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Da sostanza di lusso per yuppie facoltosi, la cocaina è diventata ormai una droga performativa diffusa in ampi strati delle nostre società. Ma è possibile rileggerne la storia (e l'utilizzo) senza ricorrere a proibizionismi e semplificazioni moralisteggianti?

Nella narcostoria pubblicata su Prismo qualche tempo fa, abbiamo provato a trattare la natura politica delle droghe prendendo come caso studio gli oppiacei; l’obiettivo era indagare un territorio  in cui si oppongono discorsi dominanti e pratiche contro-egemoniche, per iniziare a tracciare, intorno al tema del piacere, quali sono i margini di resistenza nell’odierno capitalismo farmacopornografico. Quello che segue è un ulteriore tentativo di fare ordine all’interno del (mancato) dibattito sulle droghe nel nostro paese, prendendo stavolta spunto dalla sostanza forse più “invasiva” (se non altro a livello di immaginario) degli ultimi anni: la cocaina.

Nel pioneristico Mama Coca (1978), Anthony Richard Henman illustrò come nel corso della storia prima la pianta della coca, poi la sostanza cocaina, abbiano sempre assunto sembianze femminili: è la dea Mama Coca nell’impero Inca, girl o lady per le strade di New York, la perica (tipa) in Colombia, la tia blanca (zia bianca) in Perù, la bianca in Italia. L’obiettivo di questo articolo è quindi quello di partire dalla coca per manomettere la psicosi patriarcale e il relativo fallologocentrismo che ha dominato il nostro immaginario sulle droghe sin dall’Antica Grecia (precisamente dalla dicotomia rimedio-veleno del pharmakon platonico). Ma prima di iniziare, permettetemi di suggerirvi un’adeguata colonna sonora per la lettura: dal talento eclettico di Franco Falsini, ecco a voi la colonna sonora di Cold Nose Story, un mockumentary di Filippo Milani del 1975 che narra – che ve lo dico a fare – le manie e le paranoie di un cocainomane alla deriva.

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Alle origini dell’archeoproibizionismo
Contrariamente a quanto si pensa, la prima rivoluzione psicoattiva moderna non avvenne negli anni ’60 della cultura hippie, dell’amore libero e dell’LSD. Piuttosto, l’immaginario psicotropo occidentale è stato manomesso per la prima volta quando gli europei iniziarono a sperimentare con zucchero, tabacco, caffè, cacao e tè, grazie alla “scoperta” delle Americhe e allo sfruttamento delle loro risorse ambientali. Sembrerà incredibile, ma sostanze ora innocue ai nostri occhi, furono all’inizio attaccate perché dannose per l’ordine morale e sociale: il teologo John Wesley disapprovò il tè perché rendeva effeminati e indolenti, mentre le donne londinesi firmarono una Petition Against Coffee che accusava la bevanda di rovinare il matrimonio e rendere gli uomini sessualmente inattivi.

Ai tempi, nessuno era in grado di scorgere come fosse già in corso un lento processo di “europeizzazione” delle droghe, che le risignificava all’interno di quella cultura illuminista fondata su sobrietà e rispettabilità, con il caffè simbolo della vita pubblica dei cittadini borghesi e il tè della socialità domestica. Sabotando l’armamentario teorico di Max Weber, si può affermare che le società illuministe – con la loro ossessione per la razionalità – siano riuscite a piegare il potenziale psicotropo delle droghe: l’aura evasiva, ludica e trasgressiva di eccitanti e sedativi, è stata soppressa rinchiudendoci ancora di più in quella gabbia di acciaio che è stata la modernità.

In effetti, fondamentale nel processo di normalizzazione e europeizzazione di droghe come zucchero, caffè e via discorrendo, è il disinteresse per gli usi e i costumi delle società preindustriali. L’etnocentrismo europeo ci dice molto su come è stato costruito il rapporto tra sapere moderno, culture tradizionali e sostanze psicoattive: il moralismo e il senso di superiorità dei primi uomini bianchi (esploratori, missionari e commercianti) a contatto con popolazioni giudicate primitive e selvagge non ha permesso di andare oltre la funzione strumentale delle droghe e di interrogarsi sul loro valore sacro e simbolico. Accanto al colonialismo “classico”, come genocidio che annienta popolazione autoctona e territorio (nella sola miniera d’argento di Potosí in Bolivia morirono 8 milioni di persone, tra indios e schiavi “importati” dall’Africa), nel nostro racconto è però fondamentale analizzare il colonialismo come erosione della storia e della memoria collettiva di un continente.

La pianta di coca.

