Intervista a Owen Hatherley, autore di Landscapes of Communism che affronta l'eredità dell'architettura sovietica nell'Europa dell'Est: tra fascinazione nostalgica, errori da cui imparare e qualche sporadico successo.
Un assembramento. Parlano in una lingua che suona durissima a orecchie italiane. Il vociare rende le sillabe indistinte, le parole amorfe. Alcuni, in abiti sportivi e capelli rasati, si sono arrampicati sui piloni per vedere lo spettacolo dall’alto. Altri, più maturi, attendono lontano in camicia elegante e macchina fotografica pronta al collo. Ogni tanto si sollevano brusii eccitati: prima circoscritti timidamente tra pochi astanti, poi dilagano in tutta la piazza. Azzardiamo dalla grana del film e dagli abiti: siamo nei primi anni Novanta. Ecco, finalmente, arriva un carro che porta con sé la statua: il busto di un uomo stempiato di mezza età in completo, con un braccio teso. Mentre lo innalzano con una fune, l’arto in tensione si sposta continuamente indicando a caso la folla come in una specie di estrazione a premi. È Lenin: lo saldano sul piedistallo e ora osserva la folla dall’alto. Nelle scene successive, resta solo qualche sparuto gruppi di devoti distesi sul prato, in contemplazione. Once in the XX Century (2016) è un video dell’artista Deimantas Narkevičius che ha rimontato all’inverso il processo di smantellamento di un monumento nel suo paese, la Lituania, usando fonti amatoriali e con effetto parzialmente ironico.
Nel brano The Last Communist (2003) del cantautore scozzese Momus, l’io narrante s’immagina unico abitante e supervisore di una nuova Unione Sovietica, ormai deserta come una specie di Overlook Hotel di Shining in attesa di riprendersi mezzo mondo: “Would the last communist out / Switch off the lights? / They shout as they go / Into the night / They think that it’s over / Maybe it is / But I’m staying here / Alone with this promise… Today I’m alone / The war hasn’t even begun / But your king hasn’t won / One day you’ll come / It’s so clear / Our future’s here I am just the caretaker / All is forgiven! / Come back communism!”.
Probabilmente, il prodotto culturale che ha introdotto il mondo all’idea di Ostalgie (neologismo che indica la nostalgia per la Repubblica Democratica Tedesca e, più in generale, per il comunismo) è stato Goodbye, Lenin! (2003). Produzione cinematografica d’incredibile successo – circa 80 milioni di dollari ai botteghini – dedicata alle rocambolesche vicende di due fratelli che, per evitare un dolore inaccettabile all’anziana madre andata in coma poco prima del crollo del muro e risvegliatasi qualche mese dopo, mettono in scena, alla bell’e meglio, una DDR posticcia. Ed è appena di un paio di anni prima The Future of Nostalgia, tra i testi fondamentali per approfondire la doppia nostalgia est-europea per il proprio passato e per un ideale sognante di un’Europa atavica, lontana dai trattati economici.
L’affascinante studio della slavista Svetlana Boym non può non dedicare un ampio capitolo a Berlino, uno dei maggiori punti di sutura tra i due mondi. Città in cui, progressivamente, i resti del socialismo (l’architettura, i musei, i souvenir – spesso finti – della DDR) e la lunga storia controculturale – precedente, successiva e causata dalla vicinanza del muro – sono divenuti feticci che rimpiazzano, parzialmente, altre forme d’impegno (“non sto bevendo una birra, sto bevendo una birra in un bar tematico DDR”; “non sto mangiando una pizza napoletana, sto mangiando una pizza napoletana in locale tappezzato di poster di Negazione, Indigesti e Franti”). Il fatto che Berlino sia diventata un hub turistico internazionale per la ricca offerta di clubbing e cultura, per la relativa economicità e perché servita dalle maggiori linee low-cost, ci ha messo in condizione di conoscere di prima mano architetture e monumenti sovietici come il Memoriale di Treptower Park: cimitero disegnato da Yakov Belopolsky per commemorare i soldati sovietici caduti durante la battaglia di liberazione di Berlino nel 1945. Uno spazio in cui il lutto è modulato attraverso pannelli storici e statue allegoriche e il fatto che non ricorra a idee di divinità e di nazione aggiunge un ulteriore livello di straniamento alla portata titanica degli interventi scultorei (e, nel caso della mia prima visita, alla vista di una donna in lacrime depositare un mazzo di fiori ai piedi della statua della Madre Russia).
