e il tipo di operazione condotta dal collettivo PC Music non gli è del tutto sovrapponibile – anche se probabilmente rivela una complicità persino più netta rispetto all’industria culturale. Per di più, quando Lotic rivolge quella critica a PC Music lo fa proprio dall’interno del panorama delle musiche hi-tech: dal mensile Wire allo stesso Adam Harper, non sono pochi quelli che hanno interpretato esperienze comunque diverse come Janus e PC Music quali esiti del medesimo processo (per non dire scena).
Vedremo che la denuncia di Lotic riprende un tema che viene posto in forma implicita dalla sua espressione visuale e musicale, e che la stessa cosa avviene proprio in Arca. Proprio per questo è meglio porsi in generale il problema che sta nella strategia (esplicitamente e volutamente) contraddittoria che anima tutti questi fenomeni musicali. La questione era stata esposta da Steven Shaviro in termini un po’ insufficienti: considerando il capitalismo come un sistema tendenzialmente omogeneo rispetto ai fini che si propone, lo descrive valutando come la trasgressione del limite non abbia in esso alcuna efficacia; e scrive: “[nel capitalismo] niente viene valutato meglio dell’eccesso. Più oltre ti spingi, più c’è materiale su cui capitalizzare. Tutto è organizzato in termini di soglia, di intensità, di modulazioni”.
Le estetiche (e le politiche) accelerazioniste, hanno come tratto comune quello di operare con ciò che il presente offre: da questo punto di vista, sono anzitutto una riflessione sulle condizioni di possibilità.
Quello che però si perde in questa descrizione, è che affinché il capitalismo possa sfruttare soglie, intensità e modulazioni, questo deve adattarsi continuamente: valutare l’efficacia della trasgressione solo in termini “complessivi” produce quindi una impasse teorica. Per Shaviro quindi, l’estetica accelerazionista non può e non deve “rivendicare alcuna efficacia per le sue operazioni”. In questo senso, l’operazione portata avanti da PC Music sarebbe insomma un tipico caso da manuale.
In questa maniera però, Shaviro disinnesca gli aspetti più interessanti dell’accelerazionismo sia sul piano estetico che sul piano politico, lasciando sul piatto una specie di tolleranza indifferenziata verso le pratiche più dannose e meno significative. Per una critica severa ma giusta dell’accelerazionismo (politico ed estetico), resta imprescindibile Malign Velocities di Benjamin Noys, la cui tesi di fondo è che la postura intrinsecamente nichilistica di questa strategia, e il modo in cui questa risuona con l’esperienza contemporanea della vita e del lavoro, è ciò che ne giustifica il fascino nella (tarda) modernità informatica e cyber; allo stesso tempo, esprime un desiderio di liberazione dal lavoro che si dà per compiuto nonostante non lo sia ancora.
L’accelerazionismo, insomma, si propone di anticipare spettralmente gli obiettivi che si prefigge. Ed è proprio su questo aspetto di prefigurazione può avere senso concentrarsi, in particolare pensando al lavoro di Arca.
Nello stesso speciale di e-flux da cui è tratto l’intervento di Shaviro di cui sopra, c’è un intervento di Bifo che offre uno spunto suggestivo: e cioè che le strategie accelerazioniste siano “una manifestazione estrema di una concezione immanentista”. Detta altrimenti: le estetiche (e le politiche) accelerazioniste, hanno come tratto comune quello di operare con ciò che il presente offre: da questo punto di vista, sono anzitutto una riflessione sulle condizioni di possibilità, nonché una selezione delle prassi in base a ciò che è disponibile.
Se è vero che appiattirsi completamente sul punto di vista del Capitale rende di fatto indistinguibile QT dagli Aqua (alla faccia della edge of modernity: con la scusa dell’ironia si torna indietro di vent’anni…) e che l’identificazione completa con le possibilità tecnologiche attualmente disponibili rende molti prodotti dell’underground praticamente identici a quelli del mainstream, resta il fatto che un atteggiamento di completo rigetto verso le nuove tecnologie non solo è diventato inefficace, ma quasi impossibile. La questione diventa quindi quella di dove collocare un accento “accelerativo”, quali aspetti emancipatori far emergere dalle proprie condizioni di possibilità, e a partire da quali limiti localizzati posti dallo sviluppo sistemico.
