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Tra macchiette stereotipate, personaggi patetici e stanca retorica ozpetekiana, cinema e TV di casa nostra ancora non sono capaci di raccontare in maniera dignitosa sessualità e identità di genere.

Mentre il nostro Paese si sconvolge a ondate più o meno regolari per le battute transfobiche di Beppe Grillo Anthony Jeselnik, per la stand up comedy delle sentinelle in piedi, per le pubblicazioni di Costanza Miriano o per l’inconsistenza della legge Cirinnà, in pochi si soffermano su una questione altrettanto grave: la cultura mainstream italiana fa ancora fatica a raccontare sessualità e identità di genere in maniera dignitosa, e finché non ne riscriviamo le strutture di rappresentazione sarà difficile costruire un nuovo tipo di sensibilità.

Ogni minoranza ha bisogno di un quadro fenomenico di riferimento: simboli, gesti, persone che incarnino una precisa battaglia e ne incanalino il significato. Mentre nel resto del mondo occidentale possiamo contare ad esempio su un bel numero di cantanti, attori, presentatori dichiaratamente omosessuali, in Italia tendiamo ancora a spiare la realtà dall’anta semiaperta del nostro armadio. Se non contiamo Tiziano Ferro, che qualche anno fa ha deciso di avanzare un timido coming out attraverso una lunga lettera al padre in forma di libro (Trent’anni e una chiacchierata con papà) e qualche host televisivo (uomo) apertamente gay, il resto dello showbusiness nostrano rimane piuttosto reticente riguardo ai temi di sessualità e identità di genere. Certo, esaminare nel dettaglio ogni ambito in cui questa sorta di omertà cala il suo velo sarebbe un lavoro complesso, quindi per ora mi concentrerò sul modo in cui vengono dipinti i personaggi omosessuali nel nostro cinema mainstream.

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‘Che sputtanamento...’

I gay nel cinema italiano sono sempre stati una parentesi, inizialmente presenti come “ragazzi di vita” o figure dall’impatto ambiguo, scandaloso. Erano gli anni Sessanta ed era ovvio che la rappresentazione dell’omosessualità fosse ancora molto influenzata dalle storie di cronaca che comparivano con una certa costanza sui giornali, dal caso dei “Balletti Verdi” di Brescia alla morte di Pier Paolo Pasolini nel 1975.

Non che negli anni Ottanta le cose siano andate meglio: dallo scandalo si è passati alla macchietta, dallo scalpore alla risatina. In Vacanze di Natale ’83, Christian De Sica nei panni di Roberto Covelli viene beccato dai genitori a letto con Leonardo Zartolin, il quale si limita a ripetere “che sputtanamento” per tutta la scena. Risatina. Per non togliere nulla alla mascolinità di Roberto, i fratelli Vanzina tengono a precisare come Covelli non sia proprio “frocio,” ma “moderno”, bisex: un giorno “castiga” la gnocca americana, il giorno dopo si trova casualmente a letto con l’insegnante di sci. Il qui pro quo omosex viene giocato tra le varie mosse di sceneggiatura, è un colpo di scena divertente, un diversivo ornamentale al pari delle corna alla moglie o del figlio ciccione. Ok, erano i Vanzina, erano gli anni Ottanta, direte voi. Vero, e non è nemmeno il peggio che potesse succedere quanto a rappresentazione dell’omo, anzi. In un certo senso l’impianto macchiettistico dell’intera costruzione narrativa dei Vanzina si mangia il gay e lo butta nel calderone delle gag caciottare di cui sono maestri, tanto che la “modernità” del figlio viene quasi immediatamente diluita in un’accozzaglia di frecciatine interne al nucleo familiare tipo “Ma vedi come vai in giro? Mi sembri uno spaventapasseri…” “E tu un cassamortaro!”.

