Il successo di Stranger Things dimostra che affidandosi alla nostalgia difficilmente si sbaglia.
“Il segreto della creatività è saper nascondere le proprie fonti” è una frase, spesso attribuita ad Albert Einstein, che probabilmente Albert Einstein non ha mai pronunciato. È un motto arguto che, nel Ventesimo Secolo, è passato di mano in mano, e coloro che se ne sono appropriati (Coco Chanel? Charles Moore? Conan O’Brien?) sono stati così efficienti nell’occultare le proprie fonti che nessuno sa per certo chi sia stato, per primo, a usare queste parole.
Indiscutibilmente, nel corso della storia, questa tendenza è stata invertita con risultati di successo – e l’esempio contemporaneo più eclatante è rappresentato da Stranger Things, quella serie in otto episodi che avete potuto testare di persona o che, in alternativa, i vostri amici non avranno esitato a descrivervi per filo e per segno. “Hai visto le luci di Natale che scandiscono il mio nome? Dicono Ernesto. E-R-N-E-S-T-O.” “Il mio carlino interpreta tutti i personaggi di Stranger Things.” “Guarda, mi sono fatto l’immagine di copertina à la Stephen King.” “Quanto ti sei immedesimato in Barb? Quanto è figa Barb? Chi è Barb? B-A-R-B. Guardalo lì, il suo nome impresso per i posteri nelle gif del mondo.” Ah, Stranger Things, sono trascorsi due mesi, ma le ferite sono ancora aperte.
I Fratelli Duffer, che la serie se la sono inventata, sono la prova vivente che il segreto della creatività, a volte, è citare moltissime fonti. Infatti, come è stato detto in praticamente ogni articolo da 15000 battute, Stranger Things è un mosaico di storie e immagini che abbiamo già vissuto in altri film, libri, videogiochi, con una netta predilezione per gli anni Ottanta. Stand by Me, E.T., La cosa, Alien. Una summa così fedele alla linea che tutti gli ‘Steve’ di turno (Spielberg e King) hanno buttato le braccia al cielo nel complimentarsi. E, in effetti, per chi non avesse visto la serie, la trama stessa è una enorme spia di segnalazione: nell’Indiana degli anni Ottanta scompare un dodicenne. Presenze aliene? Tre ragazzini, un’adolescente coi poteri, uno sceriffo scaltro e il cast dell’intera produzione letteraria di Stephen King indagano. Per non farsi mancare nulla, ci si mette persino la font dei suoi romanzi.
Nel guardare con occhi sognanti al tipo di narrativa degli anni della propria formazione, i creatori dello show sottopongono parte del loro pubblico a un trattamento particolare. Che, dice Vox, è quello di far rivivere le emozioni che tutti abbiamo provato guardando quella specifica selezione di film, venti o trent’anni fa. In pratica, la madeleine di Stranger Things non è una particolare sequenza che omaggia il passato, ma è l’intero apparato che i Duffer hanno costruito, rifacendosi agli anni di gloria degli Spielberg e dei Carpenter: le citazioni non servono a far procedere il racconto, come farebbero altrove (il racconto, infatti, è interamente fatto di citazioni), ma servono a innescare in noi una serie di emozioni che associamo a un immaginario cinematografico molto familiare.
Fino a qui tutto bene. Tuttavia, nella candida devozione al materiale che li ha ispirati, i due fratelli fanno una cosa interessante: al contrario di Einstein, loro ci tengono ad ammettere apertamente i loro omaggi.
Premettiamo che l’amore citazionista non è proprietà privata dei Fratelli Duffer: può sembrare frustrante, e lo è, ma la chiave di un lavoro collaborativo come il cinema è citarsi addosso. Ogni regista che non sia un animatore che lavora da solo e che voglia illustrare ai propri colleghi i risultati da ottenere con una determinata scena, si nutre di esempi già realizzati. Poi c’è chi decide di svelare le proprie citazioni: Quentin Tarantino ha fatto del citazionismo di nicchia il proprio marchio registrato, mentre Brian De Palma si è specializzato nel riciclaggio di scene iconiche per dar loro nuovi significati. Ma il loro materiale di partenza erano film prodotti venti, trenta, sessant’anni prima. Cosa succede quando è davvero troppo presto per citare? Quando i Duffer si ispirano alle immagini di un film di tre anni fa di Jonathan Glazer, e quando ammettono che “Silent Hill è la citazione che tutti hanno saputo individuare, perché è la meno sottile, con il Sottosopra nebbioso, e la foresta che sgocciola.” E quando, poi, parlano di Dark Souls come dell’universo che volevano ricreare? Quando gli esempi sono vicini nel tempo, ha senso parlare di “omaggio”?
Trova le differenze
Sembra chiaro che, in Stranger Things, il citazionismo che funziona è quello delle immagini rubate al passato, piuttosto che quello relativo al presente. In un mondo fermo a trent’anni fa, le citazioni del presente stonano. Non solo la distanza nel tempo aiuta a ingrossare la linea di demarcazione tra “arte” e “fanfiction”, ma le citazioni anni Ottanta dei Duffer hanno un effetto proprio in virtù del fatto che sono sedimentate nel vissuto dello spettatore, piuttosto che nei suoi ricordi recenti. C’è, poi, da considerare il coefficiente di nostalgia, che qui chiameremo :’-)n
Soprattutto nel cinema di genere, e soprattutto nella fantascienza, :’-)n è un elemento importante, se non cruciale. Non lo è solo per il pubblico, ma ancor più per i cineasti. Se così non fosse, i più grandi successi cinematografici della fantascienza degli ultimi quarant’anni potrebbero non esistere. Guerre Stellari, d’altronde, è nato come una fanfiction di Flash Gordon per la quale George Lucas non era riuscito a comprare i diritti, e Dan O’Bannon, co-ideatore e sceneggiatore di Alien, diceva delle influenze del passato sulla sua creatura “non è che abbia rubato Alien da qualcuno, l’ho rubato da tutti”.
