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Architettura e urbanistica dalla Casetta in Canadà a Ponte ponente ponte pì.

Immaginate di leggere su Subito.it, nella categoria immobili, un annuncio di questo tipo: “non si può entrare dentro, perché non c’è il pavimento / non si può andare a letto, perché in quella casa non c’è il tetto”. Spoiler: non dovete immaginarlo, a volte ci sono davvero annunci di questo tipo, cioè di case che sfidano piani regolatori, leggi edilizie e quelle della natura, ma che ottengono l’abitabilità e vengono presentate dagli agenti immobiliari come soluzioni originali.

Dopotutto l’Italia è il paese di un’edilizia e un’urbanistica fantasy, di Strade Infinite (Salerno-Reggio Calabria) e ponti chimerici (quello sullo Stretto), di GRANDI OPERE e di intere città costruite su lagune e fiumi, di eco-mostri come quelli delle favole, di barriere architettoniche crudeli e di cavalcavia e rotonde surreali.

Se dovessimo tracciare una mappa di questo mondo verrebbe fuori un disegno sproporzionato e illogico, come i disegni dei bambini, o come il regno paradossale e imprevedibile delle filastrocche. È un regno immaginario composto non da grandi città, ma da piccoli comuni commissariati, dove il Cappellaio Matto è assessore all’urbanistica e M.C. Escher il vicesindaco che appalta progetti edilizi disegnati da archistar impazzite a imprese controllate dalla frangia surrealista della camorra.

Quel che conta è il disordine. Tutto è in movimento, instabile, sul punto di crollare, e anche incerto, illusorio, fuorviante. Non è colpa dell’impresa che ha risparmiato sui materiali, del terremoto o del dissesto idrogeologico, o dei muratori che per errore hanno letto il progetto al contrario. Non c’è un verso, un sopra o un sotto. È l’intera realtà ad essere sempre sul punto di collassare e svelare la propria illusorietà, come quando per un attimo intuiamo che stiamo sognando.

Lyonel Feininger, Hopfgarten, 1920.

Scriveva Italo Calvino nelle Città invisibili che “le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure”. Su questi due elementi si basano anche le filastrocche. Dentro il palazzo c’è un cane pazzo e nel palazzo di Santa Pazzia c’è una pazza che lava le pezze. Ma anche: in quel palazzo d’oro, ci vive un orco o c’è un tesoro? Nel castello di Cervatto abitava un uomo matto che ballava a più non posso con un gatto bianco e rosso. E così via.

Altrove, aprendo la porta (sempre che ci sia), ci appaiono immagini da far tremare le vene: “Dentro un vaso di porcellana c’era nascosta una bella cinesina che ballava la danza americana col capitano della marina”. Nelle conte, le più criptiche del genere, i castelli possono rivelare anche drammi famigliari esistenziali: “Son venuta su al castello per trovare mio fratello. Tuo fratello non ci sta, esci tu fuori di qua”.

Ma un castello si può anche rubare, con sforzi logistici che non possiamo nemmeno immaginare (forse i giapponesi, chissà), oppure incendiare, come dimostra la celebre “Oh che bel castello”, quella di “marcondiro ndiro ndello”.

La storia inizia con un soggetto non identificato che si vanta del proprio castello. Ma qualcuno risponde: il mio è ancora più bello marcondiro ndiro ndello. Al che, contro ogni previsione, in un caso esemplare di overreaction, si scatena una devastante faida senza fine: e noi lo ruberemo, e noi lo rifaremo, e noi lo bruceremo, e noi lo spegneremo, in una GUERRA TOTALE che va avanti di rima in rima, di secolo in secolo, con cannoni e razzi marcondiro ndiro ndà. Insomma la prossima volta meglio stare zitti.

Georges Braque, The Viaduct at L'Estaque, 1907-08.

