Più di un miliardo e duecento milioni di persone giocano ogni giorno ai videogiochi. Più della metà sono donne. Ogni percentuale di melanina è coinvolta nell’attività, l’orientamento sessuale è indifferente. E allora come mai i protagonisti sono solo maschi bianchi eterosessuali?
Tra il 14 e il 18 marzo scorso si è tenuta a San Francisco la Game Developer Conference: come si evince dal nome, la GDC è un simposio di addetti ai lavori del settore o, più precisamente, “un evento ideato per informare e istruire i professionisti dell’industria videoludica sui giochi multiplayer, sul mobile gaming e sulle tecnologie della prossima generazione”. Roba seria per gente seria, insomma, e in effetti molti incontri tenutisi per l’occasione hanno toccato argomenti quali l’ascesa della realtà virtuale o le questioni sociali nel gaming. Giovedì 17, poi, Microsoft ha ospitato il pranzo ufficiale di Women in Gaming, una conferenza il cui nome è sufficientemente didascalico da non consentire equivoci sulla sua natura. Gente seria, appunto.
Immaginate allora la sorpresa quando, alla festa di Xbox che ha seguito l’evento, i partecipanti sono stati accolti da uno sciame di ballerine svestite da lolite: mancava giusto Gianni Giudici a urlare “Ma un po’ di figa qua?”, ma anche senza il suo contributo la situazione doveva apparire sufficientemente surreale. Cubiste a un evento ufficiale Microsoft, dove oltretutto larga parte dei presenti fino a poco tempo prima aveva partecipato a una conferenza su rappresentanza e rappresentazione femminile nel gaming? Davvero?
Ora: in questo frangente è importante sottolineare come l’opinione che ciascuno di noi ha delle cubiste – e dell’oggettificazione delle donne in generale – è del tutto irrilevante ai fini della discussione; il problema, infatti, prima che sociale è di natura professionale. Analizziamo infatti il contesto: la multinazionale di Redmond non è solo uno dei pezzi da novanta dell’industria videoludica, una delle più importanti aziende nel campo della tecnologia o una delle corporation più grandi in circolazione: è tutto questo e molto di più, è il secondo brand di maggior valore al mondo. Prima di Google, della Coca Cola e della Disney c’è Microsoft, e, considerata la visibilità che deriva dalla sua posizione, ogni anno spende la cifra monstre di 2,3 miliardi di dollari – più del PIL della Liberia – per assicurarsi un’immagine pubblica positiva. A partire dai vertici (l’AD Satya Nadella è di origini indiane, il presidente John W. Thompson è afroamericano, e la sua direttrice finanziaria – Amy Hood – è una delle 100 donne più potenti del mondo), passando dalle attività filantropiche fino a giungere al mission statement, l’azienda è evidentemente interessata a veicolare un’identità progressista che la pone in netta contrapposizione con lo stereotipo che dipinge il settore tecnologico come un’enclave dominata da caste di maschi caucasici.
Bene: nonostante lo scenario sia piuttosto chiaro, un bel giorno succede che qualcuno all’interno della divisione Xbox decida di spendere una cifra X (qualcosa che nel bilancio di fine anno figurerà tutt’al più come un errore di arrotondamento) per organizzare un evento che non solo non si accorda alla identità aziendale, ma addirittura vi si pone in contrasto. Non pago di questo, lo fa con dei mezzi e una strafottenza tale da portare i commentatori a passare dallo stupore all’indignazione, merce assai rara in campo economico: prova ne è questo articolo del Business Insider, in cui si scrive che la presenza delle ballerine, “che secondo le ricostruzioni erano pagate per socializzare con i presenti, mina alla base gli sforzi di Microsoft di apparire più inclusiva nei confronti delle donne”. Oppure questo editoriale di Forbes, che definisce l’accaduto “problematico” per l’azienda, soprattutto visto che “in tempi recenti [il settore videoludico] è stato sottoposto a un severo scrutinio, dopo che un numero crescente di videogiocatrici ne ha evidenziato i connotati apertamente sessisti”.
