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Il 18 aprile uscirà l’ultimo dei capolavori di Tim Schafer a essere rimasto senza un remaster ufficiale: ripercorriamo la sua parabola, quella del suo creatore e della LucasArts.

In principio era Grim Fandango. Sotterrata dalle polveri di un quindicennio di inattività, la più grande avventura grafica di tutti i tempi è stata la prima ad aver rivisto la luce in tempi recenti (e fuori dalla sua casa madre, la LucasArts).

Considerato il canto del cigno dell’era dei punta-e-clicca, Grim Fandango è esistito alla fine degli anni Novanta ricoprendo, ai tempi, una zona grigia all’infuori della quale la domanda per questo tipo di giochi non faceva che calare e il mercato esigeva una semplificazione delle meccaniche e una riduzione della complessità dei puzzle. Dal canto suo, il titolo di Tim Schafer rispondeva a queste esigenze più o meno quanto Il falcone maltese rispondeva alle esigenze di film a colori su skateboarder futuristici: le ignorava. Grim Fandango era una lunghissima storia in quattro atti ambientata nella Terra dei Morti, una Terra dei Morti che ricordava molto da vicino un film noir degli anni Quaranta. Considerato troppo espansivo per il genere di appartenenza, insuccesso commerciale, negli anni successivi Grim è passato di mano in mano, di emulatore in emulatore, piena di bug irrisolvibili e sempre meno giocabile sui pc di nuova generazione. Fino a un momento particolare.

Si tratta di storia recente: nell’inverno 2012 LucasArts – come tutto il resto delle proprietà Lucas – era stata acquisita da Disney. Ma il marchio Disney, si sa, è come le sue principesse: mellifluo, egocentrico, e possessivo nei confronti delle sue Proprietà Intellettuali. Dove c’era da monetizzare, Disney monetizzava: per esempio, l’intera produzione dei giochi di Guerre Stellari passava sotto il controllo di un altro colosso, Electronic Arts, mentre nell’aprile 2013 il resto di LucasArts veniva chiuso senza troppi complimenti, e con esso una baracca e dei burattini con trent’anni di storia alle spalle.

LucasArts era morta, lunga vita a LucasArts. Ma la verità è che LucasArts moriva in un momento estremamente delicato della storia fisica dei suoi giochi: tutti gli archivi, tutti i floppy, tutti i nastri magnetici che conservavano la memoria dei progetti che furono – roba precaria, mal messa, con una data di scadenza molto vicina – restavano in mano Disney. Uno dei più celebri titoli Lucas, Monkey Island, era scampato per un soffio a un destino in archivio: nel 2009, infatti, LucasArts se ne era uscita con una edizione speciale costruita sul codice originale del primo e del secondo capitolo della saga. La nuova veste grafica lasciava a desiderare, ma il progetto era un primo, goffo tentativo di salvare i propri giochi di culto dal macero, oltre che tendere una mano alle nuove generazioni. Ma, proprio quando lo Zeitgeist sembrava concedere alle vecchie avventure grafiche una seconda opportunità, il nobile proposito veniva interrotto da quel sottile cambio di direzione della compagnia che implicava che la compagnia non sarebbe più esistita.

Ma torniamo a noi. Come si diceva, alla sua uscita, Grim Fandango era stato un flop. Era il gioco sbagliato al momento sbagliato: usciva, allo stesso tempo, troppo tardi e troppo presto. Troppo tardi perché l’industria del punta-e-clicca per PC si stava rimpicciolendo per lasciare spazio al mercato delle console; troppo presto perché il gioco dimostrava una maturità di linguaggio incomparabile. OK, non era strettamente un punta-e-clicca (i controlli “tank” à la Resident Evil sono uno dei punti di polemica più citati); OK, aveva quasi mandato in bancarotta LucasArts perché era costato troppo e la data di uscita era stata continuamente rimandata; OK, l’ultimo atto, se le cose fossero andate secondo i piani, sarebbe stato un maestoso scontro tra le forze del bene e le forze del male, anziché una frettolosissima chiusura di conti tra buoni e cattivi.

Tuttavia, nonostante l’insuccesso a livello di vendite, Grim Fandango era rapidamente diventato l’apice del genere nella sua definizione dei personaggi, nella precisione del doppiaggio e nella piena padronanza del linguaggio cinematografico (senza che, per questo, il lato narrativo lasciasse poco spazio ai rompicapi. Non siamo mica nel 2012, nel mondo adventure i rompicapi sono ancora l’aspetto più importante delle avventure grafiche). Con Grim Fandango, il suo creatore Tim Schafer – uno che è sempre stato il game designer più “regista” della compagnia – portava avanti il vessillo che era sempre stato quello di LucasArts, quello dell’autorialità.

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In qualche modo, nell’instabilità del mercato della fine degli anni Novanta, “Manny Calavera agente di viaggio fallito nella Terra dei Morti” aveva fatto breccia, trasformando il gioco in una specie di instant classic incompreso, sopravvissuto grazie agli emulatori e a eBay, mentre i suoi archivi ammuffivano nelle sabbie dei futuri possibili.

