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Dal Saturday Night Live ai late show, da Stephen Colbert a Samatha Bee, la comicità televisiva americana è incapace di rinnovarsi e di persuadere.

Vi sembrerà una bestemmia sentirmi dire che la satira americana è da tempo un corpo moribondo, un paziente ostinato – passatemi l’espressione – che non ne vuole sapere di lasciarsi andare. Vi sembrerà un’eresia, per lo meno, se avrete letto anche voi ciò che scrivevano il New York Times o il Washington Post di Jon Stewart non molto tempo fa, quando era ancora conduttore del Daily Show: “l’uomo più fidato nel mondo dell’informazione”. Oppure, osservando il trattamento da rock star riservato al suo ex protégé, Stephen Colbert, che ha da poco rimpiazzato l’insopportabile David Letterman al Late Show. E se Real Time, il programma condotto da Bill Maher su HBO, funge da cassa di risonanza per dibattiti che spaziano dall’islamofobia alla pedofilia, cosa pensare – allargando un po’ lo sguardo – di The Onion, partito come un Vernacoliere degli universitari sfigati e oggi sito-colosso con milioni di utenti, una nutrita redazione e un proprio canale di news fasulle?

È persino tornato alla carica, più rumoroso che mai, Saturday Night Live: il programma che per decenni ha traghettato dozzine di comici dalla tv a Hollywood, che però già nel ’95 il New York Magazine definiva una “barzelletta triste”, raccontando di una Janeane Garofalo in fuga e degli ascolti a picco. Il punto è che a novembre ci sono state le elezioni, e l’arrivo dell’uomo dal colorito pompelmo alla Casa Bianca ha portato, insieme allo shock culturale e a prospettive distopiche, linfa inaspettata alla industria dell’intrattenimento. Uno dei mantra più diffusi in questi mesi, soprattutto a sinistra, ci dice che stiamo vivendo l’Età dell’Oro della satira politica. Vien quasi voglia di arrendersi, e di affidarsi ai santi laici di quest’epoca che, per dirla come Steve Almond di Baffler, “con i loro numeri d’intrattenimento notturni stanno riportando il buonsenso in un mondo impazzito”. Amen.

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Non serve limitarsi ai pregiudizi. La televisione a volte bisogna accenderla davvero, per capire qual è la forma, l’idea, la prassi seguita dagli autori che vanno per la maggiore. Ho provato così a guardare qualche episodio dell’ultima stagione di SNL rivitalizzato da Trump. Alec Balwin, ormai la star più importante dello show, fa un’imitazione del presidente così perfetta da risultare indistinguibile dall’originale. Peccato che siano indistinguibili pure le battute: il calco del Trump speech è talmente ben riuscito che la sensazione è quella di ascoltare una sintesi di ciò che realmente potrebbe uscire dalla bocca del presidente il giorno, e niente di più arguto o esilarante. E che dire dei personaggi di contorno, tutti vagamente fastidiosi e forzati – a cominciare da un Putin inespressivo a torso nudo e monocorde – che  non aggiungono nulla rispetto a ciò che già sappiamo? In uno dei tanti segmenti della trasmissione, “Melania Moments”, si immagina una First Lady prigioniera nel proprio mondo dorato, apaticamente infelice, meschinamente sommersa dal lusso. Chi se l’aspettava, eh? Per non parlare della bravissima Melissa McCarthy, che imita il portavoce Sean Spicer esasperandone il nervosismo ed i tic – per esempio l’ossessione per i chewing-gum. Carino, certo. Ma sono cose che immaginavamo già. Uffa.

Se Snl non mi ha convinto, non va meglio guardando i mezzibusti dei notiziari satirici come Samatha Bee o John Oliver, i talk show di Conan O’ Brien o Stephen Colbert, con la loro formula sempre uguale, con il conduttore impeccabilmente incravattato che commenta le notizie del giorno e poi s’intrattiene con gli ospiti in studio – sbeffeggiati o portati in palmo di mano a seconda di come si collocano nel pantheon liberal (tempo fa Francesco Pacifico definiva una divinità come Letterman “il conformista”, per l’appunto). Se il risultato mi appare più grigio e penoso del solito la colpa, evidentemente, non può essere di Trump, che è da anni un filone inesauribile: qui abbiamo un personaggio che già prima di essere eletto leader del Mondo Libero era la nemesi di tre generazioni di rapper, credeva (o fingeva di credere) che il Belgio fosse una città, era noto per aver fondato università fraudolente, per essere stato accusato di molestie da innumerevoli donne, per essere andato in bancarotta, per le sue menzogne conclamate, per la sua sgradevolezza su ogni argomento. Un carattere ripugnante da qualunque lato lo si guardi. Con una peculiarità: è pure permaloso. Insomma, Trump si presentava già come un buffet tanto vasto da lasciarti con l’imbarazzo della scelta.