Dove c’è fumo c’è arrosto
Per una persona normale, quanto scritto da queste testate (che ricordo essere tra le più autorevoli in materia economica) è scontato. Così scontato che ci si deve chiedere perché si sia reso necessario scriverne, e al fine di trovare una risposta conviene partire da un esercizio di immaginazione: se la stessa sequenza di eventi si fosse verificata in un altro settore merceologico si sarebbe arrivati a questo? Credo di no: al netto del porno, sarebbero stati gli stessi organizzatori a evidenziare l’inopportunità di assoldare cubiste per un evento ufficiale, magari chiedendosi quale idiota possa pensare il contrario e, eventualmente, defenestrandolo senza troppi complimenti prima che possa fare danni in futuro. O forse mandandolo a spolverare i ficus in ufficio, non so; quello che però so è che non avremmo letto nulla in materia, né su Forbes, né sul Business Insider, né da qualsiasi altra parte.
Ma allora perché nella “nostra” realtà le cose sono andate diversamente?
La prima risposta che viene è in mente è che c’è stato un errore nel sistema: sono mancati i controlli e qualcuno non ha fermato in tempo l’operazione pole dancer. Vero. Ciò non spiega però la nascita a monte di idee simili, ovvero quello che rende necessaria una supervisione a valle; non spiega cioè come sia possibile che in un’industria multimiliardaria vi sia spazio per trovate da adolescenti in subbuglio ormonale, prive di professionalità oltre che di decoro. Il corto circuito non è quindi avvenuto tanto nella fase di controllo, quanto nel momento in cui qualcuno (probabilmente una ditta terza specializzata in eventi) ha immediatamente associato la parola “Xbox” all’immagine di nerd in fregola, sposando così stereotipi vecchi di decenni – gli stessi che Microsoft combatte a suon di miliardi – che ignorano il fatto che i videogiochi sono ormai una passione che coinvolge pressoché tutte le fasce demografiche, ragion per cui anche all’interno dell’industria videoludica vi sono persone poco propense a passare una serata tra donne “pagate per socializzare” con loro. Un’ignoranza, questa, che i responsabili hanno pagato caro sotto il profilo delle relazioni pubbliche: i partecipanti all’evento – molti dei quali donne – hanno reagito con rapidità e in modo impietoso, e il presidente di Xbox Phil Spencer ha rilasciato il seguente comunicato: “In occasione degli eventi tenutisi nel corso della GDC […] abbiamo presentato Xbox e Microsoft in modi contraddittori e disallineati rispetto ai nostri valori. Quello che è successo è stato inequivocabilmente sbagliato e non sarà tollerato. Sono cosciente del fatto che abbiamo deluso molte persone e pertanto in futuro mi dedicherò personalmente a rispettare degli standard più elevati. Dobbiamo garantire che diversità e inclusività siano sempre al centro del nostro business e dei nostri valori fondanti. In futuro faremo meglio”.
Chiuso l’incidente, quindi? Nient’affatto: in risposta allo sdegno di quelle persone che hanno ritenuto poco consono discutere d’affari in mezzo a un turbinio di tette e culi, una cospicua fetta della comunità di videogiocatori ha dichiarato che le suddette persone erano “troppo sensibili” e “troppo permalose”, colpevolizzando di fatto le vittime. Giunti a questo punto, però, non sgraniamo gli occhi di fronte all’imbecillità umana, ma anzi ringraziamo questa solerte compagine di difensori della libertà di pensiero, poiché grazie a loro abbiamo trovato le risposte alle domande poste finora, individuando con esattezza il luogo d’origine di tutti gli stereotipi che hanno causato la débâcle.
Stereotipi che – scoccia ammetterlo – non solo trovano ancora un riscontro nel mondo reale, ma per giunta sono difesi con orgoglio da una parte dell’utenza che ha trovato in rigurgiti sessisti e, come vedremo, anche razzisti, un’identità collettiva. Sia chiaro che il fenomeno, prettamente americano ma presente a macchia di leopardo anche altrove, trascende il mondo dei videogiochi e si inserisce in un ritorno di fiamma reazionario incentrato sui movimenti per i diritti degli uomini; la sua “variante poligonale” è però particolarmente interessante, perché dietro all’apparente puerilità si ritrova tutto l’armamentario ideologico degli epigoni “reali”.
