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Da Lione ad Austin, da Thief a Dishonored, da System Shock a Prey: gli Arkane Studios rappresentano oggi la sintesi più elegante di vent’anni di game design. Con il loro reboot di Prey in uscita oggi, ne ripercorriamo storia e filosofia di sviluppo.

Benché sia un fan di Sergio Leone e dei western in generale, non basterebbero cento sigari di Clint Eastwood, mille sguardi di Lee Van Cleef e un milione di tramonti a cavallo per farmi apprezzare il Texas, quello vero. Lo detesto: è un luogo dove ogni stereotipo americano, già fin troppo reale di suo, fa un balzo di qualità e parte per le stelle. Lo spreco è legge, e tutto viene portato all’eccesso per una non meglio precisata deviazione psicotica di larga parte della popolazione.

Ma allora perché mi trovo ad Austin – città relativamente piacevole, va detto, ma comunque eccessiva – con 13 ore di volo alle spalle? Perché mi trovo in questo luogo dimenticato forse da dio, ma certamente non dalle sue chiese a pagamento? Perché, soprattutto, sono seduto in un ristorante aperto da un ragazzo di Taranto, col sorriso in volto, a mangiare una pizza con le acciughe?

La risposta sta, prima che nel cibo, nei miei due commensali: Raphaël Colantonio, fondatore di Arkane Studios, e Seth Shain, producer e system designer della casa di sviluppo francese trapiantatasi da qualche anno nel Lone Star State. Il primo, da bravo uomo di successo italo-francese, è seduto tra due donne di bell’aspetto e si gode questo raro angolo di buona cucina sorseggiando del vino in silenzio; il secondo, tra una discussione sulla cucina italiana e un aneddoto, mi riempie la testa di dati sul gioco a cui la squadra sta lavorando, quel Prey che ho potuto assaporare nelle ore precedenti la nostra cena.

Indizi: si inizia il gioco con una chiave inglese...

“In teoria dovrebbe essere un reboot di Prey [un FPS del 2006, ndR], ma in pratica state sviluppando un nuovo System Shock, non è così?”. Seth ridacchia sornione, poi annuisce: “Ci hai azzeccato, ma solo in parte. Non è esclusivamente da lì che viene la nostra ispirazione”. È vero: il gioco che ho provato è potenzialmente qualcosa di molto più elaborato e divertente del geniale – ma ormai vecchissimo – System Shock e del suo eccezionale seguito, e per molti versi rappresenta un’evoluzione della sua filosofia. Come il suo predecessore spirituale, il nuovo Prey punta infatti tutto su atmosfera, level design, trama e world-building: princìpi in sé difficili da realizzare efficacemente, e che per giunta vanno calati in un contesto di sviluppo dove i reparti marketing generalmente impongono di creare roba per cerebrolesi. Com’è possibile che questo team stia facendo proprio questo? È semplice: Arkane non è arrivata a potersi permettere di sviluppare giochi simili all’improvviso; ha dovuto sudarsela, la reputazione necessaria. Rischiando anche di finire male nel processo.

Partenza in salita
Tutto nasce da Colantonio, un uomo che mi ha portato da Lucky’s Puccias and Pizzas quasi per sfida, come a dimostrare che perfino in Texas è in grado di trovare una pizza decente. Raphaël è infatti sì rispettoso, brillante e capace di dire sempre la cosa giusta, ma al contempo ha sufficiente sfrontatezza e coraggio per imporre la sua volontà sulle circostanze del momento.

Arx Fatalis, il lodevole tentativo di far rivivere i fasti di Ultima Underworld.

Per esempio, quando nel 1999 abbandonò Electronic Arts Francia – dov’era stato assunto sei anni prima – per fondare Arkane. Oppure, ancora, quando sbatté la porta in faccia al colosso di Redwood nel mezzo dello sviluppo del loro primo gioco, l’ambizioso Arx Fatalis (2002), un sequel spirituale dei gloriosi Ultima Underworld a cui mancavano solo la licenza ufficiale e i finanziamenti per completarlo con tutti i crismi. EA si era dimostrata disponibile a cedere i diritti e a versare un po’ di liquidità nei forzieri Arkane, a condizione però di poter esercitare il suo controllo sullo sviluppo del titolo: un compromesso ragionevole sulla carta, che però venne rifiutato poiché la sola idea di sottostare alle direttive di qualcun altro (specialmente di una società nota all’epoca per essere il cimitero degli sviluppatori) era, per Colantonio, impensabile.

Un rifiuto pesante, soprattutto perché all’epoca stavano rischiando il fallimento. Per cui, delle due l’una: o sei un pazzo, oppure credi ciecamente nelle capacità tue e del tuo team. Inutile a dirsi, la risposta giusta è la seconda, e deriva dall’esperienza che già allora Colantonio aveva accumulato, lavorando alla localizzazione e al controllo qualità dei titoli di Origin Systems (tra cui pure System Shock) e seguendo da vicino le orme di maestri illustri quali Doug Church e Richard Garriott.