Nel suo straordinario saggio per Polygon, Dave Tach racconta in dettaglio la decisione attiva di portare il remaster del gioco del 1998 a un nuovo pubblico e, soprattutto, a una nuova generazione di console. È una decisione nata dalla collaborazione tra Double Fine – la nuova compagnia di Tim Schafer –, Sony e Disney. Gli interessi delle parti in causa erano diversi: Double Fine temeva il decadimento degli archivi fisici e l’acquisizione Disney; Sony era toccata a livello finanziario e personale dal nostalgismo (“Ho sempre avuto un amore sconfinato per i giochi cui giocavo da piccolo,” ha detto a riguardo il vicepresidente delle relazioni publisher/developer di Playstation); Disney – uhh – $$$$. Insomma: per motivi diversi, gli interessi di tutti convergevano nel voler vedere un nuovo ritorno del gioco.

Ora o mai più: Day of the Tentacle
Il remaster di Grim Fandango del 2015, oltre al porting per piattaforme attuali, puntava all’appianamento di bug e difetti dell’epoca (su tutti, il rendering dei personaggi) e all’integrazione di personaggi e sfondi attraverso ombre, fumo, luministica. Non cambia molto altro: per onorare il concetto di vintage, non esiste nemmeno l’opzione di autosalvataggio. Talvolta, la rivisitazione di vecchi titoli da parte di un gruppo di game designer vuol dire rivedere l’intera struttura della narrazione e degli enigmi: è il caso del director’s cut di Broken Sword, che nel 2009 prendeva il gioco del 1996 e lo riaggiornava con aggiunte narrative e semplificazioni dei puzzle.

I remaster dei giochi LucasArts sono diametralmente opposti: i cambiamenti vengono tutti fatti con la tiepida arroganza di chi sa di aver fatto tutto al meglio già al tempo, ma con la consapevolezza che la tecnologia dell’epoca impediva alcune accortezze grafiche.

Lo stesso è avvenuto un anno dopo Grim Fandango, nel 2016, con Day of the Tentacle. Uscito originariamente nel 1993, Day of the Tentacle è stato anche il primo gioco di “Tim Schafer capo progetto”. Schafer si era già fatto una reputazione in LucasArts scrivendo parte dei primi due Monkey Island insieme a Dave Grossman, con il quale sarebbe stato incaricato di creare il seguito spirituale di Maniac Mansion: appunto, Day of the Tentacle. Comprensibilmente, DotT viene spesso visto come l’idea platonica del punta-e-clicca: dura meno di sei ore, si basa tutto sui puzzle, e ha una storia intrisa del tono umoristico LucasArts. Non troppo difficile, ma decisamente non intuitivo, dalla ri-giocabilità disarmante, assolutamente non datato. A complicare l’intreccio narrativo (“Un tentacolo geneticamente modificato vuole conquistare il mondo”), c’è il fatto che l’avventura si svolge su tre piani temporali diversi, con tre protagonisti diversi.

Anche nel caso di DotT, il remaster del 2016 si concentra su interfaccia e animazione, lasciando inalterati gli elementi di gioco più immediati, nonché il design simil-Looney Tunes di personaggi e sfondi. Come in Grim Fandango, la versione originale, pixelatissima, del gioco è inclusa (come lo è anche l’Easter Egg più enorme della storia LucasArts: una versione giocabile di Maniac Mansion). Nelle creazioni di Schafer, non esiste l’insicurezza di chi si sente in dovere di dire di più su un lavoro che ha più di vent’anni: il gioco era perfetto nel 1993, ma adesso, già che ci siamo, goditelo senza problemi tecnici.

“In Grim Fandango,” ha dichiarato Schafer, “abbiamo aggiunto soltanto un movimento di macchina quando viene letta una poesia particolare, perché è una cosa che volevo già fare ai tempi. Non ha rovinato nulla. Era solo un tocco minuscolo.”

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Con la chiusura di LucasArts, lo spiraglio di azione concesso al team Double Fine sembrava restringersi, e la collaborazione di Disney e Sony non poteva durare per sempre, il che spiega questo cavalcare l’onda del remaster da parte di Schafer, nel giro di meno di due anni. Dice Schafer: “Sembrava il momento giusto per farlo, perché c’era una finestra che stava chiudendosi. Tutti quelli che hanno lavorato [a Day of the Tentacle] lavoravano ancora all’interno dell’industria. Gli archivi erano ancora rintracciabili. È tutta roba che avrebbe potuto andare persa, quindi era una situazione da ora o mai più.”