Ma torniamo ancora per qualche attimo alla GDC: “No, dubito che una situazione simile si sarebbe verificata nel caso di una convention di costruttori edili. In quel caso – e, più in generale, a qualsiasi raduno di professionisti – al limite sarebbero andati allo strip club dopo la festa, magari saltandola a pie’ pari”. A parlare è Tanya DePass, autodefinitasi “attivista per caso” e fondatrice del movimento #INeedDiverseGames, nato nel 2014 con lo scopo di espandere la rappresentatività delle minoranze (percepite) nell’industria e nei prodotti videoludici. L’essere una donna afroamericana la pone in una posizione privilegiata per riconoscere i tic discriminatori del mondo del gaming – soprattutto quello nordamericano – e così, oltre ad avere istituito una borsa di studio per aspiranti game designer, spesso presenzia in qualità di ospite o moderatrice alle varie conferenze di settore come Pax East o, appunto, la GDC. Quando l’ho contattata, nei giorni immediatamente successivi agli eventi, la sua opinione era netta: “Tutta la situazione finirà col rafforzare gli stereotipi che l’hanno generata: i videogiochi sono materia esclusivamente per maschi – anzi, ragazzini – e in tal senso il ruolo delle donne è puramente ancillare. Se servono per abbellire l’ambiente sono tollerate, ma comunque non faranno mai parte della comunità o, se vogliamo, della fratellanza”.
Maschio, bianco, eterosessuale
Definire in modo netto la subcultura dei gamer è impossibile oltreché inutile, essendo questa in costante mutamento. Tuttavia, al suo interno vi sono dei tratti psicologici piuttosto diffusi che meritano una menzione: fratellanza, complicità e il senso di appartenenza a un gruppo di iniziati. È per una sorta di accondiscendenza verso di essi che il mercato videoludico – soprattutto nella categoria dei titoli AAA – soffre di un enorme problema di diversità e rappresentazione, di cui le vicende raccontate finora sono solo uno dei tanti sintomi. Soprattutto, è un problema che, alla luce della perdurante espansione del mercato (e dunque dell’utenza), è ormai insostenibile: attualmente il 52% dei giocatori mondiali è di sesso femminile; pressoché ogni nazione ospita una comunità più o meno vasta di appassionati; in Kenya si sta sviluppando una rigogliosa industria videoludica; la Corea del Sud è da tempo sinonimo di MMO ed eSports; il mercato in Medio Oriente cresce ogni anno del 29%, e così via. In altre parole, quello che a lungo è stato un fenomeno prettamente occidentale ormai appartiene a tutti. Eppure, a guardare i tratti somatici degli eroi dei bestseller contemporanei, si sarebbe portati a pensare che il gaming sia un passatempo riservato a suprematisti bianchi e attivisti di movimenti per i diritti degli uomini. “Sono l’unica ad essere stanca di vedere sempre la stessa faccia – che dico, lo stesso fenotipo! – nei videogiochi?”, si chiede Tanya entrando più nel dettaglio. “È possibile che nel 90% dei casi mi trovi a dover impersonare una variante di Nathan Drake, con come unica concessione di ‘diversità’ il colore dell’iride, la lunghezza della barba e, a dir bene, la ruvidità del carattere? Penso che si dovrebbe fare molto di più per offrire, soprattutto ai giovani, una maggiore varietà in tal senso”.
Ma quello che pare essere semplice buonsenso è in realtà considerato un punto di vista “radicale” che buona parte dell’establishment videoludico osteggia apertamente: per esempio, viviamo in una realtà in cui Ken Levine è costretto a mettere in primo piano sulla copertina di Bioshock Infinite l’ennesimo maschio alfa con fucile in mano (anziché il vero perno narrativo del gioco, Elizabeth) solo perché gli editori – e chi al loro interno fa i conti della serva – sostengono che un’immagine femminile non sia commerciabile. È in questa stessa realtà che Ubisoft sostiene che Assassin’s Creed: Unity non ha protagonisti femminili poiché le donne “sono difficili da animare” (curioso: la stessa serie vanta un titolo in cui s’impersona una ragazza di colore); infine, sempre all’interno del nostro continuum spazio-temporale, il team creativo della BioWare ha rivelato che, malgrado in principio il comandante Shepard fosse nato come donna, a meno che non si possegga l’edizione limitata di Mass Effect 3 la copertina presenterà di default la versione maschile.
