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Vent'anni di Boards of Canada. Vent'anni di leggende, misteri, messaggi in codice, profezie per gli iniziati. Riti e allucinazioni di un culto che ha trasformato il duo scozzese in un'autentica religione.

Attorno alla metà degli anni ’90, quella generazione di musicisti elettronici che in Inghilterra andò sotto il bruttissimo nome di IDM (la sigla, per chi non lo sapesse, sta per “intelligent dance music”) prese il cadavere ancora fresco di Kurt Cobain, buttò al macero camice di flanella, chitarre elettriche e amplificatori valvolari, ridusse a brandelli le t-shirt di Jim Morrison e Led Zeppelin comprate dai bagarini davanti al palasport di turno, e relegò tutti i cliché del più vetusto RUOCK a una primitiva epoca di barbarie, teenager urlanti, messaggi satanici e crisi ormonali compulsive.

Più o meno, eh? Anzi, più meno che più. Ma che dico: sono tutte storie, il RUOCK è vivo e vegeto e in giro è ancora pieno di aspiranti emuli di Nigel Tufnel, il chitarrista degli Spinal Tap che che quando c’è da alzare il volume dell’ampli pretende di portare la manopola a undici perché dieci è troppo poco.

Però è una lettura che per qualche tempo ebbe una certa fortuna. Non del tutto ingiustificata, direi: non tanto perché questi musicisti “spingevano bottoni” anziché suonare “strumenti veri”, o almeno non solo per questo. Piuttosto, ad eccitare (o in altri casi a far inorridire) quella fetta di critica e pubblico cresciuta nell’incondizionata adorazione del rocker-icona, fu un particolare non immediatamente avvertibile ma col passare del tempo sempre più frustrante: la proverbiale assenza d’immagine di una generazione che sembrava più a suo agio in un meeting di informatica che tra i lerci scantinati patria elettiva di qualsiasi garage band del pianeta.

Enigma numero 1.

Ora, noi sappiamo che il rock è (era?) zeppo di figure cristologiche che semplicemente dimenandosi sul palco venivano a redimere mandrie di adolescenti adoranti da frustrazione e noia. Il che ha avuto come effetto non secondario il fatto che negli ambienti della cosiddetta “musica giovane”, il culto della personalità è un fenomeno non solo diffuso, ma apertamente rivendicato.

E invece, che culto della personalità poteva mai svilupparsi attorno ad anonimi individui nascosti dietro sigle impronunciabili, e che oltretutto componevano i loro lavori comodamente seduti in poltrona senza che una sola stilla di sudore ne imperlasse i volti da nerd?

Per capirci: l’immagine che, con malcelato compiacimento, la critica rock più retriva applicò al tipico musicista di casa Warp (l’etichetta di riferimento per tutta l’elettronica “intelligente”) era quella di uno smanettone pallido e dall’aria malaticcia, appassionato di videogiochi e non meglio identificate culture cyber, e magari capace di risolvere un’equazione di quinto grado alla stessa velocità in cui un sano rocker della vecchia scuola avrebbe radunato uno stuolo di groupie a concerto appena concluso. Altro che sesso droga ecc ecc.

Enigma numero 2.

E però: manco a dirlo, fu proprio l’esasperata insistenza sugli aspetti più introversi, enigmatici, persino afasici della (ahem) “generazione elettronica”, a produrre a sua volta un altro culto della personalità, lontanissimo parente di quello che per circa tre decenni era stato officiato attorno a figure come [mettete il nome del vostro classic rocker preferito].

L’IDM dopotutto aveva molti punti di contatto con un altro luogo comune della mitologia rock più evoluta: quello del musicista intellettuale, artistoide e per sua natura un po’ strambo. Era musica fatta “pigiando bottoni” ma era anche musica “intelligente”, che quindi si teneva ad altezzosa distanza dall’elettronica “stupida” fatta per ballare e basta (poco importa che quasi tutti i musicisti IDM si fossero formati in seno alla cultura dance), e che se pure scuoteva poco le budella attivava quantomeno i neuroni, un po’ come un Brian Eno, i Kraftwerk o i migliori Pink Floyd – guardacaso tutti nomi ricorrenti nelle recensioni del periodo.

La figura di Aphex Twin è in questo senso esemplare: sin da subito si guadagnò la fama un po’ stereotipata del solitario genietto bizzoso, una specie di Mozart cresciuto a Pac-Man e techno, e se mai la nuova elettronica dei ’90 ha mai prodotto una rockstar nel senso classico del termine, quella è di sicuro lui – con tutti i distinguo e le eccentricità del caso, si intende.

Gli Autechre, l’altro grande nome della primissima stagione IDM, finirono invece per incarnare la non meno suggestiva immagine della coppia di scienziati pazzi: freddissimi e risolutamente antiemotivi, cervellotici e col passare del tempo sempre meno umani, la loro musica era un incrocio tra un manuale di ingeneria e un’architettura di Daniel Libeskind. A loro modo, due tizi tanto spietati quanto il più efferato dei metallari.

Enigma numero 3.
  