Il problema sollevato da Lotic contro GFOTY, è in fondo semplice: al di là dell’euforia pop di PC Music, esistono ancora corpi, culture, musiche scandalose e con un effetto destabilizzante. Che il corpo queer costituisca ancora un problema è semplicemente dimostrato dal fatto che esistono tipi come Milo Yiannopoulos: sessista, razzista, repubblicano ma gay, Yannopoulos esprime un desiderio regressivo rispetto alla propria “devianza”, in una manifestazione esplicita delle convergenze realizzabili tra neoliberismo e neofondamentalismo che testimonia una volta di più che se il sistema in cui ci troviamo opera per adattamenti mobili, bisogna rinvenire di volta in volta le possibilità localizzate di resistenza.
Ripartire dal corpo può essere un buon modo per affrontare la questione. Penso a come Arca lo fa in un pezzo come “Sin Rumbo”. Guardiamo assieme il video, firmato – come al solito – dal sodale Jesse Kanda:
Il primo aspetto da notare è l’evidenza del corpo, che è un tratto caratterizzante delle modalità espressive di Jesse Kanda (col quale Arca collabora stabilmente da anni); in particolare il fatto che in questo video l’effetto di trasformazione continua dell’immagine è ottenuto non attraverso l’animazione 3D (si pensi ad altri video della coppia come quello di “Sad Bitch”), ma attraverso piccole variazioni del punto di vista della videocamera realizzate tutte sul primissimo piano di un corpo reale.
Il secondo aspetto da notare è che il corpo su cui si concentrano i movimenti di macchina non è neutro: nel video, Arca è un non-bianco ed è letteralmente tumefatto, e si esprime con una canzone in spagnolo sudamericano che – al netto del sampling che fa da sfondo alla performance vocale (ma non la regge se non a singhiozzo, e a tratti porta l’accumulo di suono a tonfi di silenzio che fanno andare la voce di Arca a cappella) – allude a modi espressivi e forme culturali apparentemente esterni alla modernità.
Più che un elogio del margine, però, si tratta di far riapparire ciò che il postmodernismo trionfante occulta (anche nelle forme euforiche di PC Music): le temporalità diverse che abitano la modernità e le differenze che proliferano (e sopravvivono) ben dentro la modernità, al di là delle sue promesse scintillanti di perfetto compimento. Resta chiaro che, si tratti pure di un lamento tutto umano, quasi una preghiera primitiva, la sua emissione parte da condizioni di possibilità tecnologiche e le sfrutta senza alcuna nostalgia verso un passato lontano: si limita, piuttosto, a esporre il conflitto di queste componenti come componente essenziale del tempo presente.
Per Jesse Kanda i due modi già menzionati di approcciarsi alla manipolazione visiva non sono in contrapposizione: li fa operare l’uno con l’altro, per esempio, nel video di “Mouth Mantra” di Björk, brano non a caso tratto dal disco in cui la cantante islandese ha collaborato con lo stesso Arca. Non è soltanto una questione visuale: l’idea che il corpo sia in uno stato di incessante trasformazione è resa non soltanto attraverso un morphing visivo (ora da intendere in senso lato, come nel caso di “Sin Rumbo”, ora in senso letterale, come in “Mouth Mantra”), ma anche attraverso l’aspetto musicale di un continuo stress dell’accumulazione di suono.
Ha scritto Valerio Mattioli sull’ultimo numero del mensile Blow Up: “Arca è tutto tranne che un artista accomodante o facilmente ‘maneggevole’: anzi, col passare del tempo le sue produzioni si sono fatte sempre più complesse e stratificate, permeate da un pathos che lascia poco o zero spazio all’intrattenimento, e che predilige soluzioni e immagini vieppiù disturbanti. I suoi brani sono estenuanti session di morphing audio che seguono traiettorie mai prevedibili e che si avviluppano attorno a grumi di suono talmente densi da risultare impenetrabili, e danno l’impressione di osservare al microscopio qualche microorganismo che disperatamente tenta di darsi una forma compiuta, quasi sempre fallendo e infine accettando una condizione di indeterminatezza che è al contempo orgogliosa dichiarazione di alterità […]. Il modo in cui l’artista venezuelano riesce a manipolare la tecnologia contemporanea ai fini di una musica davvero mutante, trova pochi paragoni persino tra i colleghi più ‘illuminati’”.