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C’è da essere magnanimi con gli autori che con Trump non sanno che pesci prendere. L’attuale amministrazione è troppo difficile da ridicolizzare perché fa abbastanza ridere di suo: è la tesi dei creatori di South Park, Trey Parker e Matt Stone, che in qualche puntata del cartone hanno ospitato una marionetta dalle sembianze trumpiane ma poi si sono fermati perché, dicono: “la satira è diventata realtà […] non possiamo più starle dietro”. Anche George “Dubya” fu messo in croce come nessun presidente prima di allora: ma si trattava per lo più di sfottò sull’ignoranza crassa del texano, sulle gaffe, sui malapropismi. Oggi il modello è incomparabilmente più spiazzante. Come ha scritto il curatore d’arte Mohammad Salemy, “le performance riguardanti Trump sono solitamente deboli perché, con modalità cupe e patetiche, la cosa vera è spaventosamente più divertente”.

Déjà-vu
Insomma quando la realtà politica è più grottesca della finzione, quando l’Imperatore si mette a fare il situazionista più dei giullari di corte, l’unico esito concepibile per la satira middlebrow sembra essere qualcosa che in Italia conosciamo molto bene: il Serena Dandini Moment. Mi riferisco a quei salotti televisivi, a quei battutisti e a quella comicità di tipo teatrale concentrati a far fuoco sull’autocrate al governo. Un autocrate che però – nel caso italiano come in quello americano – ha deciso fin dall’inizio di infrangere ogni regola di bon ton, di stravolgere le etichette impastate da decenni di Guerra Fredda, di fare le corna dietro i capi di Stato e chiamare con epiteti irriferibili una Cancelliera che già nella stampa proto-populista veniva storpiata con ogni impropero. E allora, da un lato c’è la malcelata soddisfazione di chi crede di aver indovinato un format, quel senso indefinibile di autocompiacimento che sembrava traspirare da una comicità comunque stagionata, consumata, che sarebbe rimasta a galla in ogni caso; e dall’altro quel perdurante senso di impotenza, quell’ineffabilità dell’élite che sogghigna a ogni rappresentazione indecente che le viene dedicata, scrollandosela di dosso con un cenno della mano.

E se stessimo vivendo uno scambio di ruoli, noi e l’America? Giulio D’Antona, su Rivista Studio, ricordava la prima genia di Dandini & Co., quella “TV delle ragazze” di fine anni Ottanta con Angela Finocchiaro, Cinzia Leone e i giovani fratelli Guzzanti: “Gli elettori di sinistra volevano vedere programmi che gli si rivolgessero direttamente, che scherzassero sulle loro mancanze e che ridessero di quelle degli avversari. Volevano sentirsi riflessi nel mezzo televisivo, non raccontati”. Per D’Antona quel modello andò però evolvendosi verso la fine degli Novanta, diventando qualcos’altro che era meno libero e più incattivito, più ossessivo e meno divertente:

“È a questo punto della storia della televisione che si è cominciato a parlare di Berlusconi come motore unico della satira di sinistra, dimenticandosi che per molto tempo il lavoro di comici e imitatori non aveva avuto niente a che fare con lui. Ed è a questo punto che la “maledizione di B.” ha cominciato a reclamare le sue vittime, ponendo un unico bersaglio e un’unica condizione: quella di non esagerare mai, pena la radiazione dagli schermi.”

Gli autori con Trump non sanno che pesci prendere: l’attuale amministrazione è troppo difficile da ridicolizzare perché fa abbastanza ridere di suo.