Infine arrivarono i Boards of Canada, due fratelli scozzesi (ma all’epoca non si sapeva) di nome Michael Sandison e Marcus Eoin, che assieme agli stessi Aphex Twin e Autechre finirono per comporre la sacra trimurti del genere. Al contrario del primo, sembravano irradiare una certa, serafica serenità non si sa quanto cosmica o bucolica; e a differenza dei secondi, suonavano talmente umani da farti sprofondare in uno spleen in cui a confondersi erano fotogrammi sbiaditi dell’infanzia e memorie più immaginarie che reali. Erano insomma un gruppo a cui non potevi non volere bene. C’era gente che quando ascoltava un loro brano piangeva.

In più, i Boards of Canada avevano dalla loro un altro ingrediente buono ad alimentare l’attaccamento dei fan: un intero armamentario di simboli, messaggi in codice, riferimenti extramusicali, leggende crittate e misteri che potevano spaziare dal significato che si celava dietro le copertine dei dischi alla stessa biografia dei due. Ogni loro uscita era tutta da studiare, interpretare, decifrare. Niente era mai chiaro.

Di loro poi non si sapeva nulla. O meglio, si sapeva tutto quello che c’era da sapere, ma capite come funziona: è il fascino del mistero a tutti i costi. In vent’anni di attività hanno rilasciato decine di interviste, eppure di loro sentirete sempre ripetere che “interviste non ne rilasciano quasi mai”. Magari dicevano che facevano parte di un collettivo chiamato Hexagon Sun, e chi leggeva si chiedeva “ehi, che intendono per collettivo? Sarà mica una comune? O forse un’organizzazione segreta? E poi perché Hexagon? Perché Sun? Cosa vogliono dire realmente?”.

I Boards of Canada sono riusciti a costruire attorno a loro non un culto, ma un'autentica religione.

Sia Aphex Twin che gli Autechre hanno il loro seguito di appassionati fanatici (quelli del primo poi, sono particolarmente esuberanti). Ma solo i Boards of Canada sono riusciti a costruire attorno a loro non un culto, ma un’autentica religione.

Molto del loro fascino ha senza dubbio a che fare con la musica straordinariamente evocativa che il duo ha prodotto dai tempi di Twoism, il loro primo EP ufficiale uscito in edizione ultralimitata nell’agosto del 1995: vent’anni fa esatti, una ricorrenza che è tra l’altro il motivo per cui ho deciso di riparlarne ora, proprio a partire dagli elementi più occulti ed esoterici della loro vicenda.

Io poi, i Boards of Canada li ho sempre seguiti un po’ così, di sfuggita: li conoscevo per il semplice motivo che se ascoltavi musica li dovevi conoscere, comprai i loro primi due album più o meno in diretta, e come tanti ho questi ameni ricordi di Roygbiv che gira nell’autoradio la domenica mattina di ritorno dal rave (per le loro qualità “rilassanti” i Boards of Canada erano gettonatissimi a party concluso, quando si eclissavano gli effetti euforici della nottata sottocassa e nel frattempo intravedevi i primi sintomi del down).

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Un po' di sani ricordi fine '90.

Però al culto non ho mai partecipato. Mai stato adepto della loro religione, manco quando ai tempi di Geogaddi (il loro album del 2002) era tutto un chiacchiericcio sul disco che se lo infilavi nel lettore cd ti dava come minutaggio 66:06. Io il cd di Geogaddi ce l’avevo e manco ci avevo fatto caso, figuratevi!

Se mai c’è stato un momento in cui veramente ho rischiato di sprofondare nelle spire del culto BoC – la sigla con cui ai fan piace indicare il duo – è stato paradossalmente ai tempi di Tomorrow’s Harvest, il loro ultimo album. Che è di due anni fa: insomma, roba recente. Non posso certo dire di essere tra quelli che quando nel 2000 uscì In a Beautiful Place Out in the Country passavano le giornate in biblioteca per capire chi fosse questa benedetta Amo Bishop Roden a cui dedicarono uno dei loro brani più belli.

E allora, per approfondire i misteri del duo scozzese ho pensato di rivolgermi a due autorità in materia. O meglio, alle prime due autorità in materia che mi sono venute in mente, ecco. Ma sono nomi di cui ciecamente mi fido: il primo è Marco Caizzi, una firma che su Prismo avete già incontrato. Il secondo è Egisto Sopor in arte Polysick, uno dei migliori musicisti elettronici che abbiamo in Italia (incide tra l’altro per Planet Mu, l’etichetta che nei ’90 fu sinonimo di IDM assieme a Rephlex e alla già citata Warp).

Visto il tema, non poteva che uscirne una conversazione lunga e a tratti strampalata, in cui non è mai chiara la linea che separa verità e leggenda, analisi a freddo ed entusiasmi da fan – o meglio ancora da adepto, giusto. Ma intanto, questo è quello che ci siamo detti.

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Dall'EP Twoism, 1995 (poi ristampato nel 2002).

Valerio Mattioli
Quando nel 1995 esce Twoism, la sigla Boards of Canada esiste in realtà già da un po’. Una delle leggende che da sempre circondano il duo scozzese è che Marcus e Michael non diano interviste, o che quantomeno sia molto difficile intervistarli, ma in realtà di interviste i due ne hanno sempre rilasciate parecchie, ed è appunto da queste che i fan sono riusciti a ricavare le informazioni sulle loro origini. Chi me le racconta?

Marco Caizzi
Dunque, la sigla Boards of Canada esiste già dal 1987, quando fecero uscire una cassetta chiamata Catalogue 3 sulla quale per molto tempo si è fantasticato. Certo, pare di capire che si trattasse di un gruppo molto diverso da quello che sarebbe diventato poi.