Quando poi alle distinzioni di sesso si aggiungono quelle legate alla melanina la situazione diventa ancora più incredibile: casomai qualcuna tra voi fosse una donna di colore alla ricerca di una controparte poligonale che le assomigli, può scegliere uno tra i ben quattordici (!) avatar gentilmente offertici nel corso dell’intera storia del medium videoludico. “L’assoluta mancanza di diversità è un problema innegabile sul fronte del colore della pelle, ma non è meno grave dal punto di vista del gender. Certo, numericamente le donne sono più presenti, ma troppo spesso rientrano in cliché triti e ritriti, e la loro maggiore visibilità troppo spesso dipende dai vestiti che indossano”.
Negare l’evidenza
Giunti a questo punto, immagino che qualcuno abbia alzato il ditino pensando a Lara Croft, oppure al fatto che Metroid, Mirror’s Edge e Beyond Good & Evil hanno protagoniste di sesso femminile, che il cast di GTA San Andreas era perlopiù composto da neri e latino americani, che gli asiatici Ryu e Chun Li sono icone del genere, che Roberta Williams è una pioniera dell’industria videoludica e che Jade Raymond è una dirigente di spicco nel mercato contemporaneo. Tutto giusto, perlomeno formalmente.
Ciò che però bisogna chiedersi è questo: nessuno ha mai notato che le protagoniste femminili rientrano invariabilmente in un canone – bianche, attraenti, spesso altamente sessualizzate – che rigetta sistematicamente la realtà per venire incontro ai gusti maschili? Che GTA spesso confonde la satira con lo sfruttamento di stereotipi? Che Ryu e Chun Li, al netto dei nomi, sembrano di origine caucasica? Soprattutto, il solo fatto di riuscire a elencare le eccezioni non dimostra l’esistenza di una regola?
Non si mette in dubbio che dietro a questa regola vi siano ragioni storiche (legate allo sviluppo del medium e alla sua diffusione all’interno di una categoria di persone ben definita), tuttavia queste non dovrebbero essere usate per ostacolare i tentativi di cambiamento. Purtroppo, invece, si brandisce la storia dei videogiochi come una giustificazione sufficiente per giustificare lo status quo attuale, ritenuto da chi ne gode – il maschio bianco eterosessuale – il migliore dei mondi possibili. Sicché ogni tentativo di abbracciare tematiche “altre” viene bollato come un’abdicazione obtorto collo al political correctness; oppure, nel caso si abbia a che fare con la corrente soi-disante “progressista” della categoria, ci s’imbatte in maldestri tentativi di disinnescare la questione affermando che, beh, sostanzialmente non esiste: “Non importa chi s’impersona! Siamo tutti esseri umani, perciò i razzisti e i sessisti sono semmai coloro che vedono razzismo e sessismo ovunque! In ogni caso, si tratta solo di videogiochi, quindi perché prendersela?”
L’intelligenza di simili argomentazioni ricorda l’aneddoto secondo cui Maria Antonietta consigliò al popolo affamato di mangiare brioche; con la differenza che, mentre quest’ultima storia è inventata, nella realtà contemporanea esiste davvero un gruppo di persone che dall’alto dei loro privilegi bolla come pretestuose le rimostranze di chi è – non “si sente”, è – emarginato. Spesso, poi, la tenacia con cui questa gente rifiuta di riconoscere gli effetti che le questioni razziali e sessuali hanno sulla vita di chi non appartiene alla loro fascia demografica si spinge oltre il semplice cinismo o l’assenza di empatia (per quanto questi e altri elementi giochino un ruolo fondamentale nell’insieme delle dinamiche relazionali) e sconfina nel fanatismo; tant’è che quando si fa notare loro che il vero problema consiste nello stabilire arbitrariamente ciò che è “normale” per poi imporlo a terzi, si assiste a intemperate intrise di odio e vittimismo, minacce di violenza sessuale e perfino a “giochi” il cui scopo è prendere a pugni un critico (nello specifico, Anita Sarkeesian).