Il paradosso è che la tv americana sta entrando nella seconda fase del Dandini Moment proprio mentre noi stavamo per uscirne. Scrivo “stavamo”, perché due anni fa, quando Fabiana Giacomotti celebrava su Il Foglio l’imitatrice Virginia Raffaele e la sua capacità di “far ridere senza acrimonia”, di mettere da parte le istanze femministe e il suo ego (“i tempi sono cambiati e in effetti sono diventati inclusivi e bisognosi di pace e di alleanze”) era chiaro che si trattava di un’apoteosi – legittima, ci mancherebbe – del renzismo e della sua peculiare astensione dalla cattiveria, il suo dover stare simpatici a tutti i costi. Una visione, bisogna aggiungere, seppellita in questi mesi da qualcos’altro che ancora non si sa. Però, mentre noi ci stavamo abituando al moderatismo satirico, alla cultura dei disclaimer e quelle che D’Antona chiama “le derive catechiste à la Roberto Benigni”, ecco che gli Stati Uniti scoprono la disobbedienza civile Italian Style, mediata delle celebrità della seconda serata.

“Perché scendere in piazza quando se ne stanno occupando Stewart e Colbert?”, scrive allarmato Almond. La colpa di questi show anti-Trump sarebbe – nientemeno – quella di “rammollire le persone, non certo di mobilitarle”. Caspita. Ma non ci eravamo già passati noi? Pensate al termine “girotondino”; a cosa evoca, quando viene usato con un po’ di scherno dalle persone di sinistra: non certo la protesta originaria del 2002 intorno al Palazzaccio, il Professor Pardi, quelle cose lì. Bensì quell’universo intellettuale colpevole, secondo l’accusa, di essere eccessivamente compiaciuto e autoreferenziale, che dà del tu e ammicca alla sua controparte televisiva, in una messa in scena forse necessaria, ma che lascia uno sgradevole retrogusto di sconfitta annunciata. Saranno marchiati di “girotondinismo” anche i volenterosi liberal che per la prima volta sono scesi in piazza, o per meglio dire negli aeroporti, contro l’indecente “Muslim Ban”? Solo perché i media americani hanno subito esagerato con le classifiche dei poster più creativi?

Il commediografo George Kaufman ammonì che la “satira chiude il sabato sera”, ovvero che nessuno è disposto a spendere soldi per farsi instillare dubbi, e magari insultare, da una critica pungente. Un po’ il contrario della famosa affermazione del giornalista Henry Louis Mencken, secondo il quale nessuno è mai finito sul lastrico sottovalutando l’intelligenza del pubblico americano. Fatto sta che SNL va avanti da venticinque stagioni – pur con uno share ridotto ai minimi termini – il format dei late show non demorde e quello dei tg satirici è un genere in evoluzione. Sembra di vivere un tempo, in America, in cui la comicità è salita sugli scudi, e le viene chiesto di procurare non solo piccoli piaceri ai progressisti ma di fornirgli pure un po’ di chiarimento morale, e un’appagante scorciatoia per la verità. Come ha scritto Malcom Gladwell sul New Yorker, è un tempo “definito dalla istituzionalizzazione della satira”.

Figo, sembrerebbe: la satira – tradizionalmente l’arma dei senza potere –  è diventata un potere essa stessa, una sorta di Corte Suprema che agisce come correttivo per la comunità, o per tenere a bada l’idiozia delle élite. Non proprio, secondo Jonathan Coe, che ha raccolto le sue contro-intuizioni in un articolo pubblicato sulla London Review of Books dal titolo “Affondare in mare ridacchiando”. Secondo Coe, la cultura satirica anglosassone non è solo una “forma inefficace di protesta” ma, quel che è peggio, un rimpiazzo della protesta. E prova a chiedersi che farebbero nei nostri tempi formidabili umoristi come Joseph Heller o Bohumil Hrabal, che partendo da società veniali, certo, ma pur sempre impegnate a garantire l’ordine mondiale, avevano dipinto strepitosi graffiti di stravizio e opportunismo. Nel 2017 abbiamo il braccio destro di Trump, Steve Bannon, che fa diventare mainstream il filosofo neofascista Alexander Dugin e cita Julius Evola tra le sue ispirazioni. Si può ridere quando sono le frange lunatiche ad aver preso il sopravvento?