In quegli anni probabilmente l’unico modo per presentare personaggi omosessuali senza dare contorni drammatici alla faccenda era inserirli in una precisa costruzione stereotipica: il povero ma affascinante, l’arricchito, l’antipatica, la signora in cerca di avventure, il viveur “moderno” che fa un po’ di là e un po’ di qua, Guido Nicheli che fa Guido Nicheli. Il problema è che la nostra narrazione sembra non aver mai smesso di omaggiare il Modello Vanzina e continua a raccontare gli omosessuali in quanto detentori di un preciso ruolo: l’omosessuale. Vi potrà sembrare un’iperbole, un’esagerazione, una mania di persecuzione, ma il vero problema della rappresentazione cinematografica dei gay è che resta succube di una tradizione che non va oltre alla parentesi, o se preferite non apre l’anta dell’armadio.

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Il trailer di Perfetti Sconosciuti.

Un esempio piuttosto calzante sta in un film dello scorso anno, vincitore del David di Donatello, su cui la critica ha fatto bukkake e che se non ricordo male ha avuto anche un discreto successo di pubblico: Perfetti Sconosciuti. La trama è costruita attorno a una premessa drammaturgica non male: le tre coppie di amici a tavola e l’amico “single” si auto-sfidano a leggere ad alta voce ogni messaggio che arriva sui telefonini, a cui è vietato togliere la suoneria. Adesso inizia la parte con lo spoiler quindi vi prego di aver visto il film o di saltare il paragrafo.

Immune ai folti network di corna inter ed extra coppie che iniziano a turbare i partecipanti, l’amico single sembra passarsela bene, FIN QUANDO un plot twist che non ricordo bene rivela che la fidanzata di Peppe – che lui sosteneva fosse a casa malata – è in realtà un fidanzato. Ora. A parte avermi fatto credere che avrei visto una commedia, quando in realtà ho visto un classico film con Margherita Buy madre divorziata in preda all’inquietudine che cerca di rialzarsi con dignità dopo un momento difficile (e in questo film nemmeno c’è Margherita Buy, quindi immaginatevi quanto si percepisse la densità del suo spirito nell’aria); a parte la violenza che mi tocca reprimere per non andare a prendere a casa Simona Santoni di Panorama e costringerla a ingoiare la sceneggiatura di Carnage, di cui secondo lei questo film è “un emulo innovativo”; a parte ‘ste cazzate che onestamente mi aspetto dal connubio tra buon cinema e giornalismo di costume italiano, mi ha fatto rimanere particolarmente interdetta l’utilizzo e lo sviluppo della gag “gay occulto” all’interno della trama.

Interpretato da Giuseppe Battiston, Peppe ha tipo quarant’anni, vede gli amici ogni settimana e pare ne accetti anche uno, tra loro, che mostra evidenti tendenze estremodestrorse: il suo migliore amico. In quarant’anni Peppe – forse spaventato dalle potenziali manganellate che l’amico del cuore gli avrebbe quasi certamente sferzato nel caso in cui le tendenze occulte dei due si fossero infine manifestate – non aveva mai rivelato a nessuno dei suoi cari che gli piacevano i maschi. La cosa che mi lascia ancora più interdetta, però, è la bidimensionalità assoluta di Peppe: mentre gli amici hanno quantomeno un tessuto caratteriale parzialmente sviluppato, intrecci plautini che si risolvono in giochi psicologici e in un’evoluzione orizzontale del personaggio, l’unico problema del gay è che è gay.

A prima vista questo outing macchiettistico può sembrare assurdo in un film vincitore del David di Donatello: ma basta fare una rapida panoramica sui personaggi omosessuali ritratti dalle nostre serie TV o dai nostri film di successo per rendersi conto che probabilmente il fatto che Battiston non parlasse con la R moscia e non avesse un orecchino strano e un foulard era già sufficientemente avanguardistico rispetto ad altre, ben più desolanti, figure.

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Il personaggio di Orlando in Io che amo solo te, 2015.