Si può pertanto dire che, se i sostenitori dell’attuale status quo il più delle volte non comprendono le ragioni che lo minacciano, basta però che essi avvertano la minaccia per reagire con furia cieca e spropositata. Serve qualche esempio? Quando gli sviluppatori di Baldur’s Gate: Siege of Dragonspear hanno incluso un personaggio transgender nel loro gioco, parte dell’utenza ha bombardato gli aggregatori di recensioni con voti bassi e commenti che sconfinavano nell’odio. Analogamente, quando qualcuno ha criticato l’illogicità della mise di Quiet (un cecchino femminile che va in giro indossando pantaloni in spandex e un bikini) in Metal Gear Solid V, da un lato il suo creatore è ricorso ad argomentazioni che sono un insulto all’intelligenza (e che stridono con alcune sue dichiarazioni precedenti), e dall’altro i fanboy si sono prodotti in piroette logiche tese a dimostrare che sono semmai i loro “nemici” ad essere dei censori vittoriani (oltreché, tanto per non sprecare una cartuccia dell’armamentario retorico sessista, dei repressi sessuali). Infine, quando qualcuno di non-bianco ha avuto l’ardire di notare che The Witcher 3 è sì un gioco bellissimo, ma offre la stessa diversità etnoculturale di un raduno di alpini amanti del country, la solita minoranza rumorosa – non gli sviluppatori, nota bene – hanno risposto con indignazione, affermando che, trattandosi di un’accurata rappresentazione dell’Europa medievale, non sarebbe stato ragionevole includervi persone di colore. Ora: pur essendo un medievalista (nel senso che un’università ha ritenuto ragionevole qualificarmi come tale), non ho mai saputo dell’esistenza di elfi o draghi nell’Europa del XIV secolo, mentre so per certo che nel medioevo – quello vero, dico – autori come Wolfram von Eschenbach e saghe come il ciclo arturiano non si ponevano grossi problemi a includere personaggi dalla pelle scura (se volete leggere più nel dettaglio la fallacia dell’argomentazione “storica”, rimando a questo articolo di Tanya).
Ma al di là di questo, quello che trovo incredibile non è tanto l’inconsistenza dell’obiezione (tra l’altro se ne trovano di più intelligenti), quanto il fatto che una semplice constatazione abbia fatto gridare alla lesa maestà, con conseguente levata di scudi da parte di di persone che evidentemente si sentono minacciate e/o hanno la coda di paglia.
Storie che fanno la Storia
Ma facciamo una pausa: e se avessero ragione loro? Non intendo nelle argomentazioni, bensì nell’assunto alla base della loro posizione: perché mai dovremmo preoccuparci di avere giochi in cui la diversità – di sesso, di razza e di orientamento sessuale – è rappresentata? Chissenefrega, no?
No. Partiamo dalla banale constatazione che le identità individuali e collettive sono formate da narrazioni: le culture si basano su miti fondatori, le religioni s’incentrano su storie, l’educazione si appoggia al trasferimento d’informazioni in forma narrata. Che si tratti di fiabe, favole, parabole religiose, tragedie greche, poemi, romanzi, musica lirica, serie tv o videogiochi, le forme di narrazione svolgono sempre una duplice funzione d’intrattenimento e di trasmissione critica dei valori. Da questo punto di vista il valore storico di capolavori come l’Eneide e l’Aleksandr Nevskij trascende quello artistico, essendo stati commissionati – rispettivamente – per giustificare il dominio imperiale Giulio-claudiano e per demonizzare il principale nemico dell’Unione Sovietica d’allora, la Germania; ambedue furono piuttosto efficaci, così come efficace fu Top Gun, la cui uscita nelle sale portò a un’impennata di arruolamenti nella marina militare americana come non se ne vedevano dai tempi di Pearl Harbor. Insomma: a prescindere da meriti artistici o sottotesti più o meno propagandistici, pressoché ogni forma narrativa partorita dall’uomo negli ultimi quattromila anni ha influenzato in qualche modo gli atteggiamenti del fruitore. Se così non fosse, il marketing come disciplina non esisterebbe, le commedie non ci divertirebbero, le avventure non ci farebbero tifare per l’eroe e potremmo farci beffe della nozione aristotelica della catarsi.
Ciò detto, se è vero che non esiste un rapporto diretto e immediato tra narrazioni e comportamento dei singoli individui (nessuna persona sana di mente può suggerire che giocare a Hitman o Battlefield possa trasformare le persone in assassini o membri delle Forze Speciali), è però vero che gli effetti di queste dinamiche comunicative s’intensificano proporzionalmente alla loro ripetizione corale (un fenomeno particolarmente evidente nelle pubblicità contemporanee, che spesso contengono piccole narrazioni); di conseguenza, quando determinati stereotipi vengono reiterati a più riprese da tutte le forme di media da cui ci abbeveriamo, le ripercussioni sulla psicologia degli utenti cominciano ad affiorare. Ecco perché bisogna sempre guardare ai modi e alla frequenza di rappresentazione della diversità nei media.