La soddisfazione seguita all’invidia e al fuoco che brucia ogni cosa è presente anche nella famosa “La casetta in Canadà”, canzoncina che partecipò al festival di Sanremo nel 1957 scritta da Mario Panzeri, autore di “Maramao perché sei morto”, “Pippo non lo sa”, “Papaveri e papere” e molte altre. La situazione è nota: un certo Martin gira senza meta per la città. Ci si chiede perché, e qui parte quello che sembrerebbe un flashback: scopriamo che Martin aveva una casetta piccolina in Canadà, con vasche, pesciolini e tanti fiori di lillà, e tutte le ragazze che passavano di là dicevano “Che bella la casetta in Canadà!”.

Tutto sembra tranquillo, Martin è soddisfatto della propria casa e si intuisce che questa gli porti anche un certo successo con le donne, finché… Un giorno per dispetto Pinco Panco l’incendiò. Dunque Martin resta senza casa, ma non si arrende: “Lui fece un’altra casa piccolina in Canadà, con vasche, pesciolini e tanti fiori di lillà”, e così via. Anche qua il fuoco e l’invidia sono arrivati a portare disordine. Il fatto che le strofe si possano ripetere potenzialmente all’infinito, comporta che Pinco Panco possa incendiare più e più volte la casetta che Martin, moderno Sisifo piccolo-borghese, ricostruisce senza sosta, per sempre.

Quest’aspetto non era sfuggito alla critica dell’epoca, anche perché, secondo alcuni, i testi di Panzeri nascondevano sempre un sottotesto satirico e politico. Era il caso di “Papaveri e papere”, per molti una critica al potere, come anche “Pippo non lo sa”. La casetta in Canadà, misterioso status-symbol anni ’50, serve su un piatto di finto argento questa lettura ideologica del critico Gianni Borgna: “Risulta evidente non solo l’elogio della positività e del decoro piccolo borghesi (nell’aspirazione a una casa tutta per sé, con fiori, pesciolini rossi ecc.) ma soprattutto l’adesione senza riserve ai principi dominanti: lavorare sodo senza discutere, tollerare illimitatamente il sopruso, e via di questo passo”.

In realtà se ripensiamo all’inizio della storia, quando vediamo Martin vagare per la città “solo, senza una meta”, possiamo ipotizzare che a un certo punto abbia rinunciato alla sua battaglia contro Pinco Panco e sia rimasto senza casa. Il fuoco ha trionfato, la sua casetta in Canadà è ora uno scheletro bruciacchiato circondato da lische annerite di pesciolini e Martin dorme in un dormitorio Caritas. Forse questo è il vero finale della storia. Una casa distrutta, un uomo solo e la puzza di bruciato.

Nelle maggior parte delle filastrocche la casa è il luogo sicuro, tranquillo, dove regnano la pace e l'ordine. È una continua esaltazione dell'accontentarsi, del gioire della pace e della sicurezza del luogo domestico.

A volte le filastrocche si dimostrano tragicamente profetiche, come questa di origine genovese: “Piove, non piove, faremo case nuove, di concio, di bronzo, di piume di colombo”. Non può non far pensare alle alluvioni che hanno colpito negli ultimi anni la Liguria, e d’altronde, conoscendo l’edilizia creativa italiana, utilizzare piume di colombo per costruire edifici non è un’idea poi così assurda.

Nelle maggior parte delle filastrocche la casa è il luogo sicuro, tranquillo, dove regnano la pace e l’ordine e in definitiva la noia. È una continua esaltazione dell’accontentarsi, del gioire della pace e della sicurezza del luogo domestico, veri moniti ai bambini che vogliono uscire fuori, nel mondo esterno, dove li attendono pericoli e avversità.

Alcune filastrocche sono contemporanee o di poco successive alla seconda guerra mondiale, e dunque possiamo capire che, quanti avevano vissuto i bombardamenti, considerassero un tetto integro un dettaglio molto importante. Più che l’interior design, veniva lodata la struttura solida, semplice e sicura: “La casa, questo luogo benedetto, ha le mura, le porte e le finestre e un tetto”.