Per uno studio stratigrafico degli archivi videoludici
La storia delle compagnie che archiviano i propri giochi in maniera frettolosa (finché l’hardware non diventa obsoleto e inutile) è vecchia come la storia dei videogiochi; o, ancora più precisamente, come la storia del cinema. Così come la preservazione e il restauro dei film è una pratica molto recente portata avanti da pochi sognatori e Martin Scorsese – e per questa ragione gran parte del cinema degli inizi è perduto per sempre –, anche a livello videoludico la necessità si è fatta sentire solo da poco. Ci sono molte ragioni per non pensare ad archiviare per bene un progetto appena terminato. Spesso le compagnie falliscono, e i diritti di un gioco finiscono in una Terra di Mezzo di cavilli legali. Nei migliori dei casi, è una cattiva abitudine dettata dal senso del presente, dallo spostarsi di progetto in progetto, accantonando il precedente poiché la tecnologia permette di procrastinarne l’archiviazione, per poi dimenticarsene fino a che, spesso, non finisce per essere troppo tardi. In tempi recenti, l’Internet Archive e la Biblioteca del Congresso di Washington (o, sul nostro territorio, enti come l’Archivio Videoludico della Cineteca di Bologna) hanno agevolato l’accesso al passato del mezzo, ma è il lavoro degli amatori ad avere tenuto in vita per anni e anni migliaia di titoli. Proprio come nel cinema, l’archiviazione da parte delle compagnie che producono i giochi giace in un’area grigia di deregolamentazione e menefreghismo.

Schafer, uno che al suo primo colloquio in LucasArts ha lodato la versione piratata di un gioco della compagnia ed è stato assunto lo stesso, apprezza il lavoro delle comunità di fan che hanno permesso, tramite emulatori e versioni pirata, di trasmettere i giochi di vent’anni fa alle generazioni successive, ma non lo ritiene un passo sufficiente: “Sono fantastici nel tenere in vita quei giochi, ma non possono da soli far rivivere il contesto delle persone che hanno fatto un gioco […]. Non possono sapere quale fosse l’ispirazione di certi particolari. […] Se vuoi fare un remaster completo, c’è bisogno che i creatori originali non solo lo approvino, ma siano entusiasti del progetto.”

È un processo definito da Tim Schafer “archeologia digitale”, che il nostro ha impiegato anche nella sua ultima collaborazione con Disney e Sony, lo zenit dell’operazione “tre remaster in tre anni”. Si tratta della conclusione della sua parabola LucasArts, o meglio, del tassello centrale: tra Day of the Tentacle e Grim Fandango, infatti, Schafer si era dedicato a un piccolo progetto di poco conto, ambientato tra i gruppi di biker di un Nord America post-apocalittico, che avrebbe finito per vendere un milione di copie e intitolarsi FULL THROTTLE.

Full Throttle costituiva una serie di prime volte per Schafer: non solo era il suo primo progetto che non fosse una co-creazione, ma era anche il primo dello Schafer “regista”: più simile a un film che a un punta-e-clicca (quanto a numero di cutscene per una durata brevissima) è stato il primo caso in cui degli attori – dei veri attori! – venissero impiegati per il doppiaggio dei personaggi di un gioco. In Day of the Tentacle, le voci erano stata un’aggiunta a posteriori, imposta dal marketing, così da vendere il gioco su CD-ROM anziché su floppy. Qui, invece, si faceva tutto da capo: sarebbero state le voci a stabilire il tono.

L’attenzione di Tim Schafer per il doppiaggio è ben nota a tutti: nella sua carriera post-LucasArts, ha ingaggiato personaggi come Jack Black ed Elijah Wood. In Full Throttle, la voce del protagonista (interpretato da Roy Conrad, una specie di Will Arnett ante litteram) è ciò che, a oggi, rimane marchiato a fuoco nella memoria dei giocatori della prima ora.

Oggi, a ventidue anni dalla sua prima uscita, Full Throttle ritorna, in contemporanea per PlayStation 4, PS Vita e PC. Sebbene segua le rigide direttive schaferiane (il classico “non si tocca nulla che non sia strettamente necessario”), sembra che quest’ultimo remaster sia il più radicale della trilogia: l’intero gioco è stato ridisegnato e, poiché parte dell’archivio era andato perduto, alcuni dei modelli 3D sono nuovi di pacca. Ciò che rimane identico è la voce di Roy Conrad, presa direttamente dai nastri originali e dalle demo, poiché l’attore è scomparso all’inizio del Duemila. Il nucleo principale del gioco, quella voce di Ben Throttle che definiva tutto il resto, rimane intatto.

In un certo senso, a trilogia conclusa, si può dire che il lavoro di Tim Schafer nei confronti dei suoi lavori LucasArts sia completato. Al momento è qui, accessibile ai posteri, finché i nuovi archivi non si disintegreranno, magari tra un ventennio.

Laura Spini
Nata a Bergamo, non è la sua omonima Google vittima del raggiro di una santona. Ha tradotto e collaborato per una serie di case editrici e riviste italiane, sulle quali ha scritto di cinema, videogiochi, e pistoleri memorabili.

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