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Inizia la rubrica di Cristiano De Majo in esclusiva per Prismo. Non dura che un giorno ogni cosa, tanto ciò che ricorda, quanto ciò che è ricordato.

Il senso comune ci dice che per recensire un giorno – dire se è stato buono o cattivo – si dovrebbe aspettare la sera. Tirare le somme dopo cena, prima di addormentarci: lo facciamo tutti, più o meno consapevolmente. Ma non è detto che sia proprio così. Ci sono giorni che so già che andranno male non appena sono sveglio. Altri, al contrario, in cui apro gli occhi con un sentimento di immotivata fiducia. Altri ancora sono risvegli neutri. In assenza di fatti eclatanti, tali da condizionarmi l’umore, mi chiedo se sia questione di chimica del cervello. O di preveggenza. Nella mia esperienza è difficile che il senso di un risveglio verrà rovesciato nel corso del giorno. La maggior parte delle volte va esattamente come mi sentivo che andasse. In questo senso recensire un giorno è come recensire un libro o un film. Gli inizi contano moltissimo. La differenza è che non puoi smettere di leggere o di guardare.

Mediamente ho sui giorni un’aspettativa altissima, eccessiva; credo dipenda dal lavoro che faccio. Scrivere libri o pezzi ti dà l’illusione che la tua vita possa cambiare da un momento all’altro, anche se di poco. È come giocare al gratta e vinci. Sei sempre, o quasi, alla ricerca di una bella notizia da trovare sul biglietto, di un segno anche piccolo che possa migliorare, se non la vita, almeno il giorno che stai vivendo. È il motivo per cui mi piace fare questo lavoro ed è lo stesso motivo per cui questo lavoro mi sfibra e, spesso, mi fa rimpiangere di non averne scelto un altro con meno cambiamenti da attendere.

Prendi il 27 aprile 2015. Apro gli occhi con il ricordo di un sogno terribile, al punto che  decido di non raccontarlo a nessuno, eppure mi sembra un risveglio neutro, forse perché so che non ha la grana di quei sogni che ti porti addosso per molte ore. Aspetto una notizia che potrebbe cambiarmi un po’ la vita, ma sono abbastanza sicuro che non arriverà, sicuramente non oggi. In questi giorni ho scritto un pezzo che è stato molto condiviso e commentato, e penso che la cosa non abbia modificato il mio umore neanche di un virgola, eppure ci penso come a una cosa da incolonnare negli attivi, quindi probabilmente sono disonesto nel dire a me stesso che non influisce. Il punto è che, col passare del tempo, ho prodotto un’assuefazione ai riscontri positivi e le cose che aspetto diventano sempre più grandi e irrealizzabili.

In cucina accendo il gas e guardo fuori. Piove e non mi dispiace; non sono contrario di principio al brutto tempo, specie se non fa freddo. Mi piace la luce biancastra e senza sole che lascia la cucina scura di mattina presto. Con questa luce, il blu opaco del metano attira lo sguardo con la forza ipnotica di un buco nero. Quando il caffè è pronto, vado in salotto e, come al solito, faccio colazione guardando senza volume Sky Tg24, dove passano le immagini del terromoto in Nepal. La cosa che m’impressiona di più non sono le città in macerie, ma le scritte cubitali che parlano di duecento dispersi sull’Everest per valanghe; m’impressiona l’idea di trovarsi su una montagna gigante che trema. Sullo schermo appaiono le cime aguzze e innevate e un disabitato campo di tende mezze sradicate. Ma poi faccio la doccia. Sveglio lei e, con più dolcezza del solito, i bambini perché ieri è stata una giornata in cui mi sono arrabbiato molto con loro e mi sento abbastanza stronzo, anche se hanno fatto i pazzi. Segue un’ora circa che è ogni giorno uguale. L’ora dei preparativi, della fretta per non fare tardi, dei bambini recalcitranti da lavare e vestire – momenti faticosissimi che se potessi, eviterei – ma anche quei dieci minuti in cui li accompagno a piedi a scuola che mi piacciono molto. Di solito mi chiedono di raccontargli una storia, oppure facciamo il gioco del silenzio. Con la pioggia insistente di oggi, è più faticoso. Hanno piccoli ombrelli di Spiderman e galosce. Si lamentano di non riuscire a tenere l’ombrello con una sola la mano per dare l’altra a me e mirano ogni pozzanghera di questo mondo. Riesco appena a iniziare la storia di Bruce Banner che, dopo essere stato colpito da una bomba a raggi gamma durante un esperimento scientifico, si trasforma in Hulk.