Prendiamo ad esempio Io che amo solo Te, un film del 2015 che mi è malauguratamente capitato di guardare in uno di quei momenti in cui la botta colpisce talmente forte che non sei in grado di raggiungere il telecomando. Il film ruota intorno alle storie parallele di una giovane coppia interpretata da Laura Chiatti e Riccardo Scamarcio (garanzia di qualità, lo so) e della madre di lei e il padre di lui, che erano stati amanti prima di concepire i figli con terzi. Per la salute di tutti, tralascio di soffermarmi sulla qualità generale del prodotto, talmente elevata che del film esiste addirittura un sequel. Preferirei concentrarmi sul personaggio gay del film: Orlando, il fratello di Scamarcio. Orlando si presenta al matrimonio del fratello adornato da un’avvenente Eva Riccobono, la sua donna-schermo. Durante il ricevimento, a Orlando basta un gioco di sguardi con un avvenente invitato per farci sesso nel bagno pochi istanti più tardi, per poi trovare che il discorso di congratulazioni sia il momento più propizio per sbattere il suo coming out sulle facce dei parenti. Nient’altro si sa del fratello se non che è gay, che non si era preparato un discorso e che è amico di Eva Riccobono, resa lesbica dagli sceneggiatori credo unicamente per scatenare fantasie quando la si sente pronunciare a bocca piena le parole “mi piace enormemente la figa”.

Immagino che sia ancora più complicato, per i nostri sceneggiatori, mettere in scena una storia lesbo senza cadere in giochetti soft-porno come quello di cui sopra (il soft-porno vero e proprio modello La Vie D’Adele possiamo pure sognarcelo). Immagino sia complicatissimo fare in modo che una parte dell’audience si interessi alla storia anziché all’erotismo sprigionato da una fantasia erotica fatta film. Probabilmente è per ovviare a questa necessità che gli autori di Io e Lei hanno scelto Sabrina Ferilli e Margherita Buy come protagoniste di questo passionale amore lesbo.

La passione è intesa come lo struggimento indefesso, frenetico di Margherita Buy con Margherita Buy in Margherita Buy. Che ci sia un lui, una lei, una pentola, una animale da compagnia, un camper, lo struggimento di Margherita Buy si manterrà fedele a se stesso. Non saprei se attribuirlo a questo suo solipsismo o ad un approccio susannatamarico alla sceneggiatura, ma c’è più alchimia tra me e la mia lavastoviglie che tra la Ferilli e la Buy. Talmente tanta è l’intesa tra queste due donne che la Buy si vergogna di Sabrina Ferilli, non riesce a pronunciare la parola “lesbica” e a un certo punto va con un uomo. C’è una sorta di velo perbenista che permea le storie gay del cinema italiano e le condanna a colori pastello e al divieto di creare personaggi a tre dimensioni. Questo appiattimento stereotipico è ben rappresentato dal tatuaggio sulla mano di Sabrina: due simboli delle donne intrecciati, disegnati a penna. Perché.

Tatuaggetto.

Nonostante anche in Italia ci siano parecchi autori e sceneggiatori dichiaratamente gay, il target dei prodotti di intrattenimento di massa qui da noi è ancora a maggioranza eterosessuale. È triste pensare che sia questo il motivo per cui alcuni degli sceneggiatori di cui sopra si vedano costretti, o peggio si costringano da soli a trattare i personaggi omo come fossero visti da un occhio che li conosce soltanto a grandi linee, a cui non importa granché approfondire. In fondo, mantenere una categoria umana confinata in uno stereotipo è un modo come un altro per contenerla, creando una sorta di apartheid culturale tra le storie degne di essere raccontate e le storie di background che fanno colore. E i froci un po’ di colore lo portano sempre – motivo per cui, mentre a livello narrativo siamo immobili, lo stereotipo gay, quasi avesse una vita propria, si è impadronito della televisione kitsch, trova nelle trasmissioni-spazzatura un microclima perfetto per buttare qualche radice. Questo è il motivo per cui paradossalmente le stesse signore del Family Day non battono ciglio se a Uomini e Donne c’è il trono gay.

In generale, per quanto siano comunque più fortunati rispetto alle giovani lesbiche che hanno zero possibilità di trovare punti di riferimento nella nostra cultura pop, anche i ragazzi gay italiani sono costretti a riconoscersi in produzioni estere, perlopiù statunitensi, perché qui siamo ancora lontanissimi dal saperli rappresentare. Far dipendere questo scarto da un discorso di semplice “dominazione culturale” sarebbe riduttivo e miope, dal momento che in altri ambiti quantomeno abbiamo tentato di star dietro all’evoluzione della cultura globale, mentre per quanto riguarda la sceneggiatura c’è stata un’evidente interruzione della crescita.

