La fine del mondo è già arrivata. Lo spiega il filosofo anglo-texano Timothy Morton, e con lui due delle opere più importanti della recente fantascienza “ecologista”: la trilogia dell'Area X di Jeff VanderMeer, e Aurora di Kim Stanley Robinson.
Non sono moltissimi i libri capaci di imporre categorie che cambiano l’approccio del lettore alla realtà della propria epoca. Per quanto mi riguarda, uno di questi libri è Hyperobjects. Philosophy and Ecology After the End of the World: l’ha scritto Timothy Morton, è stato pubblicato in inglese nel 2013, e almeno per ora non è ancora stato tradotto in italiano.
Timothy Morton è un filosofo britannico trapiantato alla Rice University a Houston, Texas, e se un filosofo britannico trapiantato in Texas non fosse già di per sé una cosa al limite dell’assurdo allora vi consiglio di dare un’occhiata al suo blog: ci troverete inquietanti opere d’arte contemporanea, scambi di email con Björk e un selfie in cui indossa una maglietta recitante quanto segue:
E questo dovrebbe farvi capire a grandi linee il personaggio. Ma al di là dell’auto-rappresentazione social-mediatica, Morton è, in ordine sparso, A) un filosofo ecologista, B) uno dei fondatori della Object-Oriented Ontology, per gli amici OOO, e dunque C) uno degli esponenti di punta del post-umanesimo. Il suo nuovo saggio si intitola Dark Ecology ed è giusto in uscita a giorni per la Columbia University Press.
Ora, entrare nei dettagli di cosa sia la OOO è complicato e solo parzialmente rilevante ai fini di questo discorso. Per ora ci basta capire alcuni semplici punti. Primo, al centro della OOO c’è la critica all’antropocentrismo, espressa nella forma di una sorta di “ontologia piatta” che equipara – esempio di Morton – me a una tazzina di plastica. O anche me a un uccello tropicale: siamo tutti “oggetti” che coesistono in un sistema.
Secondo, la OOO è fortemente influenzata dal linguaggio tecnico, altrimenti non si chiamerebbe come un modello di programmazione informatica (Object-Oriented Programming) e al contempo è un movimento filosofico realista, come dovrebbe chiarire il termine “ontologia” (a proposito di filosofia realista, vedi anche l’articolo di Anna Longo su Ray Brassier, Eugene Thacker e… Thomas Ligotti). Terzo e più rilevante per noi, a rendere centrale Morton nel movimento è stata la formulazione dell’idea di un pensiero ecologista che faccia a meno del concetto di natura (vedi il suo Ecology without Nature del 2007), un argomento che sarebbe poi proliferato oltre i confini della filosofia d’avanguardia: pensate ad Addio alla Natura di Gianfranco Marrone, ai recenti The Invention of Nature e After Nature, a tutto il dibattito sull’antropocene, e più in generale a quanto il tema della natura e della sua artificialità sia diventato centrale nel discorso culturale contemporaneo. Insomma, non più e non solo un discorso di nicchia.
A rendere centrale Morton è stata la formulazione dell'idea di un pensiero ecologista che faccia a meno del concetto di natura, un argomento che sarebbe poi proliferato oltre i confini della filosofia d'avanguardia.
Con Hyperobjects Morton indirizza il proprio discorso a un tema specifico, quello del global warming: il riscaldamento globale è l’iperoggetto per eccellenza, o quantomeno l’iperoggetto che minaccia più direttamente le nostre vite e dunque quello di cui è più urgente occuparsi. Ma cosa sono esattamente gli iperoggetti, e perché la loro definizione aggiunge una categoria importante alla nostra lettura della realtà? Da qui in avanti proverò a spiegarlo con l’ausilio di due libri al centro dei quali ci sono uno o più iperoggetti: la Trilogia dell’Area X di Jeff VanderMeer (2014, in italiano nel 2015) e Aurora (2015, non ancora tradotto) di Kim Stanley Robinson.