Berlino Est a parte, decine di siti dedicati all’architettura sovietica hanno diffuso l’idea per la quale essa sia monolitica e uniforme, celando la dialettica tra avanguardie e partito bolscevico (sedata dal decreto del Comitato Centrale dell’Aprile 23 del 1932 che sciolse i gruppi artistici autonomi facendoli confluire in “sindacati creativi”), la rilettura di stili regionali dei vari paesi e, soprattutto, una tendenza che diremmo postmoderna: il “realismo socialista” – corrente resa ufficiale da Stalin e adottata a partire dalla letteratura nel 1934 – enfatizzava l’“ottimismo storico” e l’“amore per la vita” rappresentati dall’arte della Grecia classica o dell’Italia rinascimentale, invitando a prenderne esempio. L’ottimo The Total Art of Stalinism: Avant-Garde, Aesthetic Dictatorship and Beyond di Boris Groys riporta un articolo dalla rivista Voprosy Filosofii in merito: “la grande arte classica è sempre stata impregnata dello spirito di lotta contro tutto ciò che è vecchio e obsoleto, contro i vizi sociali. In questo risiede la forza vitale della grande arte, il motivo per cui è sopravvissuta alle diverse ere e alle società che l’hanno prodotta”.
Ho conosciuto Owen Hatherley quando l’ho invitato a Milano a raccontare delle sue analisi urbanistiche sui panorami “riqualificati” lasciati in eredità dal tatcherismo e dal New Labour in Gran Bretagna, ma anche del nuovo skyline milanese sorto in un battibaleno e già sfondo di tutti gli spot televisivi che vogliano segnalare un mix di “contemporaneità” e “familiarità”. Per quest’ultimo tema, ho avuto occasione di fare una camminata con lui in zona Porta Garibaldi e spiare il suo metodo da flâneur. In occasione del centenario della rivoluzione d’ottobre facciamo una chiacchierata con Owen sul suo Landscapes of Communism (Penguin, 2015) frutto di un progetto ambizioso per il quale, trasferitosi da Londra a Varsavia, ha raggiunto in treno i maggiori centri dell’ex-blocco sovietico al fine di studiarli durante lunghissime passeggiate.
Le tue analisi nascono in modo particolare: cammini, osservi le città e ne scrivi. Come nasce questo metodo e in che modo l’hai usato in questo libro?
Non l’ho mai pianificata come una metodologia vera e propria, non ho studiato architettura e il mio lavoro accademico (la mia tesi di dottorato è stata pubblicata quest’anno con il titolo The Chaplin Machine) tocca l’architettura solo molto vagamente. Sono arrivato all’architettura in modo piuttosto complesso, facendo camminate con gli amici e trascrivendole per il mio blog dell’epoca. L’idea stessa di lavorare in questo modo viene da Iain Sinclair, il che è divertente perché non sono un grande fan dei suoi ultimi lavori, ma quando lessi Lights Out for the Territory a diciannove anni pensai: “dovrei fare la stessa cosa per Southampton”. Più tardi sono entrato in contatto con Patrick Keiller che è molto più ricercato, interessante e politico. Il modo in cui la mia scrittura si è occupata di architettura, deriva da lunghi periodi di disoccupazione e giri intorno alla città. Mentre Sinclair preferiva scrivere storie fosche e ambigue io trovavo più interessante conoscere in termini concreti da dove venivano le cose che mi circondavano. Siccome mi è sempre piaciuta l’architettura aggressiva in cemento armato, ho iniziato a occuparmi di brutalismo una decina di anni fa. Questo libro è un modo per leggere la riqualificazione (o assenza di riqualificazione) dell’architettura sovietica nel nuovo contesto capitalista, il che ha più senso, per me, di uno studio storico “distaccato” o di una disamina del recente genere popolare depoliticizzato, decontestualizzato del “porno delle rovine sovietiche”.
Infatti. C’è una grande curiosità – qualcuno direbbe sciacallaggio – che non sembra esaurirsi intorno all’estetica comunista del dopo 1989. Quali sono secondo te i maggiori costituenti di questa fascinazione e quali sono le tue idee a riguardo?