Se fin dall’infanzia ci viene inculcato che gli eroi sono esclusivamente maschi bianchi, che le donne ricoprono ruoli solo in funzione delle azioni dell’eroe (o come cadaveri, un concetto illustrato da Elisabeth Bronfen in Over Her Dead Body), che gli appartenenti alla comunità LGBTQ sono macchiette, che le persone di colore sono sidekick stereotipati o violenti antagonisti, ecco allora che almeno qualcuno di questi messaggi lascerà i segni del suo passaggio, con conseguenze tangibili sulla vita reale.
Queste dinamiche, che caratterizzano ogni aspetto del nostro rapporto con il mondo esterno, sono ancora più problematiche in ambito videoludico, dato che i giochi – a differenza di film e libri, che prevedono un fruitore passivo – necessitano di un utente partecipe, attivo e propenso a essere il protagonista; il coefficiente di immersività è di vitale importanza per gli autori, ed è strettamente correlato alla libertà d’azione: non sono Chris Redfield e Soap Mactavish a uccidere zombie e terroristi, bensì noi. Prova ne è che quando parliamo ad amici delle nostre gesta in questo o quel videogioco non usiamo mai la terza persona, ma sempre la prima.
Non è un gioco
Ora: siccome nessuna di queste argomentazioni è particolarmente difficile da comprendere o originale, come mai esiste ancora la difesa del “massì, è solo un gioco”, cioè la fuga dalla realtà? Una possibile risposta arriva dal sociologo Michael Kimmel: “Il privilegio è invisibile agli occhi di colui che lo ha”. In parole povere, ciò significa che mentre le persone sono coscienti e iperattente agli svantaggi di cui soffrono, per converso sono cieche e sorde rispetto quelli del prossimo. Pensate alla noncuranza con cui la maggioranza di noi considera le scale una soluzione architettonica come le altre e paragonatelo al punto di vista di un disabile, per cui sono un vero e proprio ostacolo: ebbene, in base allo stesso principio, se nasci bianco/maschio/etero la rappresentatività nei media non rappresenta un problema, in quanto tutti i tuoi eroi già ti assomigliano. Ciò ovviamente non significa che questa “insensibilità” dipenda necessariamente da malafede o razzismo: il privilegio è un costrutto storico e sociale, e come tale non rappresenta necessariamente un vulnus etico del singolo individuo. In tal senso, quando donne, persone di colore, disabili o appartenenti a vario titolo alla comunità LGBTQ chiedono una maggiore diversità non bisogna scorgervi intenti accusatori.
Tuttavia, nel momento in cui i privilegiati negano l’esistenza stessa del loro status, le conseguenze che può avere sul prossimo, e magari lottano tenacemente per preservarlo, allora le cose si fanno più complicate.
La ratio in sé è comprensibile: se per secoli ogni attenzione e beneficio sono andati a proprio vantaggio, perderne qualche pezzetto – anche se solo una percentuale infinitesimale – può sembrare un torto, così come lo può sembrare l’arricchimento altrui senza che vi sia un guadagno personale equivalente. È però fondamentale andare oltre questa percezione e questi istinti, poiché il graduale abbandono dei privilegi da parte delle classi dominanti è da sempre la base del contratto sociale che differenzia le società civilizzate da quelle filodarwiniste in cui vige la legge del più forte; opporvisi equivale ad appoggiare e rafforzare un’ingiustizia, e in quel caso c’è poco da meravigliarsi se si viene tacciati di sessismo o razzismo.
Ambedue discriminazioni che Tanya conosce bene: “Queste reazioni di stizza sono una manifestazione di white privilege, non c’è dubbio. Lo chiamo anche il “destino manifesto dei videogiocatori”: tutto ciò sui cui mettono gli occhi gli appartiene, e nessun altro deve azzardarsi a trarne giovamento. Lo vediamo anche nello sprezzo con cui considerano la definizione di gaming come un’attività divertente aperta a tutti, mentre per loro il target dovrebbe sempre essere il maschio bianco solitario; si tratta di un’ideologia antiquata, la cui obsolescenza è sempre più sotto gli occhi di tutti man mano che il mercato si satura di prodotti tutti uguali tra loro”.