Due nomi, questi, che il Nostro cita all’istante quando gli si chiede chi lo ha ispirato: entrambi sono pionieri dell’arte videoludica (seppur con punti di partenza e d’arrivo molto diversi) che hanno posto davanti a ogni altra considerazione la libertà lasciata al giocatore. La loro filosofia, che poi è stata abbracciata dall’intero team Arkane, era quella secondo cui un gioco è bello quando permette al giocatore di “rompere” i livelli grazie all’uso delle sue meccaniche. Non bug, dunque, bensì opportunità nascoste: stili di gioco poco ortodossi e percorsi alternativi tarati sull’intelligenza, l’esperienza e la curiosità dell’utente. Gli Ultima di Garriott erano infatti tremendamente complessi e liberi persino per l’epoca creativamente anarchica in cui uscirono, così come lo erano i lavori di Church, primo tra tutti quel Thief di cui Dishonored di Arkane è l’erede ufficioso.

Thief (1998): la grafica è invecchiata, il gameplay no.

Un’altra fonte d’ispirazione è senz’altro quel capolavoro assoluto di Deus Ex, altro gioco ideato e sviluppato in una sorta di estasi creativa difficilmente irregimentabile, tanto che i suoi stessi creatori non riuscirono mai a ripetere l’arcano in egual misura. La sua sconfinata complessità ludonarrativa – le cui meccaniche risultavano aggirabili o sovvertibili a più riprese – è probabilmente la ragione per cui il sequel, decisamente più formulaico, ancora oggi non viene tenuto in gran considerazione dai fan nonostante sia un gioco valido.

Dal canto suo, Arx Fatalis (che da Deus Ex prendeva molta della libertà lasciata nello sviluppo del giocatore e negli approcci alle situazioni), figlio dell’inesperienza della software house com’era, ai tempi non convinse l’utenza, che ne apprezzò più le potenzialità che il risultato finale. Come era già successo ai creatori di Deus Ex prima di loro, la bellezza imprevedibile era impossibile da replicare. Perciò non stupisce che nei dieci anni successivi gli Arkane abbiano battuto strade diverse, finché nel 2012 non trovano un’altra via. Una via matematica. Una via perfetta.

Dishonored
Mi riferisco a Dishonored, uno dei migliori giochi stealth mai usciti. Un titolo di rara bellezza, genialità e complicazione, in cui tutti gli elementi s’incastrano a perfezione tra loro; un titolo che ho amato al punto tale che, quando ne parlo a Seth con toni entusiasti, mi rendo conto di sfiorare il lecchinaggio. Gli dico che secondo me fino ad allora le limitazioni dei loro giochi non erano dovute all’assenza di talento o di volontà, bensì a budget ristretti; non a caso, quando Bethesda/ZeniMax rilevano Arkane nel 2010, il problema viene risolto. Dishonored infatti non raggiunge l’eccellenza solo grazie alla commistione tra talento e inventiva, bensì, grazie a disponibilità economiche finalmente in linea con le ambizioni dei suoi sviluppatori. Il ghigno soddisfatto che si disegna sul volto di Shain conferma che ho fatto centro. “Yes, you got it”, dice, col tono di uno che si è appena tolto un macigno dallo stomaco dopo aver trovato un confidente.

Ovviamente, non è però solo una questione di soldi. Per esempio, si potrebbe pensare che la crescita del team e delle sue abilità ingrani con l’arrivo del game designer Harvey Smith (circa 2008, un altro veterano di Deus Ex e System Shock). Ma per quanto sia significativa la sua figura, Colantonio e i suoi più fidati collaboratori avevano già all’epoca formalizzato quella “gabbia” – non lasciatevi ingannare dalla definizione – entro cui sviluppare la loro filosofia creativa. Per “gabbia” si intende in questo caso l’iniziale limitazione delle azioni del giocatore, così da dargli modo di acclimatarsi a un level design che si fa progressivamente sempre più complesso e labirintico.

Dishonored, anche noto come Thief 2012.

Prendiamo come esempio proprio Dishonored, che è frutto di una raccolta sparsa di idee cresciute nel corso degli anni e riorganizzate secondo questa formula: dopo un breve tutorial, dal ritmo compassato, il gioco inizia in una prigione da cui il protagonista deve evadere. Tramite la topografia del luogo e il posizionamento dei nemici si intuisce istintivamente che l’esplorabilità è la chiave giusta di lettura del gioco, ma nelle prime ore il gioco è ancora in potenza. Mostra cioè all’utente una mappa (che verrà poi rivisitata) facendogli annusare la libertà, ma al contempo limitandolo nei movimenti, così da evitare che il flusso di dati e la complessità delle meccaniche risultino soverchianti. Poi, però, arriva l’Esterno e, dopo l’incontro con lui, il Blink (ovvero la capacità di teletrasportarsi per brevi distanze): da lì si possiede il mezzo fondamentale per perlustrare ogni location.