Il miglior libro sull’argomento è Poor but Sexy di Agata Pyzik e tutto quello che ho scritto di questo particolare tipo di nostalgia è influenzato da quel testo. Credo esistano tantissime ragioni per questo flirt – l’orientalismo, il fascino per “i cattivi” e la necessità costante d’immagini interessanti su internet. C’è anche una specie di interesse differito nei confronti della socialdemocrazia del dopoguerra – quando si dice “futuri che non si sono realizzati”, il tentativo di immaginare un corso delle storia diverso dal neoliberismo. C’è un motivo per cui si è acuito dall’inizio della crisi: c’è un mondo di differenza tra Red Plenty di Francis Spufford [da noi, L’ultima favola russa, ndr] e i libri fotografici Soviet Ghosts, per quanto entrambe siano speculazioni fatte da occidentali che non conoscono il russo (non lo parlo neanche io!). Molta di questa roba è estetica e causa diffidenza – tipo “uff, altra roba patinata” – perché l’idea di fondo è che l’estetica non è un modo corretto e serio per studiare la storia. È interessante il fatto che molta della ricerca sull’architettura sovietica viene, in primo luogo, da fotografi che l’hanno resa affascinante, aprendo la via (e la possibilità di accedere a fondi) a molti lavori meno “parassitari”. L’estetica di quell’epoca è incredibilmente interessante per come ha cercato (o non ha cercato, fallendo) di creare un mondo diverso dal capitalismo: abbiamo molto da imparare da quegli errori e da qualche sporadico successo.
Quali sono i pezzi di architettura o di pianificazione urbana più rivelatori nella tua ricerca, o semplicemente che ti hanno interessato di più?
È una domanda difficilissima! Non credo di riuscire a sintetizzare l’intero progetto con un solo palazzo, ma ci sono due esempi particolarmente interessanti delle potenzialità e della cupezza degli esperimenti architettonici sovietici.
Il primo è il sistema di metropolitane sovietico progettato in URSS, a partire dalla Mosca degli anni Trenta. Un progetto di propaganda ampiamente costruito con il lavoro di carcerati, ma oltre cinquanta anni dopo rimane impressionante per come rivendica lo spazio pubblico, per l’efficienza, l’opulenza e la varietà. Il secondo esempio potrebbe essere quello del Palazzo della Cultura e della Scienza a Varsavia. È un progetto coloniale, modellato in modo piuttosto convincente sulle “sette sorelle”, gli imponenti grattacieli gotico-barocchi costruiti a Mosca dopo la guerra. Il progetto e la realizzazione furono seguiti dal governo sovietico. Il modo in cui ha trasformato lo skyline di Varsavia – che per il resto è una ricostruzione meticolosa della città del diciottesimo secolo – aveva lo scopo di pubblicizzare apertamente il dominio sovietico sulla capitale polacca e, nel tentativo goffo di negare questa evidenza, i tetti di ogni porzione del gigantesco grattacielo sono decorati con copie di ornamenti manieristi dalle piazze della città, un intervento cosmetico ridicolo.
Nonostante ciò, ho incontrato molti abitanti di Varsavia – particolarmente, se non addirittura esclusivamente, giovani – che amano il palazzo. Una delle ragioni è perché, contrariamente alle “sette” di Mosca, non è un palazzo privato dedicato alla burocrazia, ma è pubblico: uno di quei “condensatori sociali” degli anni Venti, in cui una grande quantità di funzioni pubbliche – da quanto ricordo, due bar, tre teatri, una piscina, una piattaforma panoramica, un museo della tecnologia, una sala per concerti e per conferenze, un cinema – sono inseriti in un’unica struttura. Questo senso di tante possibilità contemporanee si aggiunge alla qualità artigianale degli interni con scalinate, candelabri bizzarri, luci atmosferiche, marmi di lusso. Varsavia è l’unica città che conosco in cui la struttura più riconoscibile dello skyline è un edificio pubblico.
Molti immaginano l’architettura sovietica come auto-contenuta e alinea, invece c’erano rapporti interni piuttosto complessi. È piuttosto controintuitiva l’analogia che fai con il periodo vittoriano, potresti dirci di più su questo argomento?