Erythroxylum coca è una pianta sempreverde originaria della zona amazzonica nella regione andina. Contrariamente ai semplicismi occidentali, masticare foglie di coca non ha solo l’obiettivo di eliminare la fatica, il dolore e la fame: al contrario, la coca non è solo una pianta, ma abbraccia il sacro, ponendosi a fondamento della storia delle popolazioni andine. Se la storia occidentale è fondata sul rapporto tra vino e vita – il sangue di cristo nell’omelia, Israele vigna di cui Dio è il vignaiolo eccetera – la foglia di coca nella mitologia Inca è la dea antropomorfa Mama Coca, una delle Madri delle Piante insieme a Mama Zara (mais), Mama Quina (quinoa) e Mama Axo (patata): sono queste le quattro figlie di Pachamama (la divinità Madre Terra), con Mama Coca a impersonare la dea della salute e della gioia.

In origine la dea era una donna promiscua squartata in un’infinità di parti dai suoi numerosi amanti; dai resti del suo corpo germogliò la prima pianta di coca, le cui foglie potevano essere raccolte e masticate dagli uomini solo dopo aver fatto “godere una donna” (immaginate Vecchio Testamento, Bibbia o Corano a parlare di orgasmo femminile?).

La dimensione libidinale della coca e il rapporto profondo tra coca, eccitazione e piacere, erano già stati esplorati secoli prima dell’Impero Inca. La civiltà Moche del nord del Perù ci ha lasciato in ceramiche e sculture il racconto indelebile di una sessualità multiforme, un’iconografia lussuriosa che mostra liberamente seni, peni giganti e vagine, le posizioni più fantasiose e le pratiche sessuali più svariate, dalla masturbazione maschile alla fellatio, passando per il sesso tra donne e animali mitologici.

I conquistadores ovviamente non erano in grado di cogliere né lo splendore femminile/femminista del mito di Mama Coca, né la sessualità festosa dei Moche. Per il frate domenicano Diego Duran le visioni e le voci degli sciamani non avevano niente a che fare con spiriti e dei: piuttosto, “in quello stato di ebbrezza è il diavolo a parlarle”. Pratiche divinatorie millenarie erano per lo sguardo dei missionari delle pericolose possessioni demoniache che andavano perseguitate (potete consultare uno dei primi testi critici al riguardo); analogamente, per gli osservatori morigerati del tempo, l’arte dei Moche era perversa e degenerata, dovuta dalla masticazione delle foglie che provocavano una non meglio precisata “psicosi da coca”.

Il più amato tra i Moche: il sesso anale.

Il portato storico dell’opera di demistificazione di esploratori e missionari non deve essere sottovalutato: di fatto, non ha lasciato spazio a immaginari alternativi per contrastare le interpretazioni dominanti fondate da un lato dal moralismo giudaico-cristiano, e dall’altro dal razionalismo illuminista. Non stupisce quindi che ancora oggi nei manuali di storia e archeologia siano eliminati riferimenti al ruolo fondamentale delle droghe nelle società preindustriali, un fenomeno che lo studioso italiano Giorgio Samorini ha battezzato archeoproibizionismo. In poche parole, ogni traccia sul ruolo degli stupefacenti nella storia e nello sviluppo del nostro mondo è stato minimizzato o cancellato (per questo ci vorrebbe una narcostoria a sé stante, ma per ora potete dare un’occhiata all’esilarante riassunto della “Stoned ape” Theory di Terence McKenna).

Eppure, tra le droghe che hanno subito il processo di europeizzazione citato in precedenza, la coca non c’è. Il motivo non è quello che pensate: ad aver limitato l’accesso alla coca nel continente europeo, non è il suo status di droga cosiddetta pesante, e nemmeno l’avversione dei missionari. Commercianti e mercanti non badavano certo a simili questioni: semmai, i lunghi tempi di viaggio tra i due continenti rovinavano le foglie che non arrivavano sufficientemente fresche a destinazione, non permettendo ai più spericolati tra i nostri antenati di sperimentare le orgasmatiche percezioni donate da Mama Coca.

Ovviamente, se la montagna non va da Maometto, è Maometto che eccetera eccetera, e qui entra in scena il primo importante personaggio della nostra storia: l’italiano Paolo Mantegazza.

La cartolina dedicata a Paolo Mantegazza nella serie Italiani e Italiane illustri di Filippo Orlando, 1902.

Mantegazza: l’apollineo
Nato a Monza nel 1831, Paolo è figlio di Laura Solera Mantegazza, una delle donne più importanti dell’Ottocento italiano (istituì tra le altre cose la prima scuola professionale femminile d’Italia, la prima associazione nazionale operaia femminile e partecipò alle Cinque Giornate di Milano). Studente di medicina e poi docente di Patologia a Pavia, lì Mantegazza fondò il primo laboratorio europeo di Patologia Sperimentale. Si spostò poi a Firenze, dove ottenne la prima cattedra italiana di Antropologia e fondò con Felice Finci la rivista Archivio per l’Antropologia e l’Etnologia nonché la Società Italiana di Antropologia e Etnologia. Ispirato dalla madre, alla carriera accademica affiancò l’attività politica, e dal 1865 al 1876 nel neonato Parlamento del Regno d’Italia è prima deputato e poi senatore. Fu anche autore di romanzi, e il suo L’anno 3000: sogno del 1897 è uno dei primi esempi di fantascienza italiana. Per non farsi mancare niente, Mantegazza ha pure una pianta che porta il suo nome, l’Heracleum mantegazzianum, un omaggio dei botanici Emile Levier e Stephane Sommier al maestro che ha ispirato tanti anni dopo una canzone dei Genesis.