Ecco perché movimenti come #gamergate, che si oppongono di fatto a diversità ed uguaglianza nel gaming, sono composti in stragrande maggioranza da maschi bianchi eterosessuali: storicamente sono loro i destinatari tradizionali dei videogiochi. Ed ecco perché trovo penoso il loro finto egualitarismo (“il colore della pelle non importa, purché sia bianco”) e contraddittorio, oltre che ridicolo, il pensiero secondo cui questioni simili “non importano”. Se così fosse, non dovrebbero essere loro i primi a non interessarsi alla faccenda e a non mettersi di traverso a qualsiasi modifica in tal senso? Certo che no, perché in cuor loro sanno – o perlomeno percepiscono – che importa, eccome. Per illustrare meglio l’impatto emotivo che può suscitare un gioco avente dei protagonisti coi quali ci si può identificare userò la mia stessa esperienza.
Piccolo mondo antico
Mi considero un videogiocatore incallito dal 1989; al contempo sono anche una persona di colore dal 1978 e, dal 1985, una persona di colore che vive in luoghi abitati in maggioranza da bianchi. Non dovrebbe stupire che questi ultimi due fattori abbiano influenzato la mia prospettiva sui videogiochi fin da quando accesi per la prima volta il Master System per giocare ad Alex Kidd e Golden Axe. Mi spiego meglio: i protagonisti di quei giochi, e dei tanti altri che ho amato in seguito, non mi assomigliavano per nulla, benché fossero stati realizzati in Asia. Al contrario, le software house giapponesi – Nintendo, Sega, Capcom, Konami, Square e mille altre – producevano invariabilmente giochi i cui eroi erano uguali in tutto e per tutto ai miei amici bianchi. Ammetto che all’epoca non ci facevo troppo caso, e comunque la ragione era commerciale: per tutti gli anni ‘80 e ‘90 gli Stati Uniti sono stati il primo mercato per i videogiochi.
Tuttavia, quando a partire dagli anni Zero le cose si sono spostate un po’ più verso est (per esempio con la serie degli Yakuza e Shenmue), non ho visto il cambiamento che pure sarebbe stato logico aspettarsi, e ancora oggi molte persone di colore credono che un protagonista caucasico sia la conditio sine qua non per riscuotere successo sui mercati occidentali. Perché? E perché si dà per scontato che asiatici, neri, mediorientali e donne debbano accettare supinamente di impersonare dei maschi bianchi? È così assurdo che si chieda una maggiore diversità?
Nel 2012 uscì Sleeping Dogs (United Front/Square Enix), un gioco in cui l’agente sino-americano Wei Shen (doppiato dall’attore coreano Will Yun Lee) torna a Hong Kong con lo scopo di infiltrarsi nelle Triadi. Essendo anch’io di origini asiatiche, e avendo vissuto la maggior parte della mia vita in Europa, il personaggio di Wei – la cui caratterizzazione ruota attorno al suo essere uno straniero in patria – ha sortito un effetto di immedesimazione totale col sottoscritto. L’alienazione dalla propria cultura d’origine è grossomodo la storia della mia vita, e ogni volta in cui qualcuno diceva a Shen che non può comprendere la Cina dato che per loro è un Occidentale, mi rivedevo mentre a Seoul i miei amici e parenti coreani ripetevano le stesse cose. Ho giocato a Sleeping Dogs alla veneranda età di 34 anni e in più di un’occasione mi sono trovato sull’orlo delle lacrime per aver trovato un esempio, all’interno del mio hobby preferito, che potessi finalmente ritenere profondamente “mio”. Non riesco a trovare paragoni perfettamente equivalenti per chi mi sta leggendo e perciò temo che l’aspetto emotivo sia difficile da cogliere, ma, procedendo per approssimazione, direi che è stata una sensazione paragonabile a quella che molti di voi (e in misura minore anch’io, pur non essendo italiano) hanno provato giocando ad Assassin’s Creed II.
Ecco perché non posso che scuotere la testa quando qualcuno sostiene che, alla fin della fiera, la rappresentazione delle diversità è irrilevante. Il gaming appartiene a tutti, e se donne, persone di colore e di qualsiasi orientamento sessuale chiedono una maggiore diversificazione, non li si può ignorare dicendo loro di mangiarsi una brioche.