Ci sono questi racconti presi da BoCPages (la bibbia di tutti i fan del duo) che parlano di un gruppo più o meno rock, che poteva andare dai cinque membri fissi a una formazione allargata che si esibiva in maratone all weekend in mezzo alla campagna nei pressi di Edimburgo, col pubblico che saliva sul palco a jammare col resto della band eccetera. Si parla anche di assoli di batteria che vanno avanti fino alle sette di mattina, concerti-benefit, raduni all’aria aperta, droghe…

Pare la descrizione di un concerto dei Grateful Dead, o di qualche Family della San Francisco anno 1967, e infatti i Boards of Canada dovevano essere una specie di roba hippie: facevano parte di un collettivo chiamato Hexagon Sun che dai racconti sembra qualcosa a mezza strada tra un semplice gruppo di amici “creativi” e una comune vera e propria, e che col tempo acquisirà sfumature mitiche – perlomeno agli occhi dei fan, affascinati da questo misterioso e sempre più ricorrente accenno alla figura dell’esagono.

Diciamo comunque che il loro retroterra è molto poco urbano: come ricordavo prima, suonavano nei festival all’aperto e in mezzo alla natura scozzese, non nei club di qualche periferia industriale.

Valerio Mattioli
E questo è un aspetto molto “esotico” che, oltre ad aver sempre eccitato l’immaginazione di critica e pubblico, è stato ampiamente sfruttato dalla Warp all’uscita di Music Has the Right to Children – per gli amici MHTRTC. Fu il loro primo album vero e proprio (uscì nel 1998) ed è anche il titolo che ufficialmente inaugura il culto BoC, proiettando la figura dei due in una dimensione quasi irreale e alimentando speculazioni e dicerie di ogni tipo.

La domanda che a questo punto vi faccio è molto semplice: perché? Cioè, cos’aveva di speciale  MHTRTC da renderlo un oggetto di studio, o per meglio dire uno scrigno di misteri elusivi e interpretabili secondo le più disparate fantasie?

Marco Caizzi
Be’ c’è innanzitutto un discorso di immaginario: la “misteriosa” sigla Hexagon Sun, l’idea di questi due tizi lontani da tutto e tutti che registravano le loro cose in un bunker in mezzo alle colline… E poi c’è l’ingrediente più importante di tutti: i riferimenti onnipresenti all’infanzia, alla memoria, alla sfera nostalgica dei ricordi non dell’individuo, ma di una collettività intera…

Egisto Sopor
Era una musica infarcita di suoni e simboli ripescati dal bagaglio emozionale collettivo dei bambini cresciuti tra anni ’70 e ’80, vale a dire la prima generazione a essere cresciuta con la televisione, nonché i primi individui ad essere lasciati dai genitori ad allucinarsi dinanzi alle favole della balia catodica. Quindi riusciva a suscitare nell’ascoltare un agrodolce sentimento a base di memorie sgranate e vecchi filmini di famiglia, programmi TV per l’infanzia la cui eco riverbera nei sogni dell’età adulta, filmati educational, foto sfocate, cose del genere.

Il motivo per cui questi ingredienti hanno assunto una qualità direi semi-esoterica, non è tanto “la magia dell’infanzia” che sono in grado di ricreare. È anzi qualcosa di più sottile e ambiguo, che lavora direttamente sull’inconscio. Coi Boards of Canada, noi ascoltatori diventiamo un po’ come quelle cavie che reagiscono al cicalino che precede la somministrazione del cibo, solo che al posto del cibo c’è la memoria: lampadina gialla, lampadina rossa, blip, blop, ogni stimolo una risposta radicata nella mente profonda…

Marco Caizzi
Prendi il loro tipico suono “cassettoso”: quando ascolti i Boards of Canada, ti viene immediatamente da pensare una vecchia cassetta a nastro dimenticata da anni e ormai semismagnetizzata. Un’altra storia che circolava molto su di loro, era proprio che lasciassero appositamente i nastri delle loro registrazioni all’aperto in modo che si rovinassero e restituissero quella classica patina sgranata e appunto “nostalgica”.

Valerio Mattioli
In questo senso, la copertina stessa di MHTRTC è un’altra chiave di accesso abbastanza esplicita, proprio in virtù della sua enigmaticità.

Egisto Sopor
Sì, è la loro copertina più iconica, nonché quella da cui derivano buona parte delle speculazioni di cui abbiamo chiacchierato finora. Riguardiamola assieme:

Sagome umane su un belvedere davanti alle montagne; le facce sono indistinte, i volti cancellati… A osservarla non scatta il classico meccanismo di identificazione, guardi la foto e anche se sembra una vecchia foto di vacanze di famiglia la memoria non ti porta lì.

Piuttosto, sembra una foto concepita da un’intelligenza artificiale che abbia sintetizzato la voce “gruppo umano” di una vecchia enciclopedia: l’umanità pensata da una macchina. È per questo che il termine “nostalgia”, applicato ai Boards of Canada, lo trovo fuorviante: è più una sensazione di straniamento…

Quindi sì, c’è l’elemento-memoria ma un elemento che sa di semicoscienza, di simboli condivisi, o appunto di inconscio collettivo. Forse la categoria che meglio li descrive è quella di “perturbante”, per quanto sia una categoria abusata anch’essa.