Mantegazza fu insomma una figura eccezionale, un anticipatore e un intellettuale eclettico. Ma se questo non basta, fu anche colui che rivoluzionò il rapporto tra occidente e coca: dopo la laurea in medicina, trascorse quattro anni in Sud America per specializzarsi come medico igienista; qui lo incuriosì l’abitudine degli indigeni di masticare costantemente una pallina di foglie di coca mischiata con una sostanza alcalina (patate cotte e cenere ricca di carbonato di potassio) per ammorbidire le foglie e renderle più juicy. Non si limitò però a osservare la popolazione autoctona, ma iniziò a compiere esperimenti anche su se stesso. La coca come è noto allieva la fame, il freddo e la stanchezza, ma Mantegazza rivelò ulteriori proprietà curative, adoperandola per l’igiene orale, aiutare la digestione (un infuso di coca è un toccasana rispetto al caffè!) e altri problemi gastrointestinali come colite, flatulenza e diarrea. Tenendo presente le reazioni individuali, che possono essere molto diverse tra loro, per Mantegazza la pianta poteva essere usata anche nei casi “di isterismo, di ipocondria, di tedio alla vita (…), di alienazioni mentali e nella cura della malinconia”.

Ritornato in Italia nel 1858, Mantegazza pubblicò il manoscritto Sulle virtù igieniche e medicinali della coca e sugli alimenti nervosi in generale, un memoriale delle esperienze andine che sollevò un notevole interesse tra i medici europei. Seguì a distanza di un anno l’articolo Sull’introduzione in Europa della coca, nuovo alimento nervoso, in cui raccomandava la diffusione degli infusi di coca anche nel vecchio continente. Ecco, il luminare italiano non poteva immaginare la portata del suo invito. Giuliano Dall’Ollio spiega che Mantegazza ebbe il merito di incrementare l’interesse verso la pianta, ma fu il chimico farmacista Albert Niemann a migliorare il processo di isolamento dell’alcaloide della Erythroxylon coca in forma cristallina (sottotitoli: è la nascita in laboratorio della cocaina). Naturalmente, in segno di gratitudine, ne inviò immediatamente un campione al medico italiano.

Da Quadri della natura umana, 1871.

In un articolo interamente dedicato al pioniere italiano degli studi sulle droghe, Giorgio Samorini mette in guardia dal non ridurre Mantegazza al solo campo della coca-logia o degli studi medici. La curiosità e l’appetito psicotropo lo spinsero infatti ben oltre, a cercare sempre nuove sensazioni e sperimentare nuovi stimolanti. I testi sulla coca furono il principio di un’avventura intellettuale e sensuale che portarono Mantegazza prima alla scoperta del piacere (Fisiologia del piacere del 1877) e poi del dolore (Fisiologia del dolore del 1880), ma il punto cardinale restarono comunque le droghe. A queste dedicherà il suo capolavoro del 1871, Quadri della natura umana – Feste ed ebbrezze e il successivo Le estasi umane del 1887.

Il primo è un monolite di 1200 pagine definito dall’autore un “commento ad una pagina della storia naturale del piacere”, e se nella prima parte tratta delle forme collettive di gioia ed ebbrezza, nella seconda fornisce un’ampia classificazione di quelle che lui chiama alimenti nervosi, ossia sostanze psicoattive “destinat[e] ad eccitare a maggior azione il sistema nervoso nei suoi molteplici attributi”. Delle 3 classi di alimenti nervosi identificati – gli alcolici (fermentati e distillati), gli alcaloidi (caffeici e narcotici) e gli aromatici (deboli e irritanti) – quelli che stuzzicano maggiormente la sua fantasia sono proprio gli alcaloidi narcotici come coca, oppio e hashish, perché “agiscono possentemente sul cuore e sui centri nervosi, diminuiscono quasi tutta la sensibilità e accrescono straordinariamente alcune facoltà intellettuali, producendo allucinazioni e dolori di tutte le forme. Sono gli alimenti nervei più pericolosi e che forniscono alcuni dei piaceri maggiori della vita”.

