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L’ufficio non esiste più, la città intera l'ha sostituito. Nell’era dei lavoratori nomadi, ogni luogo è un luogo di lavoro, basta che ci sia il Wi-Fi.

L’uso che facciamo dello smartphone rivela come il lavoro cognitivo sia sgorgato fuori dal suo ambiente naturale – l’ufficio – diventando una presenza ininterrotta nelle nostre vite. Un lavoro che esiste sia come attualità (la mail a cui stiamo rispondendo), sia come potenzialità (la notifica rossa delle mail non ancora lette). Certo, ci sono stati precedenti, come il computer portatile e, prima ancora, quello fisso; persino con il telefono, lavorare fuori dall’ufficio era possibile. Eppure lo smartphone rappresenta un cambiamento qualitativo in grado di radicalizzare la mobilità e l’ubiquità del lavoro.

Gli apparecchi digitali non si sono limitati soltanto a portare il lavoro nelle nostre case, borse e tasche, ma hanno anche moltiplicato il tipo di compiti che svolgiamo: facciamo marketing e PR per noi stessi e per i nostri prodotti, amministriamo la nostra agenda settimanale o mensile, organizziamo riunioni, impostiamo password, e così via. Dopo aver svolto questo lavoro periferico, il nostro vero lavoro può finalmente cominciare. Come dice Ian Bogost, siamo hyperemployed, iperimpiegati.

Recentemente il Partito Socialista francese ha provato a combattere “l’esaurimento digitale” (digital burnout) causato dagli straordinari ed esacerbato dal lavoro periferico. L’idea è quella di dare ai lavoratori il diritto di non accedere alla mail aziendale dopo la fine degli orari di  ufficio. Secondo il deputato socialista Benoît Hamon, “apparentemente gli impiegati lasciano l’ufficio, ma non lasciano mai il lavoro. Rimangono attaccati a questa sorta di guinzaglio elettronico, come dei cani”. Per quanto sia un ottimo punto d’inizio per una conversazione sull’argomento, la legge sul “diritto a disconettersi” non affronta il fatto che i lavoratori d’oggi facciano gli straordinari spesso volontariamente ma anche inevitabilmente, poiché non sembrano esserci vie d’uscita dal lavoro periferico. Essendo il lavoro sia internalizzato che generalizzato, ogni tentativo di regulation che non sia anticipato da un profondo cambiamento culturale, è destinato a fallire.

Il lavoro ha superato molti confini: quello spaziale (dove lavoriamo), quello professionale (il tipo di lavoro che svolgiamo), e quello imperativo (per chi lavoriamo). In questa sede mi limiterò all’aspetto spaziale, con una serie di domande: l’uso di dispositivi digitali come influenza lo spazio attorno ai lavoratori nomadi? Come hanno fatto i cafè, le stanze di hotel, i mezzi di trasporto, le librerie a diventare luoghi informali di lavoro? E come il rapporto con laptop, tablet e telefonini influenza il nostro modo di viverli? Questi code/spaces, per usare la definizione di Rob Kitchin e Martin Dodge, hanno le stesse funzioni dei nostri uffici? Negli anni Sessanta Mario Tronti si rese conto che la fabbrica stava invadendo la città. Oggi lo stesso sta avvenendo con l’ufficio.

Iniziamo da una considerazione ovvia: i luoghi del lavoro informale sono innanzitutto fornitori. Essi offrono i servizi primari di cui ha bisogno un lavoratore nomade cognitivo: elettricità e connessione internet. Recatevi in un bar e vedrete persone scandagliare l’ambiente alla ricerca della password del Wi-Fi. Entrate in un aeroporto e vedrete passeggeri collegarsi alla rete elettrica attraverso il cordone ombelicale dei loro caricatori.

“È un ufficio quello che hai in tasca?”, chiede Micha Kaufman, CEO di Fiverr. L’idea che un singolo dispositivo sia sufficiente a svolgere ogni tipo di compito rimane ancora oggi un’illusione: computer portatili, tablet, e-reader e smartphone co-esistono (per non parlare dei dispositivi analogici: taccuini, libri, penne ecc…). A causa di questa molteplicità, i lavoratori scelgono con cura l’equipaggiamento necessario per portarsi dietro apparecchi, periferiche e gli altri strumenti di lavoro.

Ed ecco perché tante campagne di crowdfunding provano a dare vita allo zaino definitivo per la vita e il lavoro: come SOLO, grazie al quale “viaggerai più felice e sarai più produttivo”; o Lifepack, alimentato dall’energia solare e diviso in due parti, “workzone” e “lifezone”. I creatori di quest’ultimo dicono di aver “reinventato l’ufficio mobile”: il loro Kickstarter ambiva a 20mila dollari; ne ha guadagnati 600mila. A quanto pare, l’estensione più importante del lavoratore nomade e digitale non è il device ma lo zaino.