Valerio Mattioli
Va bene, ma quale significato hanno dato i fan a questa ossessione per la memoria, per i temi dell’infanzia, per i ricordi collettivi che lentamente svaniscono?

Egisto Sopor
Questo è l’interrogativo a partire dal quale gli adepti del culto BoC hanno elaborato le teorie più avventurose. Anche perché, tieni sempre presente una cosa: noi adesso sappiamo che Michael Sandison e Marcus Eoin sono fratelli, giusto? Ma per almeno un decennio quest’informazione è stata deliberatamente occultata dalla coppia. A rivelare il legame di parentela fu se non sbaglio un’intervista concessa a Pitchfork nel 2005; fino ad allora, quello che il pubblico sapeva era che Michael e Marcus erano semplici “amici di infanzia” che vivevano nelle campagne scozzesi e che da piccoli avevano trascorso un periodo in Canada.

Valerio Mattioli
Questo fatto che due fratelli abbiano per tanto tempo nascosto al mondo di essere fratelli, getta effettivamente una strana luce sul rapporto tra i due. Cioè, viene veramente da chiederti: cosa nascondono? Quale inconfessabile segreto si cela nella loro infanzia, visto che ne sembrano così ossessionati?

Egisto Sopor
Nel 2000, un paio di anni dopo l’uscita di MHTRTC, uscì quello che è forse il loro EP più studiato: In a Beautiful Place Out in the Country. È un piccolo concept sulla vicenda di David Koresh e della setta dei davidiani conclusasi in maniera tragica col famigerato assedio di Waco. Puoi immaginare: la domanda divenne immediatamente “perché questi due tirano fuori questa storia? Cosa vogliono dirci?”.

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Dall'EP In a Beautiful Place Out in the Country, 2000.

Come ricordava Marco, dalle interviste che circolavano all’epoca – e che, ricordiamolo, ancora non avevano rivelato quale fosse il legame tra i due, che però da subito apparì “sospetto” – sapevamo già dei frequenti viaggi e spostamenti della coppia nel corso dell’infanzia, del collettivo Hexagon Sun, e in più di alcune non meglio precisate feste dedicate alla “Luna Rossa” organizzate in aperta campagna…

E allora il sospetto divenne che Marcus e Michael fossero cresciuti in una comune: forse hippie, forse religiosa (alla maniera dei davidiani), magari itinerante. Chi erano questi due? Amici d’infanzia? O magari erano davvero fratelli? E perché non gemelli? In fondo, che senso hanno queste distinzioni, quando la tua famiglia è una collettività intera?

Valerio Mattioli
Dici insomma che potevano essere due tizi che effettivamente si conoscevano da quando erano in fasce, solo che loro stessi non avevano idea di quale legame li tenesse assieme…

Egisto Sopor
Perché a monte c’è un legame più forte. Vedi, in In a Beautiful Place Out in the Country c’è una citazione che trovo cruciale: il verso che recita “come out and live in a community”. Koresh e i davidiani, in quel disco sono solo un pretesto: in un’intervista dissero di non essere interessati alla religione se non in quanto fenomeno umano, ed è una dichiarazione sincera; perché l’unico culto che ai Boards of Canada interessa è semmai quello dell’umano, o più precisamente della collettività.

C’è un altro brano che credo sia rivelatore del loro rapporto tra individuo e sfera collettiva: si intitola The Story of Xentrix, e uscì nel 2003 a nome Hell Interface. Dura meno di un minuto, ed è la storia – raccontata da un’impersonale voce robotica – di un bambino che ha un grande cane di nome Xentrix.

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The Story of Xentrix, a nome Hell Interface.

Un giorno Xentrix e il bambino (che rimane senza nome, come privo di individualità) passeggiano nei boschi, fino a quando non si imbattono in una misteriosa porta, aperta la quale si ritrovano in un’enorme grotta. Qui ci sono un milione di altri bambini assieme ai rispettivi cani (la collettività indistinta). A quel punto Xentrix il cane si rivolge con voce umana al bambino e gli dice: “Benvenuto, amico mio: questa è la mia gente. Adesso è anche la tua”.

Il bambino a quel punto non riesce a trattenere le lacrime.

Quello che The Story of Xentrix racconta, non è tanto la favola di un bambino col suo cane: è lo sciogliersi della singolarità nell’abbraccio condiviso, il disfacimento finale del confine del sé, lo smarrimento ultimo nell’inconscio collettivo…

Valerio Mattioli
Quindi quella dei Boards of Canada è solo apparentemente una fascinazione nostalgica per gli anni dell’infanzia. O meglio: se di nostalgia si deve parlare, questa si rivolge a un’era (non sappiamo se mitologica, ideale, o effettivamente vissuta dai due, ma potrebbe essere tutte e tre le cose assieme) in cui l’individuo si compie solo se in relazione al gruppo, alla comunità. Il che mi spinge a portarvi immediatamente a Geogaddi, il loro album del 2002…

Egisto Sopor
…Che in copertina riporta appunto delle sagome disposte in circolo (in realtà, ancora una volta, più che un circolo formano un esagono) che sembrano tenersi per mano:

Da questo capisci che i lineamenti degli individui sulla copertina di MHTRTC, non erano sfocati perché “cancellati” dai ricordi che se ne vanno, o almeno non solo per quello…

Valerio Mattioli
…Erano sfocati perché quello che conta non non è la dimensione individuale ma quella collettiva, giusto. Insomma il loro è un messaggio che riguarda tutti noi, diciamo. Noi e il nostro… boh, inconscio atavico? I nostri destini, la nostra eredità? L’aspirazione da troppo tempo sopita a ricongiungersi con l’altro, ad abbandonarci all’abbraccio del tutto? Messa in questi termini, è comunque un messaggio dal forte potere evocativo.