Mantegazza è consapevole di essere un innovatore: “tutto questo in un tempo non molto lontano sarà scienza grossa”, predice. Ma non può immaginare il ruolo che gli serberà la storia: cadere presto nel dimenticatoio, ricordato solo da altri maestri come Sigmund Freud e Albert Hofmann. All’interno del nostro racconto però, rimane fondamentale evidenziare come il monzese sia stato una figura unica, capace di dedicarsi con dedizione allo studio delle droghe, senza protagonismi ma semplicemente mosso dalla volontà di sapere (e di godere). Mantegazza era un uomo di scienza che non si accontentava di rispettare confini e conformità accademiche, e un esempio in tal senso arriva proprio dalla sua auto-sperimentazione con la coca: all’inizio “la vita si fa più attiva”; poi ci si isola sempre più dal mondo esterno e si sprofonda in una “beata coscienza di godere e di sentirsi intensamente vivo”; continuando con l’assunzione, si spinge infine al “delirio dell’ebbrezza cocale” che gli dona un piacere mai provato prima, con gioia intensa e immagini fantasmagoriche.

Nonostante il suo infinito amore per droghe ed ebbrezza, Mantegazza non si fece imbrigliare dalle retoriche dominanti del tempo, in cui iniziava a muoversi lo spettro della tossicodipendenza. Affrancato da moralismi, fu in grado di soddisfare le sue voglie e portare avanti la sua vita pubblica come docente e parlamentare, capace di vivere le droghe in modo innovativo, come doni che “contribuiscono assai a rendere più lieta la vita. Sotto la loro azione si aumenta sempre la coscienza di esistere, si mitigano o si dimenticano i dolori morali e si ridesta un’allegria che può arrivare al massimo grado di felicità”. Basta d’altronde questo aforisma finale che già chiudeva il suo trattato sul piacere:

Freud: il socratico
Prima dell’antipsichiatria e del post-strutturalismo, a mettermi in guardia su Freud ci aveva pensato il poeta romano Remo Remotti. Magari lo ricordate per le comparsate nei film di Nanni Moretti (in Sogni d’oro è addirittura Freud stesso), ma l’ombra del padre (eheh) della psicanalisi si proietta anche sui suoi squilibrati spoken word. In “Ciao Freud” ad esempio, il buon Sigmund svela all’ascoltatore stronzetto “la magia dei nomi”: come siano stati lui (freude, in tedesco piacere) insieme Carl Gustav Jung (giovane), Wilhelm Reich (ricco) e Alfred Adler (aquila) – tre numi tutelari della psicanalisi e una licenza poetica del buon Remo – a creare un’umanità nuova, l’uomo moderno “giovane, ricco, aggressivo che conosce il piacere del sesso, ecco”.

L’uomo moderno che aiuta a creare Freud è un animale predatore che pensa di essere in grado di conoscere, dominare e sfruttare la realtà. Un esempio di questa attitudine? La cocaina, ovviamente! Facciamo un po’ d’ordine; ai tempi di Freud, sebbene dall’opera di Mantegazza sia passato solo un quarto di secolo, la situazione è cambiata parecchio: la cocaina ha acquisito velocemente sempre più spazio nella vita culturale ed economica di fin de siècle, i dottori la usano come anestetico o per la cura di depressione e tossicodipendenza, mentre in farmacia viene venduta per alleviare mollezza di spirito e noia, effetti collaterali della vita metropolitana fotografata nitidamente da Georg Simmel. La coca è presente anche in numerosi farmaci da banco, sieri dopanti che promettono di curare qualsiasi male, come l’antenato della Coca-Cola. Infine è anche un ingrediente del famoso Vin Mariani, 60 g. di foglie di coca lasciate macerare per 10 ore in un litro di vino Bordeaux. Un successo stellare, pubblicizzato addirittura dal Papa!

Papa Leone XIII benedice vino + coca.

Freud inizia a sperimentare con la “medicina” nel 1884, grazie al lavoro del medico militare Theodor Aschenbrandt, che cura i soldati sul fronte bavarese grazie all’ingente quantitativo di cocaina comprata dalla ditta farmaceutica di Merck. Il giovane Freud al tempo era un ventottenne alle prese con depressione, fatica cronica e altri problemi nevrotici. Fino a quando…

Scrive un giorno Freud alla fidanzata Martha: “Nella mia ultima depressione ho fatto uso di cocaina e una piccola dose mi ha portato alle stelle in modo fantastico. Sto ora raccogliendo del materiale per scrivere un canto di preghiera a questa magica sostanza”. Lo zio s’è preso bene, ma non è solo questo. Paul B. Preciado (qui trovate qualche segnale) rilegge anticonvenzionalmente il love affair piuttosto breve (dura fino al 1887) tra lo psicanalista austriaco e la cocaina: per Preciado, il giovane Freud è una cloaca maxima pronto a incorporare qualsiasi sostanza, tecnica e discorso presente sul mercato farmacologico e intellettuale di  fine Ottocento. Il viennese desidera fama e successo materiale e definisce la cocaina come un “progetto”, un el dorado che può permettergli la cura di molteplici patologie. Insomma: all’opposto di Mantegazza, con il suo amore per gli alimenti nervosi e le volontà di liberarci ai piaceri della vita, c’è Freud. Per il-non-ancora psicanalista, la cocaina si tramuta infatti da magica sostanza a farmaco performativo della sua ascesa sociale. La razionalità strumentale ha cancellato facilmente le gioie dell’ebbrezza.