Che però quasi in nessun brano Arca raggiunga i livelli di comunicazione involuta, intransitiva, ripiegata su se stessa, che espone per esempio un brano come “Heterocetera” di Lotic segnala probabilmente due approcci diversi alla questione che lo stesso Lotic sollevava con GFOTY: “Termini come ‘concettuale’ e ‘misterioso’ spesso si rivelano essere una scusa per abdicare alle proprie responsabilità. Non c’è niente di coraggioso nel non mostrare la tua faccia, e non c’è niente di eccitante nel non aver nulla da dire. E noi non possiamo essere spaventati da una musica che sia emozionale e conflittuale. Da quand’è che la musica non è più politica?”.
Arca vuole guardare sotto la pelle, assaggiare l'adrenalina, annusare il sudore di due corpi che si incontrano. Il coinvolgimento sessuale viene visto dall'interno, nel momento in cui Arca indaga il desiderio e l'aggressione tra corpi.
Per inciso, che i due artisti intendano diversamente gli effetti politici del loro lavoro mi sembra esplicitato in questa intervista di Arca rilasciata a Rolling Stone. Per dirla con le parole di Sasha Geffen nella sua recensione a Mutant (2015), “Arca vuole guardare sotto la pelle, assaggiare l’adrenalina, annusare il sudore di due corpi che si incontrano. Il coinvolgimento sessuale viene visto dall’interno, nel momento in cui Arca indaga il desiderio e l’aggressione tra corpi, solo per scoprire quanto questi provengano da una radice comune”. Che è più o meno lo stesso motivo per cui, come dichiara nell’intervista a Rolling Stone, Arca percepisce e sfrutta il potenziale eversivo di urlare a un migliaio di persone durante un live show “it’s too much for me to take” in riferimento al sesso anale, e allo stesso tempo mette in campo una visione complessa del sessismo e dell’omofobia degli ambienti rap e hip hop che lo conduce a dire che “i testi potranno pure dire cose orribili, ma il messaggio musicale a volte può essere dissociato da qualsiasi moralità”.
Ora, che la centralità stia tutto nella messa in gioco del corpo (dei corpi) e della loro personal experience, non in termini di contrapposizione ma di messa in evidenza delle potenzialità di sviluppo da parte delle differenze, mi pare che ricorra anche nel brano e nel video “PILLOWQUEEN” che aveva rilasciato per lanciare il suo “circuit slumber party” a New York. Eccolo qua:
Mentre la musica flirta con certe modalità dell’RnB allusive e insinuanti rispetto al sesso, un po’ sussurrate e un po’ ansimate, l’intero video gioca sulla (sovra)esposizione dei corpi nei loro aspetti ambigui e feticistici (ma non pornografici), integralmente sessualizzati ma riletti tutti attraverso gli aspetti giocosi di questo erotismo in overdrive, al punto che la temperatura del colore stessa è portata il più possibile – a volte fino al grottesco – al rosso. Ma ciò che è più interessante è che video e musica giocano tutto sul crinale di un’ambiguità: nessuno fa effettivamente del sesso in questo video, e anzi tutti i comportamenti sembrano dettati da una postura giocosa e infantilizzata che rende perfettamente credibile (e accessibile) la quasi completa indistinzione di genere e di orientamento sessuale che domina la costruzione di questo ambiente ipotetico.
Prima di concludere, ha quindi senso tornare a Xen (2014), il vero e proprio album d’esordio di Arca. Xen è l’alter ego genderless di Arca, maturato a partire dalla sua adolescenza e trasformato in una sorta di vita parallela che il concept album racconta anche visivamente attraverso il booklet curato dal solito Kanda. Rispetto al discorso che abbiamo fatto finora, è interessante valutare che se in un’intervista Arca dichiara che – in quelle che possiamo chiamare le sue “emersioni di Xen” – acconciare il lenzuolo con cui giocava a mo’ di vestito da donna “felt more right”, resta comunque perfettamente consapevole dell’aspetto completamente costruito e assemblabile dell’identità di genere. Da questo punto di vista, Xen è un laboratorio musicale e visuale che espone i risultati di questo assemblaggio.