Ciò che segue è game design pratico nella sua forma più genuina: un percorso costruito appositamente per far comprendere al giocatore che il Blink non è in realtà un teletrasporto vero e proprio, bensì un rapido movimento nello spazio (l’icona è pensata per mostrare l’esatto punto di atterraggio, e l’animazione non lascia adito a dubbi); informarlo poi del fatto che l’utilizzo è legato a una barra dell’energia dedicata; infine, soprattutto, che si tratta di una manovra essenziale e utilissima, ma limitata. Nell’insieme si tratta dunque di un percorso d’addestramento mistico, al termine del quale il giocatore può aggirarsi liberamente nelle strade della città di Dunwall, conscio delle proprie capacità e dei propri limiti ma sempre invogliato a sperimentare (“posso raggiungere quel balcone”?).

Se avanzando le mappe si fanno sempre più estese, ricche di passaggi e verticalizzate, non bisogna però credere che la situazione sia mutata più di tanto rispetto all’inizio: la gabbia è sempre lì, si è solo fatta enormemente più larga e dorata. La libertà d’azione all’interno del mondo è notevole, ma resta sempre sotto il controllo degli sviluppatori, perché ogni luogo presenta ostacoli pensati per permettere gradualmente di avanzare con l’apprendimento e lo sfruttamento di nuovi poteri, e ogni nuovo livello non fa che aumentare le possibilità del giocatore e, di rimando, i rischi che corre, nella consapevolezza che la padronanza delle meccaniche di chi gioca è cresciuta ora dopo ora.

L’arrivo nella città di Karnaca: già da qui si aprono almeno quattro percorsi differenti. Riuscite a vederli?

Il culmine di questo game design, concettualmente maturo e tecnicamente raffinatissimo, lo si apprezza ancor di più in Dishonored 2 (2016). Figlio del solo Harvey Smith (durante la produzione Colantonio e i suoi fedelissimi erano già al lavoro su Prey), il gioco è un seguito diretto e, come tale, si prende maggiori libertà rispetto al suo predecessore. Orientarsi nella soleggiata Karnaca è più arduo rispetto alla caduca Dunwall e così, assieme a un aumento della necessità d’esplorazione, anche il resto del bagaglio ludico si arricchisce di numerosi elementi. All’atto pratico, pur non abbandonando del tutto i neofiti, il successore parte dal presupposto che la maggior parte dell’utenza venga dal capitolo precedente e che quindi disponga del bagaglio “culturale” adatto per apprezzare meccaniche e livelli ancora più complessi che in precedenza. Prova ne è il livello più iconico dell’intera campagna, ovvero la Clockwork Mansion di Kirin Jindosh, dove azionando alcune leve è possibile far mutare del tutto la planimetria dell’edificio: per rendere al meglio l’idea, immaginate un labirinto le cui pareti ruotano e slittano fino a far scomparire e apparire a piacimento determinati percorsi. Nota bene, però, che non esiste un’unica soluzione: a prescindere dalla combinazione di stanze e corridoi scelta, è comunque possibile portare a termine il livello.

Creare un livello simile è, per un designer, un’evidente dimostrazione di ingegno, pazienza, ed esperienza: basta poco perché l’utente medio non capisca più dove si trovi, risultando così disorientato e infastidito dai continui cambiamenti. Per fortuna, l’autore della Clockwork Mansion è Daniel Todd, creatore di un noto fansite dedicato ai giochi di Looking Glass (quelli di Ultima e Thief, guardacaso) ma soprattutto architetto, che in tandem con altri level designer di Arkane è riuscito a creare una mappa dove il groviglio di strade alternative riconduce in realtà sempre in certe zone predefinite, rendendo possibile sia ignorare le trasformazioni, e seguire così un percorso lineare, sia aggirarle del tutto e raggiungere l’obiettivo per vie traverse. A indicare se il giocatore stia seguendo o meno i piani degli sviluppatori ci pensa il padrone di casa, Jindosh: avanzate per i corridoi della villa ammazzando guardie ed egli commenterà le vostre azioni convinto di aver tutto sotto controllo. Se però provate a uscire dal percorso predefinito lo sentirete innervosirsi rapidamente poiché ha perso le vostre tracce; oppure, ancora, ignorate del tutto la prima leva che incontrerete a favore di un Blink verso il lucernaio, ed ecco che rimarrà in silenzio, del tutto inconsapevole della vostra presenza. Almeno finché non commetterete qualche errore.