Ma mi sembra comunque che si stiano incrociando già troppi piani; in ordine abbiamo parlato di: il retroterra bucolico e “naturale”, le memorie televisive degli anni 70, i vecchi filmini delle vacanze, la sfera collettiva contrapposta a quella individuale, e in mezzo ci sono finite pure le sette religiose tipo i davidiani… Ci credo che i fan abbiano cominciato a vedere misteri ovunque.

Marco Caizzi
Geogaddi in questo senso è il loro manifesto, il loro disco esoterico per eccellenza. Torniamo alla copertina di cui parlava Egisto: è chiaro da subito che si tratta di un disco di iniziazione, in cui dal collettivo generico si passa praticamente alla setta, al circolo chiuso e apparentemente impenetrabile, che per entrarci e godere dell’abbraccio condiviso devi prima decifrarne i misteri a partire naturalmente dall’esagono (come saprai, Geogaddi dura esattamente 66 minuti e 6 secondi).

Per molti Geogaddi è anche il loro titolo più cupo e oscuro, almeno fino a Tomorrow’s Harvest. In un’intervista (citata anche su Wikipedia), uno dei due fratelli disse che il disco era “una sorta di prova estrema, un contorto e claustrofobico viaggio che porta ad un’esperienza piuttosto oscura prima di raggiungere nuovamente l’aria aperta”. Quindi vedi, il messaggio di fondo è proprio quello del viaggio iniziatico, di nuovo intrecciato ai temi del collettivo e della natura.

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Dall'album Geogaddi, 2002.

Anche la storia dietro il titolo è interessante. Cito ancora da Wikipedia: “il titolo del disco non ha particolari significati. Potrebbe essere ricavato dall’unione dei termini geo, che è riferito alla Terra, e gaddi, che è il nome di un popolo nomade hindu famoso per il suo stile di vita pacifico. Un’altra interpretazione potrebbe derivare dall’unione di geo (Terra), gad (col significato di divinità) e di (col significato di due, il numero dei membri del gruppo)”.

Insomma, secondo queste interpretazioni il disco sarebbe un concept sulla memoria della Terra come Divinità. Qui forse le loro ossessioni hippie hanno influito. Mi ricordo anche una bella spiegazione di Geogaddi come unione tra le due parole Geographical Addiction. Tipo drogarsi di geografia (nel senso di geometria della Terra) per raggiungere una specie di nuova consapevolezza cosmica.

Egisto Sopor
L’ipotesi Geographical Addiction è molto suggestiva: suggerisce quel tipico potere ipnotico che hanno le mappe, dovuto al distanziamento dalla dimensione terrestre e individuale (quella orizzontale) a favore di un piano verticale di osservazione (verticalità geografica che è anche temporale).

Al tempo stesso, le mappe hanno anche un sapore molto burocratico. Ora, prendiamo il nome del duo: Boards of Canada. A cosa vi fa pensare? Ok, sappiamo che viene dai documentari del National Film Board of Canada che loro vedevano da bambini, ma queste… “commissioni del Canada” (non so come altro tradurlo), fanno immediatamente pensare a degli anonimi burocrati allineati dietro a un enorme tavolo, no?

Quindi da una parte hai questa impersonalità istituzionale, qualcosa come un’astrazione tecnico-legale. Dall’altra, quel Canada che effettivamente “sa di mappa” ed evoca una sorta di “narcosi da visione aerea” con tutto ciò che questa prospettiva sovrumana comporta in termini di profondità di visione e di conferimento di senso.

Valerio Mattioli
È la stessa cosa che succede coi loro campioni di voci prese dai vecchi filmati educational anni ’70: messaggi istituzionali, freddi, “pedagogici”, indirizzati ai bravi cittadini membri della comunità (pensiamo a quello che fu in Italia il Dipartimento Scuola Educazione), che però acquisiscono sfumature metafisiche, quasi si trattasse di formule magiche, di frasi sibilline che celano messaggi arcani…

Egisto Sopor
È sempre una voce che balbetta, biascica, dice parole strane e brevi frasi enigmatiche, un po’ The Conet Project un po’ disturbo confabulatorio. Non ha mai dietro un messaggio decifrabile. Sembra sempre funzionare un po’ come un sigillo, una porta in direzione di dimensioni “altre”.

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Dall'album Geogaddi, 2002.

Valerio Mattioli
L’altro elemento che ha sempre alimentato una lettura apertamente esoterica dei Boards of Canada è chiaramente il riferimento alla matematica, all’uso subliminale di formule e numeri. E a tal proposito Geogaddi contiene uno dei loro brani-simbolo per antonomasia, a partire dal titolo: Music Is Math.