La trilogia di VanderMeer parla, com’è noto, di una zona di natura selvaggia nel sud degli Stati Uniti in cui accadono eventi inspiegabili. Il romanzo di Robinson, come invece è meno noto in Italia, racconta di una spedizione umana mandata a colonizzare un pianeta nel sistema di Tau Ceti, lontano dodici anni luce dalla Terra. Le similitudini tra questi lavori di narrativa e la proposta filosofica di Morton sono evidenti anche a livello grafico, come fa notare questo tweet che paragona la copertina di Annihilation di VanderMeer a quella del già citato Dark Ecology:
Neat. New book cover for @the_eco_thought indicates aesthetic overlap with @jeffvandermeer #iconasindex pic.twitter.com/6XgyVOr3G7
— Mike Lesiuk (@MikeLesiuk) March 15, 2016
Queste somiglianze non sono un caso. VanderMeer è un lettore Morton (anche se forse dopo aver scritto i suoi romanzi), ha parlato esplicitamente dell’influenza degli iperoggetti nella letteratura e si è spesso occupato del rapporto tra narrativa e riscaldamento globale. In quanto a Kim Stanley Robinson il link è ancora più diretto, non solo perché come ha spiegato Giovanni De Matteo proprio qui su Prismo Robinson è tra i principali esponenti della climate fiction, ma anche perché c’è un suo endorsement al lavoro di Morton in quarta di copertina di Hyperobjects. Inoltre, se non stupisce che un lettore ed editore di fantascienza come VanderMeer conosca un vecchio maestro del genere come Robinson, più interessante è che lo citi in un lungo articolo proprio dedicato agli iperoggetti. Fatta questa dovuta introduzione, siamo pronti per scendere nel dettaglio, e dunque vediamo.
Innanzitutto, scrive Morton, gli iperoggetti sono non-locali, nel senso in cui “la pioggia che mi cade in testa non è il riscaldamento globale”. In altre parole il riscaldamento globale in quanto tale non può mai essere visto né percepito, perché è troppo esteso spazialmente e temporalmente: la nostra incapacità di coglierlo deriva dal fatto ci siamo immersi “come nel ventre della balena”. E in effetti all’inizio di Annientamento, il primo romanzo della trilogia di VanderMeer, la spedizione inviata nell’Area X scopre con stupore che non c’è niente di apparentemente anomalo nella natura incontaminata che li circonda; tuttavia in quel preciso istante l’Area X sta già esercitando il suo influsso su di loro, alterandone le percezioni.
Scrive ancora Morton che gli iperoggetti sono viscosi, nel senso che sono sia dentro che fuori di noi (siamo negli iperoggetti come la vespa di Sartre che affoga nel barattolo della marmellata – ah, che belle le metafore esistenzialiste!), interagiscono con noi a livello inconscio e corporale. Questo è il caso dei materiali radioattivi trasportati dal vento dopo Hiroshima, dello strato di carbone che ricopre la Terra dall’invenzione della macchina a vapore, dei pesticidi che assumiamo con il cibo: tutti iperoggetti secondo Morton. Allo stesso modo, quando la spedizione descritta in Annientamento scopre uno strano fungo sul muro di (quello che sembra) un pozzo, il fungo esplode e i membri della spedizione ne respirano le spore. L’Area X penetra così nei loro corpi oltre che nelle loro coscienze. La stessa cosa capita nel romanzo di Robison ai membri della spedizione per Tau Ceti quando, dopo un viaggio lungo secoli, atterrano su Aurora: apparentemente il pianeta è accogliente, ma (attenzione, spoiler!) ben presto cominciano ad ammalarsi a causa di un batterio autoctono resistente alle difese immunitarie terrestri.
Da un lato quindi abbiamo l’Area X e Aurora, dall’altro le spore del fungo e il microorganismo alieno: entità troppo grandi o troppo piccole per essere percepite dall’intelletto umano, dunque di fatto invisibili. Morton scrive che gli iperoggetti sono sempre troppo vicini per essere visti, e infatti in Autorità, il secondo dei romanzi della trilogia di VanderMeer, l’unico filmato esistente dell’entità che agisce nell’Area X rappresenta un oggetto che riempie tutto lo spazio della telecamera, letteralmente troppo vicino per essere visto. Gli iperoggetti portano a una sorta di blocco epistemologico: ciò che capita all’interno dell’Area X forse capita solo nelle menti dei membri della spedizione, e il microrganismo che fa fallire la colonizzazione di Aurora è così piccolo che l’equipe medica che si occupa di studiarlo non può nemmeno affermarne con certezza l’esistenza.
Il che ci porta direttamente al cuore della OOO, ovvero la critica all’antropocentrismo. La trilogia di VanderMeer è tra le altre cose anche la rappresentazione di un’apocalisse postumana: l’Area X è un luogo dove l’essere umano perde il suo posto centrale nella gerarchia degli esseri viventi e viene soggiogato alla natura, si trasforma in qualcosa di essenzialmente non-umano. Ma il punto è ancora più chiaro in Aurora, dove a narrare la vicenda della spedizione per Tau Ceti è l’intelligenza artificiale della nave spaziale (regolata da un computer quantistico: i passaggi sulla meccanica quantistica e la teoria della relatività sono i più ostici del lavoro di Morton).