Il narco-progetto freudiano è fallimentare sotto molteplici profili. Il primo caso è quello dell’amico Ernst von Fleischl-Marxow, che Freud tenta di liberare dalla dipendenza da morfina proprio con la cocaina. Risultato: abbiamo il primo cocainomane europeo. Il secondo caso è la paziente Emma Eckstein, quasi uccisa da Freud in compagnia del collega Wilhelm Fleiss. I due utilizzano la cocaina per curarle una nevrosi nasale, ma la lasciano permanentemente sfigurata. Nonostante questo, Freud adora la cocaina perché gli permette di parlare interrottamente e analizzare le proprie esperienze, sogni e ricordi. Sembrerebbe quasi che le botte di cocaina siano state la rampa di lancio per l’interpretazioni dei sogni, l’esplorazione dell’inconscio e la cura con la parola. D’altronde, la letteratura su cocaina e nascita della psicanalisi è piuttosto vasta (qui due esempi).

Vincent Cassel nei panni di Otto Gross in A Dangerous Method di David Cronenberg, 2011.

Gross: il dionisiaco
Se c’è una nemesi di Freud, questa è probabilmente Otto Gross. Che a sua volta è stato molte persone assieme: figlio del criminologo Hans Gross, all’inizio è un giovane medico ben avviato alla carriera accademica, addirittura uno dei possibili successori di Freud insieme a Carl Gustav Jung; solo che, chevelodicoafare, la droga stronca sul nascere la sua ascesa nell’olimpo della psicanalisi.

È il 19 aprile 1908 quando un preoccupato Freud scrive a Jung che Gross “è pieno di cocaina e probabilmente è alle soglie della paranoia tossica”; lo svizzero gli risponde il 24 aprile che “Gross non si limita a prendere cocaina, ma anche oppio in quantità considerevoli” (per le citazioni dal tedesco e per avermi guidato alla scoperta di Gross, grazie a Giusi Zanasi e Michelantonio Lo Russo). L’11 maggio quindi, Gross si presenta alla clinica di Jung per essere redento. Tra i due nasce un rapporto simbiotico, un corpo a corpo intellettuale che scardina le relazioni di potere tra psicanalista e paziente. Dura poco più di un mese: il 17 giugno Gross evade e di lui si perdono le tracce. Dopo due giorni, Jung scrive a Freud per dargli la notizia e annunciare il suo verdetto: il paziente latitante è affetto da dementia pracox (ribattezzata in tempi più recenti schizofrenia), per poi aggiungere candidamente che “nella sua estasi non immagina come la realtà ch’egli non ha mai visto si vendicherà su di lui. È un uomo che la vita deve espellere”.

Gross morirà di polmonite a Berlino nel 1920; nell’ultima perizia psichiatrica (risalente al 1916) non è riconosciuto come malato di mente, ma solo come dilapidatore finanziario e tossicodipendente. Ma come ricordano i già citati Lo Russo e Zanasi, Gross è stato anche l’anti-Freud, “apostolo della liberazione sessuale e del matriarcato” e del “radicalismo utopico”. Il punto di svolta per lui fu il 1901, molto prima di diventare un personaggio epistolare tra Freud e Jung. Da medico di bordo intraprende numerosi viaggi verso il Nuovo Mondo, e come un Di Battista di inizio Novecento viene stregato dalle bellezze dell’America Latina. Inizia a studiare la psicanalisi e a consumare cocaina e morfina, un cocktail esplosivo narco-intellettuale che segnerà non solo la sua esistenza, ma quella dell’intero secolo appena cominciato. Il parallelismo è interessante: lo stesso mix che in Freud ha permesso l’ascesa sociale e una vita borghese, in Gross scatena una vita randagia, sregolata, libera tra Monaco e il Monte Verità.

La psicanalisi freudiana, dopo aver aperto le porte dell'inconscio, lo rinchiude in un gioco di ruoli a servizio del potere. Per Gross invece serve a invertire la relazione tra civiltà e soggetto.