Marco Caizzi
Già in MHTRTC c’era un brano come Aquarius (anche qui roba da hippie: il riferimento è il musical Hair) che a un certo punto si trasformava in un trip pitagorico di numeri e voci misteriose, e che annunciava in qualche modo la vena darkside del duo.

Ora, in Geodaddi questa vena darkside prende il sopravvento: a restare è solo l’uomo dentro la natura. Ma più che più che un uomo direi che è un bambino, o per meglio dire una persona ancora vergine ai misteri della natura: è anche in questa chiave che andrebbero letti i loro riferimenti all’infanzia.

Per i Boards of Canada però, niente è mai didascalico. Nei loro dischi la natura non è “il suono degli uccellini”: è semmai una somma dei rapporti geometrico-matematici che ancora una volta chiamano in causa la nostra memoria collettiva, intesa come il momento in cui per la prima volta nel corso della nostra infanzia siamo rimasti colpiti (e a volte spaventati!) dalle forme che compongono la natura stessa.

L'ossessione per la matematica è un altro motivo rivelatore della tensione dei Boards of Canada ad esplorare le strutture profonde dell'umano: i numeri sono come litanie magiche, non sono una celebrazione della razionalità, ma un loro utilizzo in quanto vettori di astrazione e ricettacoli di incantamenti.

Per spiegarci, è il momento in cui da bambino ti formi tua idea di cos’è un albero: memorie quindi che tutti gli esseri umani hanno sperimentato, non necessariamente riferite a un particolare periodo storico o politico. In questo, detto per inciso, trovo anche che i Boards of Canada abbiano poco in comune con la hauntology che pure a loro si è molto ispirata.

Egisto Sopor
L’ossessione per la matematica è un altro motivo rivelatore della tensione dei Boards of Canada ad esplorare le strutture profonde dell’umano. Lo diceva bene Marco parlando di Aquarius: i numeri sono snocciolati come litanie magiche, non è una celebrazione della scienza e della razionalità, ma un loro utilizzo in quanto vettori di astrazione e ricettacoli di incantamenti.

Al fondo di questo, chiaramente, c’è anche l’idea delle “corrispondenze”, della natura come progetto armonico le cui parti sono in misterioso collegamento reciproco, e della matematica come linguaggio sovrumano, chiave di apertura di questo scrigno di segreti.

Valerio Mattioli
Che è appunto un grande classico del pensiero iniziatico dai tempi di… mah, direi perlomeno di Pitagora, uno giustappunto per il quale Music is Math.

Ora però, dopo questo tripudio di messaggi cifrati, avvisi agli iniziati ed esoterismo reale o presunto che sia, succede qualcosa. E cioè che i Boards of Canada nel 2005 pubblicano The Campfire Headphase, il loro terzo album ufficiale. E a quel punto, fine del mistero.

Marco Caizzi
È il disco in corrispondenza del quale rivelarono al mondo di essere fratelli.

Il momento della rivelazione.

Egisto Sopor
Ancora una volta, una delle chiavi è la copertina. Specie il retro, con quella foto sgranata del bambino che rimanda immediatamente al retro di MHTRTC. La differenza però è che se in MHTRTC i lineamenti del bambino erano stati deliberatamente “cancellati”, in The Campfire Headphase sono comunque riconoscibili, decifrabili. Insomma, i Boards of Canada si rivelano al mondo, e infatti di lì a breve arriverà l’intervista in cui i due ammettono che non sono semplicemente “amici d’infanzia”.

Valerio Mattioli
Manco a dirlo, è il loro disco che mi piace di meno. Anzi, l’ho ascoltato poco fa e direi tranquillamente che non mi piace e basta, e mi viene da chiedermi se sia proprio perché privo di quell’aura misterica che permeava i dischi precedenti.

Marco Caizzi
Ma sai, The Campfire Headphase è un po’ il classico disco sul passaggio dall’età adolescenziale a quella adulta. Il messaggio è chiaro: ricreare mentalmente le atmosfere di quelle jam collettive in mezzo ai boschi di cui parlavamo agli inizi, magari nel pieno di qualche “festa della luna rossa”, con tanto di falò rituale.

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Dall'album The Campfire Headphase, 2005.

Secondo me però sbagli a sottovalutarlo, tu come tanti altri fan che lo considerano il loro disco minore. È senz’altro l’album che riflette in maniera più aperta e canonica sui tempi andati dell’infanzia e dell’adolescenza, però è come se dicesse: è tutto finito, ormai è andata. Volendo, è il loro disco della consapevolezza – una consapevolezza che in Tomorow’s Harvest prenderà pieghe assai meno bucoliche, come vedremo.

E comunque non dimenticarti che nello stesso periodo curarono due remix meravigliosi per cLOUDDEAD e Beck. Specie quest’ultimo lo conoscono in pochi ma è una cosa bellissima, molto Brian Wilson (il che, già che si parla di nostalgia per l’adolescenza, conta più di qualsivoglia Pitagora).

Valerio Mattioli
In ogni caso, dopo The Campfire Headphase i Boards of Canada scompaiono. Cioè, pubblicano ancora un EP nel 2006, forse un paio di remix, ma prima del nuovo album vero e proprio passeranno otto anni – praticamente un’eternità.

Di fatto è come se, una volta “rivelatisi” con The Campfire Headphase, una volta svelato il segreto del loro legame famigliare, una volta spogliato il loro messaggio dai criptici riferimenti di dischi come In A Beautiful Place e Geogaddi, i due abbiano deciso di eclissarsi. In qualche modo, potevano pure chiuderla lì. Fine del cerchio, come si dice.