Nella nave narrata da Robinson coesistono esseri umani (i quasi duemila membri della spedizione di colonizzazione), animali (la nave è suddivisa in ventiquattro biomi che riproducono ecosistemi terrestri popolati delle relative specie viventi: la nave, cioè, è anche un’arca) e macchine. Tutte queste entità interagiscono in un sistema ermeticamente chiuso, dato che oltre le pareti della nave c’è solo il quasi-vuoto dello spazio interstellare. E proprio la chiusura del sistema è ciò che fa dire a Morton che “la fine del mondo è già successa”, in questo senso: che la realtà degli iperoggetti è così presente (sono sempre troppo vicini per essere visti, ricordate?) da far tramontare l’idea di un “altrove” che giustifichi l’esistenza di un mondo.
Immaginate cosa succede quanto tirate lo sciacquone: voi credete che i vostri rifiuti corporali scompaiano per magia, ma in realtà vanno semplicemente a finire in mare. Non c’è un “altrove” dove gli scarti spariscono: gli iperoggetti ci sono addosso.
Se questo vi sembra filosofese, il nostro texano d’adozione, che è anche un po’ punk, è pronto a venirvi incontro con una metafora più concreta. Immaginate il gabinetto di casa vostra. Immaginate cosa succede quanto tirate lo sciacquone: voi credete che i vostri rifiuti corporali scompaiano per magia, ma in realtà, dice Morton, vanno semplicemente a finire in mare. Non c’è un “altrove” (bella e intraducibile la formula in inglese che usa: over yonder) dove gli scarti spariscono: gli iperoggetti ci sono addosso, il sistema è chiuso e quando i nostri rifiuti entrano in circolo prima o poi ci tornano indietro. Curiosamente, i due romanzi esprimono questo concetto in maniera diametralmente opposta. In Aurora la nave spaziale ricicla letteralmente qualsiasi cosa, dalle colonie di batteri alle ossa degli umani morti, per mantenere vivo il proprio sistema interno. Al contrario, nei romanzi di VanderMeer è l’Area X che travalica i propri confini e si espande, minacciando di inglobare il mondo intero. In entrambi i casi il risultato è che non c’è “altrove” in cui rifugiarsi.
Tanto più che gli iperoggetti, dice ancora Morton, esistono su scala temporale enorme, e dunque l’altrove non può esistere nemmeno nel tempo. Attenzione: non parliamo di una scala infinita (l’infinito è un concetto romantico, questo è uno che indossa magliette con la scritta I surrender e per giunta è un realista) ma dell’ambito delle “grandi finitudini”: Hyperobjects è pieno di passaggi suggestivi sul tempo di dimezzamento del plutonio (24.200 anni) e gli effetti sui millenni futuri del global warming. Allo stesso modo, uno degli aspetti più potenti di Aurora è la scala temporale su cui il romanzo è costruito. Sebbene la nave spaziale si muova a una velocità inaudita, la distanza di Tau Ceti dalla Terra di dodici anni luce fa sì che il viaggio verso Aurora impieghi centosessant’anni e sette generazioni di coloni, e altrettanti saranno necessari per (attenzione, altro spoiler!) il viaggio di ritorno verso la Terra.
La nave insomma, il vero iperoggetto del romanzo di Robinson, esiste su una scala temporale diversa da quella degli esseri umani. Lo stesso capita nell’Area X, dove il tempo sembra essersi fermato o non esistere del tutto: senza indicatori temporali umani (al di là del confine non c’è tecnologia, ad esempio) le cose nell’Area X accadono in un tempo sospeso, interstiziale, non misurabile.

Questo porta Morton a dire, di nuovo con una formula riuscita, che gli iperoggetti sono “lo strano straniero”, il perturbante nella vita quotidiana. D’altra parte proviamo a prendere la citazione da cui siamo partiti: se “la pioggia che mi cade in testa non è il riscaldamento globale” allora che cos’è questa pioggia? È una cosa apparentemente quotidiana e conosciuta che, se osservata più da vicino, non lo è affatto. Nell’Area X ci sono delfini che sembrano avere un volto umano; le scritte sui muri sono funghi; i membri della spedizione non sono chi dicono di essere e quello che sembra un pozzo è in realtà una torre (il negativo di un pozzo, potremmo dire: basterebbe questo a farci capire che siamo nel regno degli oggetti impossibili). Allo stesso modo a far fallire la colonizzazione di Aurora è il fatto che l’alterità di un pianeta diverso dalla Terra è semplicemente irriducibile, le onde dei suoi mari assomigliano ma non sono le onde dei mari terrestri, il suo ciclo di rotazione e rivoluzione non è sincronizzato alla biologia umana, il suo vento contiene spore patogene.
