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Big Little Lies di HBO sviluppa il binomio scuola privata/violenza che ricorre in tanta narrativa e serie tv. Qui, però, le vere protagoniste sono le mamme: belle, ricche, insoddisfatte e con qualche segreto da nascondere.

Nella sigla d’apertura di Big Little Lies – Piccole grandi bugie, nuova serie americana tratta dall’omonimo romanzo di Liane Moriarty e appena arrivata in Italia, le protagoniste accompagnano i figli a scuola. Costeggiano la scogliera nelle loro auto mentre, sulle note di Cold Little Heart di Michael Kiwanuka, le onde s’infrangono lasciando intravedere scene di sesso in dissolvenza. Salta subito agli occhi che non si tratta di mamme qualunque: ci sono interpreti del calibro di Laura Dern, Nicole Kidman e Reese Witherspoon (queste ultime due anche in veste di produttrici), e la destinazione finale del loro tragitto in macchina è la Pirriwee Public, istituto di Monterey, a due ore da San Francisco, che sulla carta spaccia valori di positività e altruismo mentre diventa epicentro di violenza e disfunzionalità.

La serie si apre sul primo giorno di scuola ma non nasconde che, fra violenze domestiche, attriti e crolli nervosi, l’ultimo sarà segnato da un omicidio sul quale indaga la polizia. Gli ingredienti ci sono tutti: gli interpreti sono belli e ricchi, vivono in una cittadina che usa la gentilezza come strumento di tortura e contemplano l’oceano dalle loro ville con accesso privato alla spiaggia. Naturalmente, come tutti i ricchi, sono anche molto insoddisfatti. Quasi nessuna delle protagoniste è innamorata del marito; nessuna di loro riesce ad assolvere al proprio ruolo di madre e tutte hanno qualche segreto da nascondere. Sulle prime, l’unica deviante sembrerebbe il personaggio interpretato da Shailene Woodley, la madre single di Ziggy, un bambino dal viso angelico che, a torto o a ragione, viene accusato di bullismo sin dal suo ingresso in prima elementare. Dall’ambiguità di questo primo episodio si creano schieramenti e coalizioni all’interno della classe, dove le mamme si dividono fra innocentiste o colpevoliste, in un vortice che culminerà con la morte violenta di una di loro.

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La sigla di Big Little Lies.

Per i diritti di Big Little Lies, che un coro di voci ha già proclamato la serie dell’anno, c’è stata un’asta fra Netflix e HBO, che alla fine se l’è aggiudicata. Si tratta di un prodotto curato nei minimi dettagli, le cui riprese hanno richiesto quasi cinque mesi: un tempo molto lungo, se si considera che la durata complessiva degli episodi è di nemmeno sette ore. La produzione ha dichiarato che, in media, sono state girate quattro pagine di sceneggiatura al giorno: più o meno lo stesso ritmo delle produzioni cinematografiche. Anche la colonna sonora è di tutto rispetto: da Super Rich Kids di Frank Ocean con la partecipazione di Earl Sweatshirt, brano già scelto da Sofia Coppola per il suo The Bling Ring, all’arrabbiato Dance This Mess Around dei The B-52’s, fino a pezzi strappalacrime o più ambient come River di Leon Bridges e la September Song di Agnes Obel.

Tutte le protagoniste, che siano donne in carriera o che hanno lasciato il lavoro per vivere sulle spalle dei mariti, baratterebbero volentieri la famiglia per un po’ di vodka. Ricordano vagamente il modello di Desperate Housewives, con la differenza che nella miniserie, firmata da David E. Kelley (Ally McBeal, The Practice) e da Jean-Marc Vallée (lo stesso di Dallas Buyers Club e Wild), a predominare è la tensione. Manca quasi del tutto la vena comica e a fare da sfondo alle vicende c’è un certo tipo di buona scuola, lontana dall’attuale modello italiano (per carità!) ma più simile a quelle di Richard Yates o Edoardo Albinati. Il romanzo di Yates, pubblicato in Italia da minimum fax e ambientato in un collegio maschile del secondo dopoguerra, racconta di un protagonista costretto a difendersi dai soprusi dei compagni, ma anche in quel caso si fatica davvero a comprendere chi sia vittima e chi carnefice.

Perché il binomio scuola privata/atti criminosi, nella fiction come nella realtà, non sembra passare di moda?

Nell’ultimo Premio Strega La scuola cattolica (Rizzoli), invece, Edoardo Albinati traccia in appena milleduecento pagine un’equazione perfetta che vede correlati il San Leone Magno – o SLM come lo indica l’autore – e quindi un certo tipo di borghesia e istruzione – con il delitto del Circeo, uno dei più efferati della storia italiana. Ma perché il binomio scuola privata/atti criminosi, nella fiction come nella realtà, non sembra passare di moda?