Giocando con la somiglianza terminologica, viene da condurre un confronto (ma non un’identificazione) tra Xen e lo Xenofeminist Manifesto di Laboria Cuboniks, che afferma:
La libertà non è un dato di fatto – e non è certamente data da qualcosa di “naturale”. La costruzione della libertà implica non meno, ma più alienazione; l’alienazione è il lavoro di costruzione della libertà. Nulla dovrebbe essere accettato come fisso, permanente o “dato” – né le condizioni materiali né le forme sociali. XF muta, naviga e sonda ogni orizzonte. Chiunque sia stat* ritenut* “innaturale” a fronte delle norme biologiche dominanti, chiunque abbia sperimentato le ingiustizie compiute in nome dell’ordine naturale, si renderà conto che il culto della “natura” non ha nulla da offrirci – le persone queer e trans tra di noi, le diversamente abili, così come chi ha sofferto discriminazioni a causa di gravidanze o doveri relativi alle cure parentali. XF è veementemente anti-naturalista. Il naturalismo essenzialista puzza di teologia – prima viene esorcizzato, meglio è.
Provo a chiudere con un paio di considerazioni. La prima riguarda le contraddizioni delle strategie accelerazioniste per come ho provato a esporle rapidamente. Probabilmente non si tratta di continuare a intendere le strategie accelerazioniste come omogenee al loro interno; in questo senso, porre la questione nei termini di Harper, secondo il quale la pulsione di morte della strategia accelerazionista “è diventata troppa”, può essere fuorviante (almeno quanto continuare a usare lo stesso termine “accelerazionismo”, che si presta a numerosi fraintendimenti e che gli stessi estensori del manifesto che lo riguarda hanno provveduto a lasciar cadere progressivamente).
La seconda considerazione riguarda l’uso del corpo. Se da un lato mi sembra inevitabile che l’apparizione della differenza e l’accento sulla sua modulabilità, sulle possibilità di morphing come tecnica di costruzione del sé anche a partire dalla semplice deviazione dalla norma (eterosessuale, bianca, maschile), costituiscano un interessante aspetto resistente sviluppatosi dentro le strategie hi-tech, dall’altro lato bisognerebbe chiedersi se l’uso delle nuove tecnologie non conduca semplicemente a una ri-costruzione virtuale del corpo, e dunque a un’utopia del corpo che non formula alcuna ipotesi trasformativa radicale.
Nel campo della musica elettronica, per esempio, Genesis P-Orridge ha già condotto una ri-costruzione letterale del proprio corpo (un grazie a Francesco Birsa Alessandri per avermi fatto riflettere su questo punto). Ma basterebbe anche un esempio celebre tratto dall’arte contemporanea come il lavoro di ORLAN. La domanda da porsi mi sembra, in fin dei conti, questa: il lavoro virtuale sul corpo offre una possibilità inedita e più accessibile di ri-costruzione del sé rispetto all’impegnativo lavoro di trasformazione permanente del proprio corpo? O ancora: non si tratterà di un’espansione delle pratiche di drag queening e drag kinging che consente di rilevare gli aspetti già precari della costruzione dell’identità di genere (e si potrebbe discutere di quanto queste pratiche possano essere efficaci invece nel contesto della razzializzazione) e dunque della possibilità di manipolarla anche a partire da aspetti minimi che non investano il corpo nella sua totalità? Che insomma la decostruzione dell’identità di genere non sia da produrre, ma già in atto?
Per il momento, se non altro possiamo limitarci a ringraziare Arca e Jesse Kanda per aver stimolato queste domande attraverso la loro musica e la loro estetica.
Nasce a Palermo nel 1990, studia storia dell'arte a Pisa e come tutti i comunisti dei centri sociali è fuori corso. Da grande non vuole fare niente, che già vivere gli fa fatica.