Proviamo quindi ad allargare ulteriormente l’orizzonte del discorso. Se c’è una cosa che collega Morton, VanderMeer e Robison è naturalmente l’ecologismo, o meglio ancora l’idea che dal punto di vista ecologico le cose su questa nostra Terra si stiano facendo piuttosto inquietanti: questo è un tema della nostra epoca, uno dei più ricorrenti e allarmanti. Le ultime pagine di Aurora sono dedicate all’adattamento dei sopravvissuti all’ecosistema terrestre, che per esseri umani nati a bordo di una nave spaziale è almeno parzialmente un ecosistema alieno, un’altra sfumatura dello “strano straniero”. C’è una poesia di Constantine Cavafy, un poeta greco vissuto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, che viene continuamente ripetuta da alcuni tra i protagonisti. Il testo originale, nella traduzione inglese di Lawrence Durrell, suona così:
There’s no new land, my friend, no
New sea, no other place, always this
Your earthly landfall, and no ship exists
To take you from yourself. Ah! Don’t you see
Just as you’ve ruined your life in this
One plot of ground you’ve ruined its worth
Everywhere now – over the whole Earth?
E così i protagonisti di Aurora la adattano alla loro esperienza:
There’s no world, my friend, no
New seas, no other planets, nowhere to flee –
You’re tied in a knot you can never undo
When you realize Earth is a starship too
Eccoci qui: la versione ecologista e planetaria dell’assenza di “altrove”, la constatazione che non c’è over yonder che trascenda la Terra se questa è condannata alla catastrofe ecologica. Ma c’è anche qualcosa di più. La Terra come nave spaziale non è un’invenzione di Kim Stanley Robinson, ma è un’espressione che dalla fine dell’Ottocento (il primo a usarla fu l’economista americano Henry George nel 1879) viene utilizzata per indicare la limitatezza delle risorse naturali presenti sul pianeta e la necessità di farne un uso razionale. L’immagine è diventata di uso più comune dall’inizio dell’era spaziale negli anni Cinquanta, e poi ancora di più da quanto le prime fotografie della Terra vista dallo spazio hanno sottolineato la “chiusura” del sistema-Terra in contrasto con il nero e il vuoto cosmico. Soprattutto il termine è stato popolarizzato da Richard Buckminster Fueller, l’inventore delle cupole geodetiche, che nel 1968 aveva dato alle stampe un piccolo libro intitolato Operating Manual for Spaceship Earth, una delle bibbie del movimento tecno-ecologista degli anni Sessanta.
Perché, a conti fatti, è qui che il discorso di Morton va a parare, spogliato delle suggestioni post-punk, dei discorsi sull’arte contemporanea, delle elucubrazioni sui quanti e della critica a Hegel: la Terra è il vero iperoggetto, quello in cui viviamo immersi, dal quale non possiamo scappare, nel quale coesistiamo con miliardi di altri oggetti su una scala temporale che ci trascende. Questo lo sapevano già negli anni Sessanta gli architetti visionari come lo stesso Buckminster Fuller e gli hippy come Stuart Brand, che vendevano per corrispondenza kit per costruire la propria cupola geodetica e così facendo davano avvio al lungo percorso che avrebbe portato alla nascita di Google.
In quella visione di un futuro possibile c’erano già i germi del postumanesimo, della tecnologizzazione della natura, dell’interconnessione; l’orizzonte era già quello della sopravvivenza della specie alla catastrofe ecologica o nucleare. Quello che all’epoca ancora non esisteva era l’orrore provocato dalla constatazione che “la pioggia che mi cade in testa” non è pioggia, che “lo strano straniero” è in mezzo a noi. La sensazione che la “la fine del mondo è già arrivata”. E, come dice la t-shirt del nostro filosofo anglo-texano (e come sanno i membri della spedizione nell’Area X, come i coloni umani su Aurora) di fronte a questo orrore c’è una sola cosa da fare: arrendersi.
Gianluca Didino è nato nel 1985 in Piemonte. Ha vissuto otto anni a Torino e da tre vive a Londra. Suoi articoli sono stati pubblicati su IL, Studio, Nuovi Argomenti. Ha curato la rubrica VALIS sul Mucchio Selvaggio e attualmente collabora con minima&moralia e Doppiozero.