Dopo averli lasciati a scuola, vado a lavorare in un bar, quello dove vado più spesso facendo sempre la stessa strada. Attraverso via Procaccini, imbocco via Lomazzo, incrocio via Sarpi, giro a sinistra, e la faccio fino quasi alla fine. Ho cercato una strada da fare, cioè una strada da fare più o meno ogni giorno, quasi a occhi chiusi, come se sapessi dove sto andando, da quando mi sono trasferito a Milano, nel gennaio del 2015. L’ho trovata dopo un po’. Dopo vari tentativi di strade, di percorsi che finivano da qualche parte – molto spesso un bar – che per qualche motivo non andava bene. Avere una strada è il mio modo per dare routine lavorativa a una vita senza uffici e metropolitane da prendere, una tecnica per godere di una porzione di tempo da non interpretare. Punto verso l’immagine dei grattacieli di Porta Nuova sfocati dalla luce grigia e dal vapore, mentre uomini e donne cinesi alzano le serrande dei loro negozi. Vedo come ogni mattina il vecchio cinese che fuma seduto sotto il gazebo di un ristorante con davanti a sé un vassoio di cose fritte. La retta del tempo si piega fino a congiungere le sue estremità in un cerchio. Ma questo non m’impedisce di aspettarmi qualcosa, di accendere il computer con il senso di qualcosa che può succedere. Mentre mi siedo, alla radio diffusa dalle casse dello Chateau Dufan – così si chiama il bar – danno Don’t Look Back in Anger degli Oasis.  Per pochi secondi ripenso ai tempi del liceo, a quel video con le ragazze vestite di bianco intorno alla piscina e alla mia fidanzata dell’epoca, che adesso è una persona assurdamente lontana da me, anche se sentendo questa canzone potrebbe sentirsi come mi sto sentendo io adesso e ripensare alla sua stanza di adolescente con me dentro, al manuale di storia di quinta aperto sulla scrivania e alla voce di Gallagher sullo sfondo.

Lavoro e non succede niente in particolare. Non arrivano mail che mi cambiano la vita. Scrivo mail. Leggo i testi dei miei corsisti. Retwitto qualcosa. Una giornata normale che, come al solito, faccio scorrere nella speranza che qualcosa che non dipende da me la faccia diventare straordinaria. Fino a quando non smetto di lavorare, succedono due cose fuori, in strada, che rappresentano un’infrazione a questa peculiare e risaputa assenza di tempo. Le guardo attraverso il grande vetro da acquario che sta alla mia destra.

1) Ore 12.30. Due cinesi, uno sui settant’anni, l’altro sui cinquanta – un padre e un figlio, si direbbe – escono dal bar dove mi trovo con un enorme gelato rosa e verde. Piove ancora e si sistemano sotto il gazebo di fronte. Il figlio, che ha in mano il gelato, lo dà al padre, poi sfila il telefono dalla tasca e gli fa una foto in posa con l’enorme gelato in mano. Poi rimette il telefono in tasca, si riprende il gelato e inizia a mangiarlo. Il vecchio, che ha posato con il gelato per la foto, non l’assaggia neanche. Il figlio però lo guarda soddisfatto. Provo a formulare delle ipotesi, ma nessuna sembra reggere. Farsi una foto con un gelato può essere per un cinese come farsi una foto davanti a un monumento?

2) Ore 16.30. Davanti alla facciata laterale di uno dei due caselli daziari di piazzale Baiamonti, quello verso Sarpi, che riesco a vedere sporgendomi un po’ sulla destra, qualcuno ha sistemato due grandi fari da set. Le due luci bianche rettangolari illuminano la parete giallo di pietra, a una distanza ravvicinatissima, ma tra le luci e il muro non c’è niente. Immagino che debba esserci un punto di vista, una macchina fotografica o una videocamera sulla sinistra da qualche parte nello slargo che da qui non posso vedere. Qual è il punto di vista? Guardando meglio mi sembra di vedere delle lastre attaccate ai fari. Lastre con delle immagini, come enormi diapositive, da proiettare, intuisco, ma  dove? Penso a un testo senza punto di vista e senza lettore, un blocco di parole visto di sbieco, con la coda dell’occhio.