A Monaco, precisamente nel quartiere bohémienne di Schwabing, Gross vive insieme alla moglie Frieda Schloffer in modo anticonformista, immerso in un’infinità di stimoli intellettuali, sessuali e ovviamente psicotropi. Influenzato dalla ricca vita culturale del quartiere – popolato da artisti, anarchici, letterati russi espatriati, riformatori sociali, tossici – lascerà poi un segno indelebile su tutta l’avanguardia storica europea. Psicanalizza ininterrottamente amici e artisti nei caffè, e invita i pazienti a non reprimere il transfer verso di lui, per vivere reciprocamente le proprie attrazioni.

A sua volta il Monte Verità, nei pressi della cittadina svizzera di Ascona, rappresenta per questa generazione quello che per la beat generation sarà Big Sur. Nato come stabilimento vegetariano-naturista, allo scoccare del secolo diventa meta di pellegrinaggio per qualsiasi soggetto anticonvenzionale alla ricerca di una vita alternativa, e viene abitato da una comunità fondata su idee libertarie, femministe oltre che esoteriche (a tal proposito, vi consiglio di spulciare la tesi di dottorato di Chiara Gianni). Gross, la moglie e i loro numerosi amanti vi trascorrono molto tempo, anche perché è il contesto ideale dove sviluppare il suo progetto rivoluzionario di una vera e propria Libera università anarco-comunista. Allo stesso tempo però, la legge non lo lascia in pace: viene messo sotto inchiesta per offese al costume, cospirazioni politiche e contrabbandando di zucchero (!) e stupefacenti. Il caso più eclatante però riguarda le amiche Lotte Hattemer e Sophie Benz: Gross infatti “assiste” il suicido di entrambe, guarda caso con un’overdose di cocaina.

La distanza tra Freud e Gross non è solo biografica: anche le loro architetture teoriche sono speculari. La psicanalisi freudiana, dopo aver aperto le porte dell’inconscio, lo rinchiude in un gioco di ruoli a servizio del potere (si veda il solito L’anti Edipo di Deleuze e Guattari). Per Gross invece la psicanalisi serve a invertire la relazione tra civiltà e soggetto, al punto che – secondo Emanuel Hurwiz – Gross è il primo a interpretare le nevrosi del soggetto come spettro della collettività e delle convenzioni sociali. Diversamente da Freud, in Gross le psicosi non hanno una natura sessuale, ma dipendono dall’incapacità di adattarsi alle norme socialmente imposte. La psicoterapia in questo senso diventa “filosofia della rivoluzione, vale a dire che è chiamata a diventare il fermento della rivolta all’interno della psiche, il processo di liberazione dell’individualità, tenuta a freno al proprio inconscio”.

La battaglia è la stessa che poi indicherà Michel Foucault: contro “il fascismo che è in noi, che possiede i nostri spiriti e le nostre condotte quotidiane, il fascismo che ci fa amare il potere, desiderare proprio la cosa che ci domina e ci sfrutta”. Per Gross le rivoluzioni precedenti hanno fallito perché negli uomini era già germogliato il seme autoritario: il conflitto inizia dalla famiglia, perché è in questo spazio “sacro” che incomincia la repressione ed è abortita la libera espressione del singolo. Insieme alla famiglia, Gross si staglia poi contro altre istituzioni come il matrimonio monogamo, che muta l’amore in controllo reciproco. Tutte espressioni del nemico generatore di ogni pena del singolo: il patriarcato.

Secondo Gross, “il rivoluzionario di oggi […] combatte contro la violenza nella sua forma primigenia, contro il padre e il patriarcato. La rivoluzione che verrà è la rivoluzione del matriarcato”. Oltre al ritorno alla natura, alla poligamia e alla libertà sessuale e chimica sperimentate tra Monaco e Ascona, è quindi fondamentale giungere a una società matriarcale che liberi la donna dal rapporto di sottomissione all’uomo, per creare una comunità che al binomio possesso-divieto tipica del matrimonio monogamo sostituisca nuove forme di relazione basate su libertà, gioia e condivisione (in questo, Gross è fortemente ispirato da Johann Jakob Bachofen). Per attuare la propria rivoluzione, Gross progettò anche – assieme a Franz Kafka – un giornale chiamato Papers Against the Will for Power (maggiori info nel capitolo di Gerhard M. Dienes). Ma in generale, con i suoi ideali eversivi e il corpo liberato sessualmente e intossicato dalle droghe, Gross può essere considerato un antesignano della controcultura del Novecento (si veda Anarchism, Expressionism and Psychoanalysis di Arthur Mitzman), e il seme della sua follia ha anticipato in vario modo entrambe le tendenze del freudo-marxismo, sia la rivoluzione orgonica di Wilhelm Reich, sia l’opera di Erich Fromm e Herbert Marcuse.