Gli spazi che abitiamo hanno una componente relazionale: influenzano e sono influenzati dalle persone che li vivono, dalle loro interazioni. I nostri dispositivi fanno lo stesso: il digitale sta creando nuovi rituali sociali che hanno a che fare, tra le altre cose, con il concetto di busyness, l’essere occupati. La busyness è anche codificata in alcuni apparecchi, come un semaforo che diventa rosso proprio quando qualcuno ha un impegno. Comunque, anche senza semafori e segnali luminosi, è possibile trasmettere lo stesso messaggio indossando un paio di cuffie – che magari non emettono alcun suono.

Nel frattempo l’ufficio, quello vero, si sta trasformando in un parco giochi. Include sempre più spesso luoghi per il relax, il divertimento e la socialità dove fare un riposino su una poltrona, chiamare la propria moglie dalla sala privata, giocare a ping pong con i colleghi, bersi un mojito al free bar aziendale prima di andare a casa. Al tempo di Tronti, si aspettava con fiducia l’avvento della società del tempo libero. Tale previsione si è rivelata parzialemente corretta: alcuni di noi vivono in una società del tempo libero, un tempo libero che però è stato assorbito dal lavoro. Lavoratori indipendenti e freelance che ambiscono a questo tipo di funzioni sociali possono affittare uno spot in un spazio per il coworking, spesso pieno di propaganda sulla condivisione delle idee e sulla necessità di divertirsi. In uno di questi spazi una volta ho visto un missile (o un sottomarino) con la scritta: “everybody must like everybody”.

Alcune routine, come la pausa pranzo, sono spesso regolate semi-rigidamente dall’ufficio. Normalmente, la vita lavorativa è divisa in periodi di tempo, essa è composta da una serie di  interruzioni. Al contrario, il lavoro nell’ambiente digitale è uniforme, continuo. Così la gestione del tempo del lavoratore è data in mano alle app, che ora ci dicono quando bere un bicchiere d’acqua, andare a dormire o alzarci in piedi ogni quindici minuti. Utilizzando un linguaggio informale e amichevole, queste app ricordano una tata o una figura materna, più che un supervisore.

Se l’ufficio è distribuito su tutta la città, al lavoratore non rimane alcun controllo dei luoghi del lavoro periferico. Le sue zone sono temporanee ma non autonome: sono aree che squattiamo per la corrente, il Wi-Fi e un debole senso di appartenenza. Come sherpa urbani, trasportiamo i nostri dispositivi, il cui scopo è quello di potenziarci. Ma se pensiamo alla perenne ricerca di un posto dove caricarli, mi pare che avvenga letteralmente il contrario. Diventiamo così estensione fisica dei media dai quali dipendiamo.

Nel 1969 l’architetto austriaco Hans Hollein ideò il Mobile Büro, un ufficio portatile e gonfiabile contenuto in una valigetta. Nel video promozionale, realizzato per una trasmissione televisiva, vediamo Hollein con un altro uomo passeggiare su un prato verde. Qui Hollein gonfia il suo ufficio e si mette a lavorare, munito solo di un telefono e un tecnigrafo portatile. Finalmente i lavoratori creativi possono lavorare dove vogliono e quando gli pare. Eppure questa struttura autonoma rivela la profonda dipendenza del lavoratore, che ricorda un feto nell’utero materno. Secondo Andreas Rumpfhuber – a cui devo molto per la scrittura di questo articolo – Hollein curava molto il suo personal brand. Era un imprenditore, un uomo dalle mille idee. Se ne avesse avuto la possibilità, avrebbe lanciato una campagna su Kickstarter per produrre in massa il suo Mobile Büro?

Mentre l’ufficio tradizionale si dissolve nei computer e in una serie di spazi informali semipubblici, ecco che cominciamo a idealizzarlo. Siamo agli albori della nostalgia d’ufficio, con la romantica idea del cubicolo, le chiacchierate di fronte alla macchinetta del caffè, la complicità tra colleghi. Una prospettiva in cui l’ufficio è percepito come il simbolo di un’autorità che i dipendenti possono schernire. Un esempio di questo tipo di nostalgia è il gruppo Facebook “Generic Office Roleplay Public Group”, in cui gli iscritti replicano la comunicazione burocratica che potremmo aspettarci dalla Microsoft dei tempi d’oro. Un altro esempio è Smash the Office, un gioco che pare ispirato al film Office Space del 1995 o alla “office rage” presente in numerosi video di Youtube. Il giocatore deve rompere più computer, scrivanie, piante e sedie possibile. È questa l’unica forma di rabbia rimasta al lavoratore nomade. D’altronde, cos’altro potrebbe distruggere, il bar dotato di Wi-Fi più vicino?

 

Articolo apparso originariamente su Network Cultures

Silvio Lorusso
Silvio Lorusso è un artista e designer nel bel mezzo di una relazione complicata con la tecnologia. Lo trovi su Twiiter @silvi0l0russo.

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