Tra i motivi ci potrebbero essere le divise con stemma araldico e cravattini che, sebbene anacronistiche, conservano inalterato il loro fascino. Non ha saputo resistervi neppure Paolo Virzì quando, ne Il capitale umano, annida fra le fila dell’istituto privato Gregorio XIV il colpevole di un incidente mortale ai danni di un povero cristo. Come l’annoiatissima signora bene interpretata nella pellicola da Valeria Bruni Tedeschi, anche le protagoniste della serie piangono a più riprese abbracciate al volante, chiuse ciascuna nell’abitacolo della propria auto.

Tornando alla Pirriwee Public, in realtà le divise non ci sono, e anche l’ambiente all’interno della classe risulta piuttosto misto. Ma è proprio questa auspicabile eterogeneità a innescare i primi dissapori: Ziggy, la cui madre single Jane sembra non fare altro che correre e allenarsi al tiro al bersaglio, è il frutto di una violenza sessuale e vive in una condizione domestica tutt’altro che idilliaca. Ricollegandosi a uno dei principali dilemmi del parenting di oggi come di ieri, costantemente arrovellato sulla doppia alternativa: mandare i propri figli nella scuola pubblica dietro casa, dove i bambini possano confrontarsi con un ambiente più eterogeneo e non necessariamente privilegiato, o ancora iscriverli in qualche altisonante istituto che renda la loro istruzione migliore, a fronte di rette da capogiro?

La storia delle serie tv pullula di più o meno prestigiosi atenei che fanno da sfondo alle vicende (per citare i più celebri Beverly Hills, Buffy, The Vampire Diary, Dawson’s Creek, Gossip Girl, The OC, The Carrie Diaries). Si tratta, però, più spesso di scuole superiori, che hanno come protagonisti dei teenager, i cui genitori rivestono ruoli secondari. Qui, invece, i ragazzini non sono altro che proiezioni delle famiglie disfunzionali che hanno alle spalle, con terapeuti e psicologi infantili come se piovesse. La magnifica Celeste (Nicol Kidman), madre di due gemelli impeccabile nei suoi abiti color pastello, si copre i lividi. Tenta di mascherarli col correttore, perché a procurarglieli è suo marito durante uno dei loro numerosi amplessi, sempre preceduti o seguiti da percosse e soprusi. I due vanno da una consulente matrimoniale che li aiuti a dominare la rabbia, ed è come se lo spettatore si trovasse anche lui invischiato in una relazione violenta, fra sensi di colpa, desiderio e, al tempo stesso, timore di farla finita.

La storia delle serie tv pullula di atenei di scuole superiori che fanno da sfondo alle vicende dei protagonisti teenager. Qui, invece, i ragazzini non sono altro che proiezioni delle famiglie disfunzionali che hanno alle spalle.

A interpretare l’insoddisfatta Madeline c’è Reese Witherspoon che si ostina a portare tacchi a spillo anche nelle ore meno indicate. Sono passati quasi vent’anni dai tempi di Cruel Intentions. All’epoca, una giovanissima Witherspoon indossava i panni illibati della figlia del rettore di un prestigioso college in cui viene irretita da un playboy senza scrupoli, per ritrovarsi sull’altro fronte, ovvero quello di chi accende la miccia. Madeline, la cui seienne sa già di voler diventare una produttrice discografica, è impelagata in un secondo matrimonio tutt’altro che elettrizzante e non ha ancora perdonato il suo primo marito Nathan per averla lasciata. Quest’ultimo si è risposato con Bonnie, interpretata da Zoe Kravitz che è tutta presa dalla deriva bio/yoga ed è estranea a ogni sentimento di invidia o rivalità. Il caso vuole che le due figlie di secondo letto capitino nella stessa classe della stessa scuola – e apriti cielo. Completa il quadretto Renata Klein ovvero Laura Dern, credibilissima nella parte di donna in carriera, e definita dal preside “genitore elicottero” quando cerca di difendere la sua Amabella a colpi d’isteria.

In una comunità carica di dissapori come quella di Monterey, dove la facciata stucchevole lascia presagire le tinte dark di quello che sta sotto e dietro, non stupisce che una banale lite fra bambini inneschi una spirale di violenza anche fra i genitori. Un po’ come accade nell’asfittico Carnage di Roman Polanski – in cui quattro genitori si riuniscono con le migliori intenzioni per discutere della lite fra i due figli a scuola, degenerando poi in una escalation fisica e verbale – Big Little Lies mostra la violenza dei bambini, ma in realtà parla delle famiglie da cui provengono, a pezzi e disperate.

Fuani Marino
È nata nel 1980 a Napoli, dove si ostina a voler restare. Ha scritto per il Corriere del Mezzogiorno e Flash Art. Guarda molte serie tv.

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