Quando esco dal bar, verso le 18.00, i fari sono ancora lì, ma li hanno spenti. Ritornando verso casa mi costringo ad avere un’idea in questi dieci minuti di cammino per un pezzo che mi hanno chiesto di scrivere. La pioggia è quasi finita, a parte qualche filo pungente che cade ancora. Due cinesi – un uomo e una donna – spingono, nella direzione contraria alla mia, delle basse cassettiere bianche a rotelle sul marciapiede e vengono veloci verso di me come se volessero investirmi. In mezzo al rumore di ferraglia prodotto dalle ruote a cuscinetto, distinguo una voce che dice: “Il casino di RCS, non ne parliamo”, seguono risate, e allora mi volto di scatto, attribuendo la frase a un uomo in bicicletta appggiato a un paletto, sui cinquanta, che sta parlando con due donne. Immagino possa trattarsi di un editor, ma solo perché è la cosa più vicina di RCS che ho a disposizione.

A via San Galdino resto colpito dallo stato degli alberi. Mi viene da pensare a quanto non ci accorgiamo dei cambiamenti sopra le nostre teste nelle nostre strade. E penso che, se riuscissimo a seguirli, probabilmente ci sembrerebbero più rapidi di quanto pensiamo. Erano totalmente spogli, dopo che qualche settimana fa erano stati potati, ma adesso le foglie sono già molto cresciute e punteggiano come grosse rane verdi i rami scolpiti a forma di braccia nodose. Bagnati dalla pioggia di oggi hanno preso poi nitidezza. Penso che vorrei sapere di che alberi si tratta, ma che probabilmente non imparerò mai a riconoscerne uno diverso da quelle quattro o cinque forme elementari che conosco.

Quindi l’odore di sugo di casa, i  bambini che stanno nella loro stanza con lei, la voglia di stare con loro, il senso di colpa, gli abbracci, gli scherzi, le urla – “non urlare” – i litigi – “non litigate” – i pianti, le risate. E quell’altro tunnel temporale in cui tutto si ripete: la cena, i pigiamini, il latte, i piatti da mettere in lavastoviglie, la storia prima di andare a dormire. Lei che, in mezzo a tutte queste cose, mi racconta una cosa successa a scuola che le ha riferito la maestra.

Quando esco dalla stanza dei bambini, vado in cucina a fumare una sigaretta davanti alla finestra aperta. Ha ripreso a piovere più forte. Ho questo senso di insoddisfazione come se non avessi fatto abbastanza per i bambini oggi. Poi penso alla mail o alla telefonata che avrei voluto ricevere e che, come sapevo, non è arrivata. Penso anche che sì, è stata una giornata normale, ma mi sembra normale in un modo molto più bello rispetto al tono a una corda in cui stamattina mi suonava la parola normale.

Mentre la sigaretta sta per finire, noto con la coda dell’occhio, verso sinistra, una finestra accesa su un salotto arredato con un qualche gusto, che non mi sembra di aver mai visto. Nuovi abitanti alzano ogni giorno tapparelle svelando salotti appena ssemblati in questo comprensorio che arriva fino alla scala 9. Intanto lei abbassa la tapparella, ma a metà e sfila i pantaloni restando in mutande, di schiena, prima di scomparire dentro la casa. Ricordo che solo pochi giorni fa le ho detto: “Mi piacerebbe vedere una donna che si spoglia nuda davanti alla finestra, non mi è mai capitato”. E lei: “Qualche giorno fa, ho visto le tette di quella di fronte”.

Potrebbe anche essere che, come In omicidio a luci rosse, sia tutto organizzato per incastrarci.

Cristiano De Majo
Scrittore e giornalista, oltre che con PRISMO collabora con Studio, la Repubblica e IL. Il suo ultimo libro è Guarigione (Ponte alle Grazie, 2014).

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