Sorpresa!

Invece, nel 2013 arriva a sorpresa Tomorrow’s Harvest. Vi dico la verità: a me, nel 2013, del ritorno dei Boards of Canada fregava meno di zero. Cioè, l’ultima cosa loro che mi ricordavo era appunto il remix dei cLOUDDEAD, che non mi piacque per niente. In generale, li consideravo superstiti di una stagione – quella dell’elettronica “intelligente” – verso la quale non ho mai provato grande trasporto. E anche tutto il culto che si era sviluppato attorno alla loro figura, onestamente non mi ha mai sfiorato.

Alla fine però mi convinsi ad ascoltarlo e non solo l’ho trovato bellissimo, ma credo di essere rimasto vittima di quell’incantamento su cui l’intero culto-BoC è costruito. Insomma, voi lo sapete, io Tomorrow’s Harvest lo ascolto quasi ogni giorno da… diosanto, quasi due anni! Per me, è il disco più bello che hanno mai fatto.

Marco Caizzi
Mi spiace Valerio ma il loro disco più bello resterà sempre Geogaddi. È quella la chiave di tutto il mistero!

Valerio Mattioli
Ma infatti sono due dischi che trovo abbastanza simili, proprio per quella vena darkside di cui parlavi tu. Cioè, il tema dominante di Tomorrow’s Harvest a questo punto non è manco più la nostalgia, i filmini di famiglia, lo sciogliersi dell’individuo nella comunità, il collettivo/setta eccetera. È un disco sulla fine del mondo, o per meglio dire sulla fine dell’umanità, nientemeno. Con quel titolo poi – “il raccolto di domani” – che fa pensare a un’umanità che forse riuscirà a rinascere dalla catastrofe (ecologica, politica, di sovrappopolazione), ma che nel frattempo non ha fatto nulla per impedirla. Ci sono momenti in Tomorrow’s Harvest che trovo di un dolore quasi insostenibile.

Egisto Sopor
In effetti a me il titolo fa proprio pensare a un “raccolto” di uomini, a degli essere umani crioconservati e scongelati dopo la catastrofe e il collasso della civiltà umana.

Mettiamola così: gli ultimi fuochi del falò di The Campfire Headphase si stanno consumando con indolenza all’alba; qualcuno è rimasto ancora a guardare la flebile luce all’orizzonte. Tra tenui speranze e gelidi presagi si leva un nuovo sole, freddo e livido. La caleidoscopica celebrazione dell’umano iniziata con MHTRTC è finita, adesso siamo nel dopo – The Day After. E non sembra proprio “un bel posto in aperta campagna”…

Tomorrow’s Harvest, il loro ultimo album, è una profezia sull'apocalisse planetaria, la fine dell'umanità, la vita dopo la morte.

Valerio Mattioli
Quindi l’intera vicenda Boards of Canada avrebbe una sua narrativa interna. Ogni disco è un capitolo a sé, e il finale (almeno per ora) ci porta direttamente a dopo la catastrofe.

Marco Caizzi
Più che dopo la catastrofe, Tomorrow’s Harvest ci racconta la vita dopo la morte: quindi sì, il riferimento alla crioconservazione fatto da Egisto mi sembra appropriato. Però è un disco che funziona anche come profezia, e a questo proposito permettimi una piccola polemica: mi stupisce molto come gli adepti dei BoC (che pure abbiamo visto essere dei tipi maniacali se non veri e propri pazzi) non abbiano imparato nulla da quel manuale interpretativo che è Geogaddi, a partire dal comandamento più ovvio: The Devil Is in the Details.

Quasi tutti i commenti al disco hanno tirato in ballo l’immaginario fantascientifico-apocalittico degli anni ’80, e questo lo trovo enormemente riduttivo.

Valerio Mattioli
Quello che sappiamo è che nel concepimento dell’album sono stati parecchio influenzati da autori come Ian Morris e soprattutto James Howard Kunstler e Dmitry Orlov: quindi da tutta una letteratura su come il progresso avrà come unico esito l’apocalisse planetaria, e a quanto pare anche in tempi brevi…

Marco Caizzi
Sì ma l’esito non è tanto nei panorami distopici di un Blade Runner o dell’immaginario cyberpunk. Io credo anzi che il modo in cui i Boards of Canada abbiano interpretato questo tema della fine, e poi della vita dopo la morte, sia una riattualizzazione del concetto di “aldilà” come superamento di una condizione di vita insostenibile, in cui a confondersi è più o meno tutto: crioconservazione, genetica, mummificazione, rituali antichi, ciclicità della vita, profezie Maya…

Valerio Mattioli
Addirittura?

Marco Caizzi
Basta seguire il filo tematico dato dalle singole tracce: il disco inizia con un brano chiamato Gemini (e quindi il tema del doppio e del dualismo vita/morte eccetera), e poi prosegue con Reach for the Dead che già dal titolo spiega tutto: i Boards of Canada ci raccontano come “raggiungere i morti” in maniera senz’altro volontaria e controllata, ma soprattutto come mossa disperata per sfuggire a un mondo ormai inospitale.