Le stanze sono sempre poche, generalmente due, e così le finestre. Come nella celebre “Casa mia, casa mia, per piccina che tu sia tu mi sembri una badia. Se non hai splendide sale hai tre vasi al davanzale”. Ci si accontenta di poco, l’importante è stare dentro casa, al sicuro, dove “t’allieta un gran tesoro: il sorriso ed il lavoro della mia mammina d’oro”. Ma, c’è poco da fare, ci vuole un imprevisto perché parta una storia.

Pablo Picasso, Case in collina a Horta de Hebro, 1909.

Quei bei vasi sul davanzale ad esempio potrebbero essere una fonte di pericolo mortale: “Ieri un magnifico vaso mi cadde sul naso dal decimo pian, e con un dolce sorriso mi misi allora a cantar”. È il geniale inizio di “Evviva la torre di Pisa”: un uomo cammina per la città, solo e senza meta, come il Martin del Canadà e molti altri protagonisti di canzoni e filastrocche (anche quello di “Passeggiata domenicale” di Rodari: “Io vado a spasso per la città, senza una meta vago qua e là. In piazza Navona mi fermo a guardare quelli che stanno il gelato a leccare”). Quando a un certo punto gli cade un vaso in testa dal decimo piano di un palazzo. Non muore, anzi: con un dolce sorriso inizia a cantare uno sfrenato elogio, non a caso, di una torre storta, pendente, perennemente sul punto di cadere.

Ma a volte il pericolo è anche dentro casa, come nei film horror. È il caso di quella in via dei Matti al numero zero. Viene presentata come fanno certi abili agenti immobiliari: piccoli e grandi difetti vengono messi sullo stesso piano (“questa porta cigola, ah e poi non c’è il tetto! Heheh!”), e si sottolineano solo gli aspetti positivi. L’inizio è celeberrimo: “Era una casa molto carina, senza soffitto, senza cucina”. Sulla mancanza di cucina si potrebbe soprassedere, ma come si fa senza soffitto? Scopriamo inoltre che non c’è il pavimento, non c’è il tetto, e la casa è sprovvista anche dei più fondamentali servizi igienici. Ma soprattutto, particolare non da poco, “non si poteva entrarci dentro”.

In questa casa non solo non si rispettano i minimi requisiti per l’abitabilità (problema del tutto secondario, come abbiamo visto), ma è fisicamente impossibile entrare. Eppure, conclude la canzone, “era bella, bella davvero”. Una mossa da vero agente immobiliare: alla fine potremmo anche comprarla. Infatti i suoi evidenti difetti, se venduti bene, oggi non sfigurerebbero nelle case d’avanguardia di alcuni archistar fautori di un’architettura inumana, scomoda, inabitabile, e anche questa anticipata da filastrocche e poesie.

Che dire dell’angosciante Casina di cristallo di Aldo Palazzeschi? La immagina “proprio nel mezzo della città, nel folto dell’abitato”. Come quelle sognate nelle filastrocche, è modesta, “piccolina piccolina, tre stanzette e la cucina. Una casina come un qualunque mortale può possedere, che di straordinario non abbia niente”. Con una piccola eccezione: è di cristallo, completamente trasparente. “Mi vedrete quando sono a fare i miei bisogni”, ma tranquilli: “se poi mi vedrete pisciare, non vi dovete scandalizzare”. Inutile dire che alcuni architetti hanno realizzato davvero delle case di vetro, completamente trasparenti.

È sempre sotto le cose che avviene la sovversione. Sopra la panca la capra campa, ma sotto fa una brutta fine. E sotto il letto si nascondono i mostri.

Ma, se dentro le case regna l’ordine e dentro i castelli il mistero, nel regno delle filastrocche il vero luogo della trasgressione è sotto il ponte.