Viene un po’ dalla Storia della Russia Sovietica di EH Carr che parla delle élite sovietiche nell’era stalinista che, come molti nuovi ricchi, erano ossessionate dalle meraviglie ingegneristiche, amavano il kitsch dell’arte realista, l’architettura eclettica e decorativa. Ho pensato: ah-ah! Si applica all’architettura Stalinista dal 1934 al 1956, ma funziona estremamente bene come analogia. Un’architettura di una classe in ascesa durante una rivoluzione industriale che serviva soprattutto per comunicare il processo di modernizzazione attraverso le nuove scale di grandezza rese possibili dagli scheletri di metallo nel cemento; a emanare un senso di ricchezza materiale (comunitaria, nelle Metro; privata nei molti palazzi di appartamenti “Stalinka”), a diffondere l’immagine del potere statale e la retorica del palazzo-stato (tutte quelle statue, quegli emblemi, quei fregi) e di continuità storica (i prestiti in forma semplificata dalle “forme nazionali” da ogni nazione). Ha molto senso comparare la Moscow State University o il Khreschatyk di Kiev al London Natural History Museum, all’Albert Hall, al Victoria & Albert Museum, al Palazzo del Municipio di Manchester.
L’unica persona ad aver avuto più statue di Lenin deve essere stata la Regina Vittoria… È anche doveroso considerare il modo in cui la storia coloniale eccezionalmente sanguinaria della Gran Bretagna del periodo è, solitamente, perdonata per via dei palazzi, delle industrie, delle infrastrutture (“almeno abbiamo costruito le ferrovie in India”) mentre gli sforzi più estesi in USSR non hanno ricevuto stesse forme di condono. C’è anche un interessante diagramma di Venn che si potrebbe fare tra persone che hanno voluto buttar giù le statue di Cecil Rhodes e quelle che hanno voluto distruggere quelle di Lenin. Non credo trovereste una grande sovrapposizione.
Dicevi che uno degli scopi di questo tuo lavoro è capire qual è lo stato di queste architetture, quanto sono state rinnovate o integrate nelle economie di mercato negli ultimi trent’anni.
Il costruttivismo è stato bistrattato nei centri maggiori (Mosca, San Pietroburgo, Cracovia) mentre alcuni esempi recenti a Mosca mostrano una certa cura almeno per quanto riguarda la manutenzione. L’edilizia stalinista nei centri delle città è generalmente trattata bene, il che ha senso visto che le strutture derivanti dal diciottesimo secolo sono adatte per le best practice urbane di oggi: “active frontage” [palazzi che hanno attività o negozi per il pubblico al piano terra, ndr], densità e così via. Naturalmente opulenza e pomposità le hanno rese abitazioni molto ambite per i nuovi ricchi. L’edilizia modernista prefabbricata post-1956 è stata notevolmente rinnovata in Polonia e in Repubblica Ceca, parzialmente attraverso programmi finanziati dall’Unione Europea che hanno fatto perlopiù bene agli edifici e agli spazi pubblici. In posti dove il capitalismo ha preso una forma, in qualche modo, più cruda e brutale – penso in Lettonia, Ucraina e, specialmente, Georgia – sono in pessimo stato, visibilmente a pezzi a prescindere dalla qualità originale delle costruzioni.
Citi il commentatore Cor Wagenaar che, scrivendo dei Magistrale (grandi viali), sosteneva che il senso del ridicolo suscitato in Occidente per la loro grandiosità derivasse dalla paura: non tanto nei confronti della distopia totalitaria che rappresentavano, quanto della promessa dell’emancipazione per l’uomo comune. Non so quanto tu sia d’accordo con questo giudizio.
Solo in parte. Sotto Stalin molti bisogni basilari dell’essere umano erano ignorati – per usare un’espressione eufemistica – e la grandiosa architettura che ospitava una minuscola minoranza di lavoratori ci dice poco dello stalinismo e delle sue priorità deformi. Penso che la composizione di spazi pubblici generosi di cui è stata capace la pianificazione ispirata dai Soviet può, al suo meglio, dare un barlume di cose che il capitalismo non è più in grado di offrire. Nessun progetto pubblico ha mai eguagliato la grandezza da sogno della metropolitana moscovita, ed è difficile immaginare che una società capitalistica possa farlo.
Nato a Chieti, vive a Milano, lavora per la rivista Mousse e ha scritto di arte e musica per Blow Up, Rivista Letteraria e altri.