Un interno della Clockwork Mansion, tra i migliori livelli della storia dei videogiochi.

Si tratta di una sezione geniale, che per certi versi viene commentata dagli stessi sviluppatori e può lasciarli senza parole quando il giocatore ribalta completamente i loro piani. Eppure resta una gabbia, con muri invisibili ma ben definiti, della cui presenza non ci si accorge solo perché a reggerli è un’architettura – geografica e ludica – di una complessità magnifica. Ecco: per questo e molto altro, in quella pizzeria in Texas, provo un’esaltazione reale.

Di Prey ed eredità spirituali
Poi, certo, si può criticare Arkane per aver prodotto un sequel che da un punto di vista strutturale e di game design aggiunge poco all’originale. Ciò detto, non è umanamente possibile criticare la loro forma mentis: Colantonio, Shain e gli altri credono fermamente nelle capacità di adattamento dei giocatori e si esaltano proprio nel vederli portare al limite le loro opere (a tavola mi hanno rivelato di esaltarsi davanti agli spettacolari video di StealthGamerBR), dietro alle quali si nascondono spesso giorni e settimane di straordinari e numerosi esaurimenti nervosi schivati all’ultimo. Raphaël ammette infatti senza pudore che è felice di potersi godere Dishonored 2 anche perché “non ci ha lavorato lui”. Al contempo, non sono molti i team che da un lato ammirano profondamente classici come Deus Ex, Thief e System Shock, ma che dall’altro hanno come obiettivo evolvere quei fondamentali e portarli nel nuovo millennio.

Non fatevi ingannare dalla caciare degli screenshot: non è Doom.

Prey, l’ultimo nato della casa, è un altro gradino della scalinata: il genere è sempre l’action-adventure in prima persona, ma con meccaniche da FPS più marcate e una quasi totale scomparsa dell’elemento stealth in favore di un avvicinamento più marcato al gioco di ruolo. La verticalità tipica dei giochi Arkane permane, ma è gestita in modo molto diverso: il Blink e l’agilità di Corvo ed Emily sono sostituiti da un cannone sparacolla che permette di creare piattaforme sui muri, o da poteri psionici che facilitano il superamento di ostacoli ben definiti, il tutto in una situazione di costante pericolo. L’ambiente di gioco è un grande puzzle, un cubo di Rubik ripieno di mostruosità dove gli sviluppatori hanno sperimentato su aspetti che in precedenza non avevano brillato: l’intelligenza artificiale, per esempio (tutt’altro che memorabile nei Dishonored), e la narrativa.

Basta giocarlo per pochi minuti per rendersi conto di quanto poderosa sia la volontà di questi sviluppatori di evolvere le proprie competenze in ogni campo: per rafforzare l’impatto della colonna sonora hanno chiamato quel genio assoluto di Mick Gordon, che se n’è uscito con sonorità synthwave che trapanano il cervello e ci costruiscono casa dopo il primo ascolto, mentre per la storia si sono affidati all’uno e trino Chris Avellone (anche se “solo” in veste di consulente: la trama è di Colantonio). Se si uniscono i puntini, il quadro che ne fuoriesce è potenzialmente glorioso, e persino gli elementi più deboli del titolo – lo shooting e il combattimento in generale – sono facilmente superabili se si valuta la varietà complessiva offerta dai poteri alieni, che vanno dalla capacità di trasformarsi in qualunque oggetto di piccola taglia a quella di creare esplosioni psioniche. Allo stesso modo si apprezza la tensione paranoica generata da una razza aliena che è capace di prendere innumerevoli forme; predatori instancabili che reagiscono allo sviluppo del giocatore e possono prenderlo di sorpresa persino nella loro forma meno evoluta (quella più sviluppata, il nightmare, è un bestione che ottiene poteri direttamente in base a come viene sviluppato il proprio personaggio). “Credo che nessuno abbia mai esplorato questi elementi come stiamo facendo noi”, precisa Seth riferendosi all’adattabilità dei nemici presenti sulla stazione spaziale Talos I, “e penso che la gente se ne stia rendendo conto”.

carico il video...
Il trailer di lancio di Prey.

Sì, ce ne stiamo rendendo conto: gioco dopo gioco, senza allontanarsi mai dal loro iniziale progetto, gli Arkane stanno portando avanti un perfetto piano il cui obiettivo finale è divenire un team rinomato quanto lo erano ai tempi i Looking Glass. Perché i creatori di Thief, Ultima Underworld e System Shock non sono morti, hanno solo cambiato nome. E davanti a un parallelo del genere, non aspettare Prey o qualunque altro progetto della casa a braccia aperte è impossibile.

Aligi Comandini
Ex caporedattore di Spaziogames, ora scrive di videogiochi per Multiplayer, di fumetti per GQ e di barbe per se stesso.

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