In musica per esempio non è così, o almeno non completamente: capita che i ragazzini si riconoscano più in artisti italiani che stranieri (pensiamo al rap) e in generale la rilevanza di un prodotto musicale è superiore rispetto a quella di un prodotto cinematografico o in una serie TV.

Più o meno lo stesso sconcerto descritto da Philip Hensher in un vecchio articolo dell’Independent quando, riferendosi agli Stati Uniti degli anni Settanta/Ottanta, dipinge un panorama culturale colposamente limitato e miope. Per la cultura pop d’oltreoceano, l’occasione per aprire gli occhi e imparare a raccontare le storie dei personaggi gay, anziché trattarli come comparse, è stata la presa di coscienza di un fenomeno di una portata culturale enorme come la diffusione dell’AIDS: paradossalmente, nello stesso momento in cui il mondo prendeva coscienza dell’epidemia, la cultura a porte chiuse della comunità gay aveva una chance di uscire dall’armadio e dalle dark room cui era stata confinata fino ad allora. Questo succedeva principalmente perché in quel periodo era impossibile non parlare di AIDS, e parlandone si è sviluppata una certa sensibilità nell’affrontare un argomento (certo, ovviamente controbilanciata dai noti allarmismi e dalle costruzioni iperboliche dei conservatori) strettamente connesso a una comunità.

La riduzione stereotipica e la drammatizzazione forzosa delle storie omo è un espediente per rimarcare una distanza tra la narrazione convenzionale e quella dedicata alle vite di ‘persone particolari’.

Da quel momento, che definirei il momento Philadelphia, in poi, gli sceneggiatori americani hanno sviluppato nuove chiavi narrative per trattare le storie omo, i cui protagonisti erano dovuti passare per una sorta di sacrificio cristiano di massa per potersi emancipare dall’apparato stereotipico che li aveva sempre accompagnati e, come piccole farfalline gay, potevano finalmente completare il processo di trasformazione da burattino a bambino vero.

Gli scrittori statunitensi sono decisamente abili a cogliere la contemporaneità, e in quel frangente seppero analizzare e ritrarre una condizione sociale e raccontarla sotto forma di nuovi modelli e nuovi conflitti, cosa che poi non smisero di fare. Da noi questo passaggio non è avvenuto: quando per miracolo esce un film decente con personaggi ben scritti, come nel caso di Viola Di Mare (attenzione spoiler), la storia finisce in maniera tragica – in questo caso con la morte.

Più o meno stessa solfa per la retorica del dramma ozpetekiano che, alla lunga, diventa anch’essa nociva. Come la riduzione stereotipica, anche la drammatizzazione forzosa delle storie omo è un espediente comodo per allontanarsi dal descrivere una norma e rimarcare una distanza tra la narrazione convenzionale e quella dedicata alle vite di “persone particolari”. In questo, a ben guardare, si potrebbe leggere anche una certa tendenza al pietismo, che suppongo sia l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno. Riuscire a far passare una storia soltanto se il protagonista gay è malato, sventurato, un povero cristo, è un altro modo per denormalizzare la categoria.

Negli Stati Uniti periodo post-Philadelphia il problema era riuscire a spingere le storie a tematica omo fuori dal recinto del pietismo, aprire la narrazione a una dinamica ottimistica fino ad allora appannaggio delle commedie romantiche Lui-Lei. Nel 1997 negli Stati Uniti esce In And Out, un netto alleggerimento di toni per cui finalmente agli omosessuali è concesso di essere felici sul grande schermo. Da noi le opzioni sono ancora macchietta, morto o Margherita Buy. Insomma, è abbastanza ovvio che facciamo fatica a identificarci nei personaggi gay del cinema italiano: è un po’ come come chiedere ai ragazzini di andare ai concerti di Ron anziché a quelli di Ghali. E perpetuare questo modello statico, ancora legato a schemi narrativi che altrove hanno iniziato a puzzare di muffa un paio di generazioni fa, non solo è ingiusto nei confronti degli spettatori, ma denota una pigrizia controproducente per la nostra produzione culturale, che se non ricomincia ad aderire all’attualità è destinata a collassare.