Poi arriva White Cyclosa, il loro pezzo “carpenteriano”, a cui è stato dato come titolo il nome di una specie di ragni che costruiscono con la tela un doppio di se stessi per attrarre la preda e poi ucciderla a tradimento, qualcosa insomma che rimanda alla lotta per la sopravvivenza, a Darwin, ma anche alla mummificazione per la conservazione dei corpi. Subito dopo c’è Jacquard Causeway, il capolavoro dell’album…

carico il video...
Dall'album Tomorrow's Harvest, 2013.

Valerio Mattioli
Che brano stupendo…

Marco Caizzi
È anche un esempio da manuale del tipico esoterismo BoC: rimanda al Telaio Jacquard del diciannovesimo secolo, una delle prime “macchine binarie” (l’andamento oscillante del brano è proprio quello di una tessitura automatica e inesorabile, sa proprio di filo della vita in continua tessitura, sempre uguale ma al contempo sempre diverso) e poi c’è il riferimento ad Albert Jacquard, genetista e fautore della decrescita che negli anni ’90 polemizzò contro l’utilizzo commerciale del genoma umano.

E ritorniamo di nuovo alla vita, al DNA umano e addirittura ai suoi diritti, e io questo pezzo lo sento proprio come DNA che tesse la vita e niente, quando lo ascolto sto male e mi esplode il cervello.

Valerio Mattioli
Cavolo, fa lo stesso effetto anche a me.

Marco Caizzi
Questo per me vale più di mille cazzate postapocalittiche. Questo è il vero ritorno al grembo mentale che cinquant’anni di droghe e psichedelia non hanno mai realizzato in maniera tanto spietata, lucida, poetica. Ancora a proposito di Jacquard Causeway, come piccola chicca per i fan è  bello sapere che esiste anche questa Giant’s Causeway, una scogliera di pietre ESAGONALI… E dell’importanza dell’esagono per i Boards of Canada abbiamo già parlato.

Comunque, dopo Jacquard Causeway arriva Telepath, un tentativo di comunicazione con l’aldilà…

Valerio Mattioli
Per la miseria, Marco, te lo sei studiato bene il disco. Però non possiamo stare qui ad analizzare ogni singolo brano e le sue miriadi di significati e riferimenti incrociati… Anche se capisco che è quello che gli adepti del culto BoC fanno quotidianamente.

Marco Caizzi
Allora diciamo che la cosa più importante di Tomorrow’s Harvest è che è un disco palindromo. Ascoltato sia in un verso che nell’altro, ha la stessa identica struttura e infatti “fila bene” comunque. Il centro dell’album non a caso è Collapse, un brano che suona identico sia se lo ascolti “dritto”, sia in reverse. Dopo Collapse, i Boards of Canada cominciano a raccontare di laboratori e campi di lavoro per la ricostruzione dell’umanità, omaggi al Sole che è stato il nostro primo dio (nel brano Sundown, una traccia che dura 2:16. Secondo gli adepti del culto BoC,  “216 is the sixth cube number 6 * 6 * 6 and therefore has very solar properties. The number 666 is the total sum of the magic square of the sun as described by Agrippa”), rituali neoprimitivi…
E finalmente, arrivano i nuovi semi: New Seeds.

Valerio Mattioli
L’altro capolavoro del disco.

carico il video...
Dall'album Tomorrow's Harvest, 2013.

Marco Caizzi
Avrai notato che verso la fine si “apre” su una strana nota ottimista, solare… dopo però arriva un brano proverbialmente intitolato Come to Dust (che nella struttura palindroma dell’album è speculare al Reach for the Dead), e infine Semena Mertvykh, che in russo significa “i semi dei morti”. Eccolo, il “raccolto di domani”, l’umanità ormai estinta che tenta di rinascere, o che forse si risveglia dopo secoli di crioconservazione mentre il pianeta è rimasto vuoto e deserto, e senz’altro non è un bel risveglio.

E qui sta tutto il senso di questo immenso libro dei morti dei BoC che è Tomorrow’s Harvest. Dicevo prima che è un album palindromo. Puoi ascoltarlo in un senso o nell’altro, dalla traccia uno alla diciassette oppure viceversa, ma in ogni caso il senso è uno soltanto: dalla vita torni alla vita; ma solo passando attraverso la morte, solo ricongiungendoti al tutto, agli altri, all’indistinto condiviso.

Valerio Mattioli
Accidenti.

Marco Caizzi.
Già.

Valerio Mattioli
Non saprei cos’altro aggiungere, guarda.

Marco Caizzi
Hai presente quel motto, com’è che faceva: “È bello doppo il morire vivere anchora”…

Valerio Mattioli
Quello del logo della Loescher. Me lo ricordo da quando ero bambino.

Egisto Sopor
Il che ci riporta al tema dell’infanzia, della nostalgia, della memoria…

Marco Caizzi
Lo vedete? Abbiamo fatto una discussione palindroma.

Valerio Mattioli
Valerio Mattioli, caporedattore di PRISMO, ha scritto tanto in giro. Il suo libro "Superonda - Storia segreta della musica italiana" è uscito per Baldini & Castoldi nel 2016.

PRISMO è una rivista online di cultura contemporanea.
PRISMO è stata fondata ad Aprile 2015 all’interno di Alkemy Content.

 

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Caporedattori: Cesare Alemanni, Valerio Mattioli, Pietro Minto, Costanzo Colombo Reiser

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