Confortati e bersagliati
Ho pensato che fosse il caso di fare un passo indietro e chiedermi cosa pretendo dalla satira che guardo, e quali meccanismi scattano nella mia testa quando mi ripeto: “ecco, non funziona”. Se penso male di alcune performance – oggettivamente ben riuscite – c’entra il fatto che mi infastidisco preventivamente per gli elogi sperticati che verranno dopo? O perché mi infastidiscono le critiche della critica come quella che sto facendo ora? C’è forse del meta, in ballo? Di certo già Platone teorizzava che la forza dell’umorismo risiede nel riuscire a farci sentire superiori agli altri, anche solo per un momento. Freud vedeva la satira come uno sfogo catartico dalle repressioni sociali (da qui le barzellette sul sesso e gli escrementi). Per Hegel è invece il modo per riconciliare due sfere di senso normalmente incongrue (ad esempio il poster con Karl Marx al dj-set). Secondo uno studio di qualche anno fa dell’Università del Delaware, i progressisti tenderebbero a preferire un tipo di satira più ambiguo, perché più appagante e più culturalmente affine a loro; i conservatori, invece, preferirebbero l’iperbole e l’indignazione mirata (da qui il motivo per cui a destra funziona meglio la radio e a sinistra il montato televisivo). “Un buon umorista è una persona che tocca un nervo scoperto, prende a cuore qualcosa e vuole che tu lo prenda a cuore”, ha spiegato Jonathan Gray, esperto di mass media alla Harvard Political Review. Comunque sia, un perenne cruccio della satira sembra essere quello di predicare ai già convertiti, di limitarsi a far gongolare chi la pensa già in un certo modo. Ma non è stato sempre così?

Pochi citerebbero la Bibbia come un esempio di satira particolarmente riuscita. Il linguista Thomas Jemielity è riuscito però a spiegare quanti elementi in comune abbiano la satira e il Vecchio Testamento, citando le innumerevoli volte in cui nelle profezie ebraiche si manifestano concetti come il ridicolo, la presa in giro, l’umiliazione e il disprezzo. Questi giudizi sono centrali per esempio nel lessico di Giobbe, che secondo Jemielity è il testo biblico che più d’ogni altro ci parla del potere della vergogna e del grottesco. Qui c’è un uomo a cui viene tolto tutto per una sorta di scommessa tra Dio e Satana; un uomo molto pio, i cui amici, anziché rincuorarlo, fanno a gara per farlo sentire in colpa. Giobbe allora si danna, maledice il proprio nome, dà praticamente del ficcanaso al suo Signore, ondeggia tra senso di colpa e difesa delle sue ragioni. Alla fine gli viene restituito tutto, con un colpo di scena e senza nemmeno uno straccio di spiegazione. Manca poco per immaginare Steve Carell, travestito da Giobbe, che si toglie la barba finta e si mette a ballare nei titoli di coda di un film prodotto da Judd Apatow.

Una satira – lieve o disturbante che sia – si serve del potere dell’immaginazione per esprimere un certo giudizio, per toccare meglio un “nervo scoperto”.

Il punto è che nella Bibbia così come nel Candido di Voltaire, in un romanzo di Kurt Vonnegut come in un finto TG di Steve Colbert c’è una satira che – per quanto lieve o disturbante – si serve del potere dell’immaginazione per esprimere un certo giudizio, per toccare meglio quel “nervo scoperto” di cui parlavo sopra. Se Comma 22 fu scritto per una società che si risvegliava con le illusioni del primo Novecento in frantumi, la parabola di Giobbe era destinata ad un pubblico che viveva la mortificazione del dominio dei romani: in ogni caso l’umorismo è impiegato per spiegarci che non esiste una relazione meccanica tra comportamento probo e benedizione divina, o tra malefatte e dannazione. Noi, come Giobbe, sentiamo sulla pelle gli effetti di quella che percepiamo essere un’assurda ingiustizia, e ci rifugiamo in una satira che è al tempo stesso persuasiva con noi e punitiva con qualcun altro.