Un matriarcato delle droghe?
Ma come siamo arrivati fino a qui? Per cominciare, occorre forse chiedersi davvero “cos’è la droga”. Giancarlo Arnao ci insegna che la definizione più ampia possibile di droga è qualsiasi sostanza con un effetto psicoattivo sul corpo o sulla mente di chi la assume. A partire dall’Ottocento fino a oggi, a dominare l’interpretazione dell’esperienza psicotropa è stato l’approccio medico. Certo, al determinismo farmacologico si è opposta la ricerca sociologica che ha mostrato come le conseguenze dell’assunzione di sostanze stupefacenti siano condizionate non solo dalla loro struttura chimica, ma anche dalla cultura di appartenenza, dai contesti d’uso, dalle relazioni sociali e dalle caratteristiche, esperienze e aspettative del soggetto (una lettura fondamentale a riguardo è il capitolo di Franca Beccaria e Franco Prina). Gli approcci più innovativi all’interno della ricerca droghifera, influenzati da New Materialism e dalla Object-Oriented Ontology (quest’ultima ha già trovato spazio su Prismo in più occasioni), non si limitano a composizioni chimiche, significati culturali, rapporti di potere e contesti sociali, ma spostano l’attenzione all’agency degli oggetti, alla loro materialità e alle relazioni tra attori umani e non umani (a titolo di esempio, segnalo la The Syringe as a Prosthetic di Nicole Vitellone).

Ma a essere in crisi sono le stesse classificazioni delle droghe. Persino le sostanze europeizzate da cui siamo partiti all’inizio, stanno lentamente perdendo la loro rispettabilità e normalità: quei bricconcelli dei clubber sniffano cioccolato e lo zucchero diventa sempre più pericoloso. Se questo non bastasse, la classifica elaborata dal team di David Nutt cancella qualsiasi credibilità alla distinzione tra droghe legali (alcol e tabacco) e illegali: se l’eroina è la droga più pericolosa a livello individuale, l’alcol lo è a livello sociale, mentre in generale alcol e tabacco sono più dannose a livello individuale e sociale non solo della droga leggera per eccellenza, la cannabis, ma anche di demonizzate droghe pesanti come ketamina, LSD ed ecstasy.

Infine, a destabilizzare le mappe concettuali occidentali sulle droghe si sono messi anche i popoli andini che da parecchi anni, stanchi del colonialismo psicotropo occidentale, hanno iniziato una battaglia politica contro la cecità e il terrore della war on drug americana. A livello istituzionale, Perù e Bolivia hanno iniziato dagli anni ’80 a protestare per il rispetto delle tradizioni indigene relative alle foglie di coca, e dal 2009 la pianta di coca è protetta dalla costituzione boliviana. Non è considerata una droga, ma parte della tradizione culturale del paese, risorsa naturale per la biodiversità e fattore di coesione sociale. A livello micro-politico, negli ultimi decenni l’uso tradizionale per masticazione e infusione si sta allargando anche alle popolazioni non andine di Bolivia e Argentina, e nuovi prodotti derivati dalla foglia di coca (tè, farine, integratori alimentari…) sono reperibili non solo in America Latina (si veda il lavoro di Pien Metaal).

E allora, cosa sono le droghe? Il solito Preciado non sbaglia nell’evidenziare come nell’orizzonte contemporaneo il concetto di droga non è più circoscritto alla natura chimica di una sostanza che altera le funzioni del sistema nervoso, perché “tesi e segni visivi sono anche essi pharmakon“. L’industria dell’addiction ingloba bulimicamente sempre nuove sfere della realtà – pornografia, slot machine, internet, lavoro, relazioni amorose – all’interno di un modello di dipendenza che non può essere più fondato sull’alterazione prodotta dalle droghe. Contemporaneamente però, il mercato non lesina nel donarci nuove sostanze legali e illegali per essere sempre attenti, migliorarci, essere competitivi, superare gli altri in qualsiasi ambito della vita, dal sesso al lavoro, dalle interazioni al far festa. Un’ansia performativa prodotta da quella che Arthur Evans in The God of Ecstasy chiama psicosi patriarcale che ci costringe a mostrare la nostra forza, a competere, a farci godere della nostra posizione di superiorità, ad oggettificare gli altri (e noi stessi) e, in sostanza, ad essere succubi del controllo e del dominio.

Le storie di Mantegazza e Gross ci servono per iniziare a pensare e incorporare qualcosa di diverso, per squarciare l'orizzonte di un presente fatto di ansia performativa e psicosi patriarcale.

Nell’odierna cultura prostetica, le nostre droghette sembrano essere relegate al ruolo di tecnologie per soddisfare i bisogni personali e le ansie sociali. Con buona pace di fricchettoni e raver, le droghe nel regime farmacopornografico hanno perso qualsiasi aura salifica a priori: sono semmai diventate uno degli infiniti meccanismi con cui la nostra capacità di provare piacere è stata manomessa in un ciclo infinito di eccitazione che produce capitale al ritmo di let’s not come, let’s keep going. Ed è proprio per questo che, ora più che mai, è necessario essere più scaltri sia nello sperimentare con se stessi (il principio di autocavia), sia nell’architettare un’etica del piacere anti-normalizzante e anti-discriminatoria. Rosi Braidotti è perentoria: “se il potere è complesso, diffuso e produttivo, così deve essere la nostra resistenza a esso”.