Il coefficiente :’-)n ha alimentato non soltanto il successo, ma soprattutto il marketing di un certo tipo di fantascienza (e non solo) dell’ultimo decennio. Per esempio:
L’amblinificazione dei prodotti, ovvero “tutto diventa come un film della Amblin di Spielberg”, non deriva solo dal fatto che Steven Spielberg ha divorato un’intera parte di mercato, e le sue impronte digitali figurano su metà dei quattro esempi di cui sopra (quanto alla sua influenza… Va da sé che c’è un piccolo Spielberg in ognuno dei quattro film). Ciò che colpisce, in queste scelte, è che l’estetica non sia un pastiche di influenze del passato e del presente, ma sia un completo rimando a estetica e contenuti di trent’anni fa.
L’amblinificazione riguarda soltanto una fascia ristretta di cinema che si vuole vendere. Ma se vogliamo guardare a un altro tipo di marketing che si appropria con disinvoltura degli ammiccamenti a un pubblico che è cresciuto prima di internet, non dobbiamo guardare lontano. Prendiamo Halt and Catch Fire, serie tv sulla nascita del personal computer, con le sue menzioni disinvolte di nozioni tecnologiche pre-internet e di “una nuova console: il Nintendo”, quelle Easter egg che carezzano i ventricoli a te, a te, e anche a te, che hai letto fin qui. La serie può essere vista come un grande inside joke per iniziati, o come narrativa storica per chiunque. Il discrimine sta nel cogliere certi riferimenti o meno, e il loro marketing conosce bene i propri, proverbiali, polli.
Ciò che è ovvio è che il marketing non deriva solamente dalle “Multinazionali del male clikka qui per votare contro!!1” – insomma, dagli organismi intenzionati a lucrare su un prodotto – ma proviene innanzitutto dagli stessi fan.
Per esempio Steelberg, artista rétro che deve il suo successo all’Instagram del 2015, ma che trasforma ogni locandina di film contemporaneo nella custodia ammaccata di una videocassetta. I giorni della VHS stanno tornando, gli artisti cresciuti in quell’epoca hanno ora una voce in capitolo in fatto d’arte e di produzione di intrattenimento, e le nuove generazioni sono pronte ad assorbire quell’estetica.
Tra amblinificazione e gusto del vintage, c’è chi ha pensato proprio a tutto. Al crocevia tra queste due tendenze va infatti a situarsi Ready Player One, originariamente romanzo d’esordio di Ernest Cline, che, dal 2018, sarà anche il nuovo film di un personaggio ricorrente nella nostra storia: Steven Spielberg. Ernest Cline ci fa da boss finale perché è un grandissimo appassionato, nonché conoscitore enciclopedico, della cultura pop anni Ottanta. Raggiunta la fama con la sceneggiatura di un film sul pellegrinaggio di un gruppo di fan verso la casa di George Lucas (Fanboys), Cline si è volto alla letteratura. Ready Player One è ambientato in un mondo distopico in cui la maggior parte delle persone trascorre tutto il proprio tempo in un MMORPG.
Il romanzo porta il concetto di citazione a un livello completamente diverso. Citare non significa più, come nel caso dei Fratelli Duffer, omaggiare – strizzando l’occhio al trentenne cultore degli anni Ottanta, per poi voltarsi e tendere la mano all’abbonato Netflix nato nel 1998 che anagraficamente non ha avuto occasione di emozionarsi in tempo reale davanti a Stand by Me, ma che può comunque sentirsi coccolato dal cameratismo dei protagonisti di Stranger Things (alla cui base c’è la stessa formula usata da Stephen King nel 1982).
Citare, qui, significa citare come in un saggio, note a piè di pagina e tutto, perché Ernest Cline non si limita a strizzare l’occhio a War Games, no: Ernest Cline riproduce letteralmente War Games scena per scena, quando il protagonista del libro si trova a dover recitarne tutti i dialoghi per completare uno degli obiettivi del gioco.
Ma c’è di più: l’intera società virtuale in Ready Player One è stata creata da un uomo che era stato ragazzino negli anni Ottanta, e che omaggiava i ricordi della sua infanzia con il lavoro della sua vita.
L’adattamento cinematografico che ci attende è interessante sotto molti aspetti, e non soltanto perché le battaglie rappresentate nel romanzo si prestano a essere visivamente innovative, o perché potrebbe essere la prima occasione in cui il cinema mostra un mondo virtuale tanto esteso. Steven Spielberg, uno delle più grandi influenze del libro, si è fatto influenzare dal libro per trarne un film. Una specie di matrioska di persone che si citano a vicenda, il punto in cui due generazioni coesistono in perfetta osmosi: quella degli ispiratori, e quella degli ispirati. La conclusione del cerchio del nostalgismo anni Ottanta. Lo zenit della citazione consapevole. La pace mentale per Barb. BOOM.
Nata a Bergamo, non è la sua omonima Google vittima del raggiro di una santona. Ha tradotto e collaborato per una serie di case editrici e riviste italiane, sulle quali ha scritto di cinema, videogiochi, e pistoleri memorabili.