Ciò che accomuna qualunque modello di satira – sia essa biblica, giornalistica o televisiva – è il giudizio dei contemporanei sulla sua efficacia. Dovessimo adoperare il parametro dell’efficacia storica, allora i profeti del Vecchio Testamento ci sembrerebbero dei grandissimi frustrati, incapaci di risparmiare al loro popolo una qualsiasi sventura. Una modesta proposta di Jonathan Swift (1729) ci apparirebbe inutile,  perché di certo non ha alleviato la povertà in Irlanda o prevenuto la Grande Carestia. Alexander Pope concludeva il suo Epilogue to the Satires (1738) minacciando di abbandonare la satira perché essa “era divenuta tanto rischiosa quanto inutile”. Il profeta Geremia accusava i suoi ascoltatori di essere indisciplinati; nei vangeli Gesù si lamentava dell’indifferenza del suo pubblico – manco fossimo in un comedy club di serie B. Eppure, al di là della percezione di inefficacia storica, in questi modelli di critica sociale c’è un’indubbia efficacia retorica, una bellezza del costrutto, una coerenza nell’esposizione che ha fatto sì che giungessero intonsi fino a noi. Del resto, quando giudichiamo positivamente un sermone e decidiamo di tornare la domenica successiva nella stessa parrocchia, raramente lo facciamo perché ci sentiamo trasformati nel nostro agire quotidiano, quanto piuttosto perché avvertiamo nel prete un certo convincimento, un’abilità oratoria che non troviamo altrove.

Difensori dell’Esistente
La satira televisiva in America mi è sempre risultata indigesta non a causa della sua inefficacia storica, dunque (non è certo colpa dei mezzibusti dei late show se Hillary Clinton ha deciso di saltare un paio di visite negli Stati chiave poco prima delle elezioni, o se il partito Democratico è un mastodonte incapace di imparare dagli errori) ma per la sua inefficacia retorica. Il successo – soprattutto in termini di critica – di  Colbert, di Stewart, di Saturday Night Live o di Gawker non può nascondere il fatto che questi santini del pensiero libero siano davvero schizofrenici, incapaci di una critica realmente radicale, e in definitiva incapaci di sviluppare una seria riflessione. Parlo di schizofrenia perché è il sistema mediatico-giornalistico contemporaneo, con i suoi aggiornamenti compulsivi, con i suoi impiegati al desk ormai quasi robotizzati (vedi la famigerata “colonna destra” di Repubblica), con i suoi rilanci passivi di “ciò che si dice in Rete” a rendere inevitabile lo squilibrio di chi legge. Dopo tutto, la possibilità che l’attuale presidente americano abbia compiuto seri crimini sessuali, o abbia una lunga storia di operai sottopagati e in nero dovrebbe risaltare notevolmente di più rispetto al suo deficit di attenzione, alle battutacce riservate all’attrice Rosie O’ Donnell, alle sue letture o alla sua capigliatura. Eppure la nostra dieta mediatica ci porta a consumare tutto in un impasto che prima ci assorbe, poi ci nausea e infine ci aliena.

Come ha scritto Nathan Robinson, neanche le riviste di sinistra più autorevoli sfuggono a questo circolo vizioso: Mother Jones ha pubblicato una bella serie intitolata “The Trump Files”, che includeva una serie di informazioni terribili su come l’attuale presidente usasse i suoi avvocati per mettere a tacere i critici. Ma il tutto è finito sommerso da contenuti in bella vista in homepage come: Donald crede che fare ginnastica può ucciderti ” e “Donald ha girato un videoclip. Non è andata bene”. E su come il presidente sappia usare Twitter genialmente per distrarci e manipolarci, il giornalista Michael Tracey ha detto: “i suoi tweet sono rilanciati immediatamente da tutti i giornali”, e così “colgono l’occasione per stabilire il ‘tono’ della copertura mediatica per quel giorno”. Un vero casino.

Gli eroi della satira amano presentarsi come outsider del Sistema. Ma di questi tempi è davvero così?

Mel Brooks disse una volta a 60 Minutes che uno dei suoi “compiti nella vita” era “far sì che il mondo ridesse di Adolf Hitler”. Meglio una critica incessante a Trump che la depressione, l’autocensura di stampo nordcoreano o il distacco New Age. Purtroppo però non tutti sono il regista di The Producers, e non tutti gli sfottò colpiscono l’obiettivo nei punti giusti. La psicosi massmediale confonde tutto, generando così un rumore industriale di sottofondo difficile da sopportare. L’unica salvezza è spegnere il computer – o la televisione – e uscire.