Piccolo mondo moderno
Il problema a questo punto è evidente: esistono modi per correggere la rotta in tempi relativamente brevi? La soluzione proposta da alcuni – “chi si lamenta, faccia”, sostanzialmente – suona bene sulla carta, ma è superficiale, o quantomeno insufficiente. “L’idea che spetti solo a noi, gli esclusi, cambiare una situazione in cui siamo stati costretti trasuda malafede e ignora il fatto che il problema sta nel sistema. Senza contare che non tutti hanno le capacità o i mezzi per portare a un cambiamento dall’esterno; perciò è piuttosto all’interno dell’attuale industria che vanno ricercate le opportunità di cambiamento. A proposito, si potrebbe cominciare col gettare alle ortiche i pregiudizi sulla scarsa commerciabilità di prodotti con protagonisti di colore, dai temi legati al mondo lgbtc e via dicendo: guardiamo all’entusiasmo mostrato per Pantera Nera, o il successo riscosso da film come Frozen. Insomma, quello che voglio dire è: noi possiamo e vogliamo anche spingere per il cambiamento, ma perché sia efficace ciascuno deve fare la propria parte”.
Qualcosa che forse sta già succedendo: nel primo articolo che scrissi per Prismo lamentavo la straordinaria mancanza di tatto sociale nell’ultimo (allora) Battlefield; nel prossimo episodio della serie, invece, si potrà impersonare un soldato del reggimento degli Harlem Hellfighters ed Electronic Arts ha promesso una generale diversità nei suoi titoli, a partire dal recente Mirror’s Edge: Catalyst (un reboot di un titolo del 2008 in cui la protagonista di origini asiatiche è rimasta invariata). L’anno scorso, Life Is Strange ha offerto ai giocatori di vivere alcune esperienze dal punto di vista di una liceale e, contrariamente a quanto fu detto agli sviluppatori circa il loro precedente gioco, è stato un successo commerciale oltre che di critica; sempre più titoli AAA attualmente in sviluppo prevedono una protagonista femmina (Horizon: Zero Dawn) e diversi altri offriranno la possibilità di scegliere tra sessi, colore della pelle e orientamento sessuale (Mass Effect: Andromeda). Certo, il rischio che si scelga un protagonista “altro” in maniera superficiale – il cosiddetto tokenism – è sempre dietro l’angolo, ed è per questo che secondo Tanya “la diversità va ricercata a partire dai colloqui lavorativi fino a giungere alle posizioni dirigenziali”. Autenticità e correttezza di rappresentazione possono esistere solo coinvolgendo i diretti interessati, che peraltro già ci sono: “Sul mercato c’è un’enorme quantità di talento da cui attingere. Quando sono stata all’ultima GDC ho assistito a una tavola rotonda di sviluppatori di colore, e la sala era piena; inoltre c’erano donne, giovani e tante altre tipologie di persone che non si rispecchiano nella maggior parte dei prodotti attuali delle major e che già ora possono contribuire attivamente a migliorarli”.
È solo una questione di tempo, quindi? In una certa misura, sì, e lo dimostra il fatto stesso che oggi si discuta di problemi che fino a quindici o vent’anni fa non erano considerati tali. Paradossalmente, che nei commenti alle recensioni e alle anteprime di titoli definibili come relativamente progressisti ci s’imbatta ancora regolarmente in commenti astiosi che denunciano la “political correctness” di tali scelte è un buon segno, in quanto la loro stessa esistenza denota il cambiamento in corso. E per quanto non si possa certo dire che i problemi di rappresentazione e diversità siano stati risolti, per la prima volta in tanti anni ci sono segni tangibili di speranza.
Oltre alle attività già elencate, Tanya scrive, lavora per GaymerX e pubblica il podcast settimanale “Fresh out of Tokens“. Se volete darle una mano nella sua impresa di “rendersi superflua, perché un giorno non sarà più necessario combattere per una maggore diversità”, potete supportare Tanya o la sua iniziativa #INeedDiverseGames
Paul Engelhard nasce a Seoul nel 1978, e cresce tra Corea, Germania e Milano. Residente a Bonn, quando non parla di videogiochi cerca di finire la sua dissertazione sul Boccaccio.