L’attività artistica e intellettuale è sempre stata la prima linea per le lotte di inclusione: i nostri scrittori, musicisti, attori, sceneggiatori dovrebbero ritrarre la contemporaneità con le giuste parole e immagini.

Assieme al cinema, di recente anche le serie televisive hanno dato modo di sviluppare narrazioni stratificate di personaggi gay: negli Stati Uniti, dopo la svolta-Philadelphia, la rivoluzione narrativa è passata prima per Friends, che nel 1996 manda in onda l’episodio “The One with the Lesbian Wedding”, in cui l’ex moglie di Ross sposa la compagna, e nel 1997 arriva il coming out (prima della persona e poi del personaggio) di Ellen Degeneres. Da quel momento, la timeline delle grosse produzioni che hanno influenzato il modo di raccontare i personaggi gay è piena di altre piccole rivoluzioni: nel 1998 Will & Grace, nel 2000 Queer As Folk, nel 2004 The L Word, nel 2009 Glee e Modern Family e nel 2014 Transparent, tutte serie in cui l’orientamento sessuale o l’identità di genere dei protagonisti non sono più l’unico fulcro attorno al quale si sviluppano storie e personalità e al quadro si aggiungono sempre più sfaccettature. Quel muro che confinava i personaggi omo o transessuali è stato progressivamente scalfito, in alcuni casi abbattuto.

Qui da noi la produzione culturale sembra soffrire di una sorta di lag generazionale. In questo fuso orario vivono anche le serie TV, nonostante c’è da ammettere che in quel territorio – a prescindere dai grossi limiti della nostra fiction – iniziano a emergere personaggi omosessuali la cui storia (incredibile!) astrae dal loro orientamento sessuale. In Tutti Pazzi per Amore c’è una ragazza lesbica che stranamente non prova nemmeno un briciolo di attrazione per il suo BFF Emilio Solfrizzi e ha una compagna stabile, c’è pure un ex marito diventato gay, anche se poi non ho capito se cambia idea o no. Lo scorso venerdì è andato in onda Amore Pensaci Tu, un rifacimento di una serie australiana sui padri, in cui c’è pure una coppia gay (una coppia di zii gay, ad essere precisi). Di passi in avanti ne facciamo anche noi, certo: di fatto al momento ci stiamo allineando con gli Stati Uniti di una ventina di anni fa.

Peccato che la maggior parte delle storie scritte in Italia siano ancora influenzate da un approccio passatista alla narrazione, e questo non accade soltanto nei riguardi della comunità LGBTQ. La nostra produzione culturale soffre, in linea di massima, di un mancato ricambio generazionale: in Italia gli sceneggiatori sono quasi tutti quaranta/cinquantenni che scrivono per un pubblico di quaranta/cinquantenni, ed è impensabile che questo non si rifletta sui loro personaggi e sul processo di riconoscimento necessario allo sviluppo di una nuova sensibilità. L’idea di ottenere una normalizzazione a partire dalle battaglie sui diritti civili in Italia è ancora una chimera – d’altronde la legge è espressione di una propensione collettiva che attinge indubbiamente anche da input culturali, quindi bisogna quantomeno lavorare su due fronti. Storicamente, l’attività artistica e intellettuale è sempre stata la prima linea per le lotte di inclusione: per questo sarebbe bene che i nostri scrittori, musicisti, attori, sceneggiatori si impegnassero a ritrarre la contemporaneità con le giuste parole, le giuste immagini e i giusti strumenti. E questo non vale soltanto per le tematiche di cui abbiamo parlato finora, che sono paradigmatiche di mancanze più sostanziali e diffuse. Se non dovesse succedere, possiamo rassegnarci all’idea di vivere in ritardo di almeno vent’anni rispetto a gran parte delle nazioni con cui pretendiamo di confrontarci.

Virginia W. Ricci
Editor STAIZITTAMAG. Ha scritto cose per VICE, Noisey, Rolling Stone e fatto altre cose per la TV.

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