Gli eroi della satira poi amano presentarsi come outsider del Sistema. “I conservatori sostengono le istituzioni, mentre la satira punta a sminuirle”, ha scritto Alison Dagnes. Ma di questi tempi è davvero così? Senza tirare fuori mostri sacri come Bill Hicks e George Carlin – ahimè deceduti – a mo’ di contraltare, considerate il modo in cui Jon Stewart affrontò gli eventi di Occupy Wall Street nel 2011: l’iniziale tono benevolo non mancava, per carità, ma il presentatore si affrettava subito a dire che “se questa cosa si trasformerà in un lancio di bidoni della spazzatura contro Starbucks, nessuno sarà d’accordo.” Il riferimento era alle proteste di Seattle del 1999. E ha aggiunto, con lo sguardo fintamente tenero rivolto alle telecamere: “Tutti amiamo Starbucks!” Il pubblico ha approvato, ridendo fragorosamente. Oppure pensate all’intervista – praticamente in ginocchio – all’ex segretario di Stato repubblicano Condoleeza Rice, che era al Daily Show per presentare un libro, punzecchiata con domande tipo: “Come ci sente, giorno dopo giorno,  a portare il fardello di dover essere d’accordo o no con una decisione politica?”. Alla faccia della sovversione. Per non parlare poi dell’usanza – tipicamente americana, ma non estranea agli inglesi – di inviare i comici più in auge sul fronte di guerra, per intrattenere le truppe. Nel 2009, la settimana di Colbert in Iraq si trasformò in un bello spottone per i Marines, che ad un certo punto si ritrovarono pure coinvolti in un siparietto con il divo in una delle ex residenze di Saddam Hussein.

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Colbert fa il suo dovere per l’esercito.

Non sono mancati i momenti coraggiosi. Stewart fece un ottimo lavoro nel demolire l’imbonitore finanziario Jim Cramer con una lunga intervista nel 2009.  Molto più spesso, però, le sue chiacchierate in studio sono ben lontane dall’instillare dubbi sui dogmi della società americana: tra i suoi ospiti abituali ci sono volti noti di Fox News; il neocon Bill Kristol è comparso undici volte (un record per la trasmissione). Mi confida lo scrittore e teologo americano Adam Kotsko: “Sono stato a lungo critico del modo di fare satira del Daily Show, che a mio avviso sostituisce alla politica reale una compiaciuta supponenza. L’unico momento nella satira americana recente che ricordo come autenticamente rivoluzionario fu l’apparizione di Colbert alla Cena dei Corrispondenti alla Casa Bianca”.

Kotsko si riferisce ad un celebre episodio del 2006: Colbert era stato chiamato a parlare ad uno degli appuntamenti più insopportabili della politica americana, dove secondo tradizione il presidente è tenuto a prendersi in giro da solo, e di rimando gli inviati della stampa alla White House gli lanciano frecciatine e colpi mai troppo bassi. Quell’anno fu veramente dura per George W. Bush, con Colbert che a pochi metri di distanza e con grande classe elencò tutti i giornali che erano stati a braccetto con lui e avallato menzogne, bombardamenti immotivati, tortura e l’uccisione di civili innocenti. In quel caso ci fu un comico che prese di petto senza sconti il presidente, che allora apparve offeso sul serio.

Poi non si può dimenticare la parte migliore della comicità americana: gli stand-up comedian di sinistra e di successo che sanno essere anche ottimi scrittori e autori televisivi, come Louis CK, Lena Dunham, Aziz Anzari, Amy Schumer o Hannibal Buress, che però hanno scelto altre piattaforme e altri format per veicolare le loro idee, quasi sempre tramite distribuzione via Internet (Netflix, Hulu) o canali via cavo particolari come Hbo. Se è vero che in opere curatissime e smaccatamente intellettuali come la serie tv Louie o Girls si ride spesso di temi non di stretta attualità, ma legati piuttosto alle minuzie della vita, e il punto di vista è pur sempre quello dei bianchi privilegiati, parliamo comunque di storie con una componente angosciosamente politica molto forte, che raccontano di una classe media consapevole del proprio disfacimento e del rischio estinzione: un lavoro introspettivo così denso da risultare a volte persino forzatamente oscuro.