In generale è sempre sotto le cose che avviene la sovversione. Sopra la panca la capra campa, ma sotto fa una brutta fine. Sotto la cappa del camin stava un vecio birichin che sonava la chitarra, un po’ come quello che balla nel castello di Rovatto. Ed è sotto il letto che si nascondono i mostri. Perché le cose sopra hanno un aspetto, ma sotto ne hanno un altro: una cosa che si sapeva già 30mila anni fa, quando i nostri avi sollevavano pietre e trovavano serpenti, o cinesi che ballano.

I ponti ci danno una sensazione di sicurezza illusoria: possiamo camminare sospesi nel vuoto, sopra le cose, l’importante è non guardare sotto. Se lo facciamo, scopriamo cose peggiori della cinese che balla dentro il vaso di porcellana o del vecio birichin. Ad esempio sotto il ponte di Baracca c’è Pierin che fa la cacca. Pierin può essere anche Gigin o Mimì, e Baracca può essere Malacca. (Curiosità: Baracca esiste, ce ne sono due, una in Piemonte e una in Friuli. E anche Malacca esiste: è una città della Malesia dove è prevista la costruzione di un grande ponte sullo stretto, il ponte di Malacca appunto. Se volete andarci, sapete cosa fare.)

Sotto il ponte ci possono essere anche tre conche, o tre bombe, o i lupi. Fin qui nulla di strano, o quasi. Sotto il ponte di Verona c’è invece una vecchia scoreggiona, o sporcacciona, la cui attività principale è cucire le mutande. A seconda delle versioni le cuce per sé o per il marito, ma l’importante è la conclusione che permetta la conta fino a tre (così come nel ponte di Baracca, che si conclude con la misurazione della cacca di Pierin corrispondente a 33: uno-due-tre).

Paul Klee, Vier turme, 1923.

Il punto d’arrivo però, quello che sfugge completamente anche al catasto di questo regno immaginario, è il ponte ponente ponte pì. Punto d’arrivo e punto di non ritorno. Di fronte a un progetto edilizio di questo tipo i tecnici comunali strabuzzeranno gli occhi e poi, nel dubbio, fingeranno di non sapere nulla, lasciando ad altri la responsabilità delle eventuali catastrofiche conseguenze. Dopotutto, cos’altro potrebbero fare leggendo questi versi?

“Ponte ponente ponte pì tappetà Perugia ponte ponente ponte pì tappetà perì. Ponti nflò la mano no!”.

Qua siamo in un territorio oscuro che sfugge ad ogni senso. La spiegazione c’è, ed è apparentemente noiosa: l’originale è una filastrocca francese, tradotta in italiano mantenendo il ritmo ma non il senso. In realtà è molto interessante, perché scardina quell’ovvietà secondo cui le parole corrispondono a un significato, come scrive il filologo Paolo Canotteri proprio a proposito di “Ponte ponente ponte pì”: “La conservazione della forma a scapito del contenuto si ha in condizioni estreme, date dal passaggio da un dominio linguistico ad un altro e da un contesto di parlanti tendenzialmente infantile, quindi non interessato alla semantizzazione totale del mondo, ma adagiato piuttosto su una ritmicità immanente alle cose, ritenuta superiore e più importante, visto che la funzione della conta è quella di contare il mondo prima ancora che cantarlo”.

Ecco quindi che si crea un mondo nuovo e dall’assenza totale di senso si ergono ponti misteriosi e formule esoteriche, in una zona ad altissimo rischio sismico di questo regno commissariato e totalmente fuori controllo dove architettura e urbanistica seguono leggi incomprensibili e la “semantizzazione totale del mondo” è l’ultimo dei pensieri.

Martino Pinna
Martino Pinna è nato a Oristano nel 1984. Dal 2001 è autore del giornale online Trascendentale. Nel 2012 fonda Sardegna Abbandonata, progetto dedicato alla scoperta dei luoghi abbandonati o sconosciuti dell'isola.

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