Le storie di Mantegazza e Gross ci servono per iniziare a pensare e incorporare qualcosa di diverso, per squarciare l’orizzonte di un presente fatto di ansia performativa e psicosi patriarcale. Il primo instaura un rapporto paritario con le droghe, non basato su una razionalità strumentale: gli alimenti nervosi sono doni per rendere la vita più lieta, e non mezzi per sopperire alle proprie mancanze. In più, la vita di Mantegazza è anche il modello di una soggettivazione anticonformista che non rifiuta il piacere e ribalta le narrazioni reazionarie sull’inevitabilità della tossicodipendenza. Gross, invece, elabora un armamentario che fondendo droghe, ritorno alla natura, poligamia e psicanalisi distruggere l’organizzazione e il sistema di valori delle società patriarcali. A dominio e potere si sostituiscono nuove forme di rapporti non-gerarchici con gli altri, alla centralità dell’io (e di un soggetto in guerra costante con gli altri) si sostituisce la dimensione comunitaria, la razionalità calcolatrice è rifiutata in favore dell’estasi.

Forse una definizione finalmente “al passo coi tempi” potrebbe essere quella di droghe come somato-tecniche, o somatechnics: il termine è emerso all’interno del dibattito queer sulle modificazioni corporee, per superare una visione naif della tecnologia di natura antropocentrica e fondata sulla dicotomia tra corpo e tecnologia. Si riconosce cioè come la tecnologia non preceda il corpo e neanche il contrario: non esistono corpi immuni e non già tecnologizzati, come non esistono tecnologie astratte che non siano ancora state incorporate. Oggetto e soggetto sono quindi interdipendenti e in divenire, si creano e modificano nel loro incontro continuo. Ne deriva che le somatecniche sono eterogenee e imprevedibili, e possono emancipare come normalizzare: d’altronde, il medesimo cocktail narco-intellettuale ha prodotto esiti opposti in Freud e Gross. Nel più generale dibattito sulle droghe questa prospettiva permette, da un lato, di eliminare qualsiasi idealismo che naturalizza ed essenzializza le droghe come pericolo o liberazione, affrancandosi dalla dicotomia rimedio-veleno platonica e imparando a ragionare in termini ambivalenti. Dall’altro, scardina l’agency del consumatore di sostanze, rendendo necessaria una riconfigurazione della relazione tra soggetto e sostanza, in chiave paritaria e non-predatoria, alla Mantegazza.

Nel più specifico percorso intrapreso in questa storia, i tecnocorpi (termine di Braidotti) nel loro continuo generarsi e trasformarsi, sono pratiche di critica etico-politica: creano spazi di possibilità in cui possono essere articolate nuove “controsoggettivazioni” che erodono “il soggetto che si è autoproclamato unico, maschio, bianco, eterosessuale e razionale” (come in Balzano). Soggettività nomadi e gaudenti “vettori di potentia e desiderio di contaminazione” che mettono in crisi micro-politicamente concezioni socialmente imposte, vetuste e asfissianti di mascolinità (il potere empatico dell’md per sciogliere il maschio alpha) e femminilità (il potere eccitante dell’alcol contro la donna composta e asessuata), del corpo (sessualmente e chimicamente arricchito, piuttosto che conforme e standardizzato), della sessualità (un erotismo promiscuo e poliforme che si prende gioco della sessualità fissa e categorizzabile), eccetera eccetera eccetera.

È stata lunga, lo so. E per ringraziarvi, non mi resta che lasciarvi con una poesia del futurista Sofronio Pocarini:

Ho fiutato la cocaina
e giro per la campagna in un barbaglio infantile di bizzarra ebrezza.
Tutte le erbe e tutti i fiori
sono mammelle incandescenti
che stringo tra le dita nevrasteniche
cingendole di trasparenza nuova.
La pianura striata di verde
mi dà squilli violenti e bestiali
che risuonano nel mio cuore attorcigliato:
sono le capriole solenni e diafane
dello stupefacente gorgheggiante.
Che buffo scampanellìo nel cervello
se sgrano gli occhi, affinché i canti dei campi
convergano
tutti su me
per godere la vita fantastica
di poeta radioso.

E tutta una febbre che smarrisce in sogni divini
il mio essere trasfigurato.

Ho inciampato in una merda di vacca.

(10 Agosto 1924)

Enrico Petrilli
Nomade tra Torino, Milano e Berlino. Cerca di sopravvivere a un dottorato in sociologia sul piacere negli eventi di musica elettronica. Dedica il proprio tempo libero al sexual freakdom.

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