Gli stand-up comedian di sinistra, che sanno essere anche ottimi scrittori e autori televisivi, hanno scelto altre piattaforme e altri format per veicolare le loro idee, quasi sempre via Internet.

Ma oggi il paradosso è questo: nel momento in cui un suscettibile Trump decide di boicottare la Cena dei Corrispondenti, ce la sentiamo davvero di difendere la tradizione infangata? Quando, davanti a duemila dignitari all’annuale National Prayer Breakfast, Trump ha sbigottito tutti pregando per lo share di Arnold Schwarzenegger, conduttore della trasmissione The Apprentice che l’aveva reso famoso, è più assurdo lui o, piuttosto, l’esistenza di un evento chiamato “Colazione di preghiera nazionale”? C’è da rimanere più sconcertati per la bizzarre battute di Trump sul mestruo della giornalista Megyn Kelly (idolatrata per questo da molti giornali di sinistra), o del fatto che la stessa Kelly fino a poco prima s’infervorava contro chiunque sostenesse che Babbo Natale e Gesù non fossero bianchi? Insomma la sensazione è che a volte sia proprio l’indecente Trump a scoprire il vaso di Pandora, e la satira si senta costretta a fare il custode dell’ortodossia.

A dirla tutta, persino la fisicità dei presentatori satirici che vanno per la maggiore ha finito con l’infastidirmi. Mi rendo conto che sforiamo nell’antropologia e del rapporto delle culture col proprio corpo, ma quando vedo un Jimmy Fallon spettinare i famigerati capelli di Trump davanti ad un pubblico in estasi mi sembra alquanto stucchevole, per uno come me che viene da una tradizione di segretari comunisti presi in braccio, comici che tessono “l’elogio del ladro” e altri che simulano impunemente le movenze di Mussolini. Insomma mi rendo conto che questo è un limite, passerò per razzista, ma la compassatezza di certi figuri come Conan O’Brien mi innervosisce, le loro divise tutte uguali mi distraggono rispetto al contenuto, e la facilità con cui tutto questo viene osannato in Italia mi puzza di provincialismo. Vabbe’. Ma una sensazione più generale è che gli attacchi della satira contro Trump siano costretti a partire da premesse piuttosto conformiste, che di sinistra non hanno più niente. Nel momento in cui la stampa liberal parte sparata contro le presunte irregolarità nel processo migratorio di Melania Trump, fa sensazionalismo sulla scarsa familiarità di Trump con la Bibbia e alla sua evasione dalla chiamata di leva in Vietnam, viene spontaneo poi chiedersi come le rappresentazioni culturali alla moda possano rappresentare un elemento di rottura rispetto a certe evidenti ingiustizie.

La campagna elettorale di Clinton è stata caratterizzata da una meticolosa presentazione sui social media e su Internet, e da una lista infinita di VIP schierati per lei. È apparsa allo show di tendenza Broad City, su Comedy Central, deliziando un paio di milioni di giovani telespettatori. Sfidando il senso del ridicolo, Lena Dunham ha ospitato sul suo sito un elogio di Clinton fuori ogni misura persino per Cuba, e l’attrice Amy Poehler ha scritto una “lettera all’America” degna di una recita alle elementari. Che tutto questo non sia servito ad intercettare abbastanza voti in elezioni caratterizzate dalla rabbia populista e dal rancore razziale, è ormai assodato. Il problema, vero, è che la satira americana finisce con il pompare aria nel “grande dirigibile afflosciato della nostra infelice, dozzinale, cultura della marcelebrità”, per dirla come Christopher Hitchens (“celeb-rotten culture”). Le forme culturali moderne possono avere conseguenze paradossali e inaspettate, e non dobbiamo assumere che solamente il tono beffardo di una cultura pop mediocre possa portare nel discorso pubblico una onestà che altrimenti ci sarebbe negata. E dobbiamo ammettere che la cultura pop contemporanea è un medicinale piuttosto scadente per avvolgerci  sul divano durante i nostri lutti.

Paolo Mossetti
Paolo Mossetti è nato a Napoli nel 1983 e ha lavorato a Londra e New York, dove si è occupato soprattutto di anarchismo, antropologia urbana e conflitti. Ha scritto per Domus, Lo Straniero, Rolling Stone e Il Manifesto. Ha un blog: kaosreport.com.

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