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Come il cosmicismo lovecraftiano si è infiltrato nella cultura pop mainstream, per riflettere un mondo alle prese con sfide troppo più grandi di lui.

Il cuore pulsante del lavoro di Lovecraft è la paura da lui considerata più profonda e innata nell’uomo: quella dell’ignoto. Ciò che non vediamo è più spaventoso di ciò che abbiamo sotto gli occhi, e che possiamo affrontare. Il timore di vivere in un universo privo di scopo e significato, o peggio malevolo, viene ricondotto alle sue radici, la primordiale paura del buio e di cosa vi si nasconde.

Non è mistero che negli ultimi decenni la popolarità di Lovecraft e del suo Mythos sia esplosa, tramutandosi in fenomeno culturale, e per quanto le sue espressioni più fedeli (fra cui spicca una vera e propria bolla di giochi da tavolo di ogni sorta, e in alcuni casi di altissima qualità) siano ancora riservate ai fantomatici nerd, una parte non indifferente del genere è ormai filtrata e ben radicata anche nella cultura mainstream.  Per capire meglio questo contributo però, bisogna prima definire cos’è il cosmic horror tout court.

Gli elementi fondamentali del genere (o sottogenere?) sono l’esistenza di entità antichissime, terrestri o extraterrestri, il cui risveglio o il cui ritorno causerebbero la fine dell’umanità, o di tutta la vita. A contraddistinguere questo tipo di nemico è l’incomprensibilità: queste menti sono aliene nel senso di altre prima ancora che extraterrestri, le loro motivazioni sono imperscrutabili, la loro stessa presenza conduce alla follia. E in generale il cosmic horror è proprio questo: il fallimento completo della ragione, che conduce quindi a una paura totalmente indomabile. Le lingue incomprensibili, i libri illeggibili dei cultisti, la geometria non euclidea, la fugacità della presenza umana nel cosmo: questa ricetta è sopravvissuta a Lovecraft, ed è stata più o meno consapevolmente incorporata dalla cultura contemporanea.

La raccolta The Shadow at the Bottom of the World di Thomas Ligotti.

Recentemente perfino Stephen King ha sentito il bisogno di cimentarsi con un romanzo dedicato alle eldritch abominations: si tratta di Revival, un libro del 2014 in cui Jaime, il protagonista tossicodipendente, si rivolge a un faith healer per farsi curare. Ma i miracolati salvati da questo reverendo iniziano a subire vari effetti collaterali, fra cui la follia. Quando Jaime riesce a mettere il reverendo con le spalle al muro, questi rivela che ha imparato a manipolare una forza fisica simile all’elettricità ma di natura misteriosa, e che spera di usarla per entrare in contatto con le anime dei morti in paradiso. Ma non è il paradiso ad attendere Jaime e il reverendo quando riescono a rianimare un cadavere: è la visione di un aldilà spaventoso in cui le anime dei morti sono condannate a soffrire per sempre le torture di mostri deformi e abominevoli, sorvegliati dall’occhio malefico di una divinità, Mother. Jaime sopravvive all’incontro, e passa il resto della sua vita sotto antidepressivi, consapevole dell’orrore senza fine o ragione che lo attende dopo la morte.

Da parte sua Thomas Ligotti, di cui su Prismo si è molto parlato e che di Lovecraft è considerato il moderno erede, produce una delle storie più lovecraftiane dei tempi recenti nel 1991: The Shadow at the Bottom of the World. Il racconto parla di una città rurale che viene investita da un autunno prolungato, e così forte nel suo impatto sensoriale da essere disturbante (come vedremo, il cambiamento climatico è diventato nel tempo un tropos molto comune all’interno delle storie di cosmic horror). Diversi oggetti inanimati, fra cui uno spaventapasseri, prendono vita, e una volta smantellati riversano una specie di massa nera fungoidale che li animava. Presto l’entità contagia i sogni degli abitanti, per poi spingerli a compiere sacrifici umani, e quando uno degli abitanti si immola sul luogo d’origine del contagio, non sgorga sangue dalle ferite, bensì massa nera fungoide.

Indubbiamente questi casi fanno parte di un rinascimento più grande del filone, ma rimangono comunque opere relativamente di nicchia. Ma proprio come la metastasi nera di Ligotti, il cosmic horror sembra ora essersi aperto la strada attraverso altri generi e altre storie, incastonandosi a fondo così bene da esserne diventato una parte integrante.

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I Reapers di Mass Effect.

Alcune di queste opere posso ormai essere considerate pilastri della cultura pop contemporanea, e quella che più apertamente si rivolge al cosmic horror è curiosamente un videogioco di fantascienza tra i più fortunati degli ultimi anni: Mass Effect. Citato da Io9 come la più significativa space opera della nostra generazione, Mass Effect non è solo una storia di cosmic horror, ma sembra costruire un ponte attraverso la science fiction che parte da Star Trek e Asimov e arriva fino ai thriller politico-militari contemporanei. Tuttavia, i villains del gioco sono di palese ispirazione lovecraftiana: si tratta dei Reapers, un’antichissima flotta di astronavi intelligenti che ciclicamente invade la Via Lattea per sterminarne tutte le civiltà capaci di viaggio interstellare.

I Reapers hanno una forma che ricorda volutamente quella di Cthulhu, e il gioco non perde occasione per sottolineare quanto siano incomprensibili per un mero umano. Parliamo di menti composite definite come immense, che non hanno alcun motivo per scendere a patti con gli umani (e i loro alleati alieni) o anche solo di spiegare il motivo della loro distruzione. La sola vicinanza fisica ai Reapers o ai loro artefatti produce la cosiddetta indoctrination, una forma di controllo mentale che porta al rapido deterioramento dell’equilibrio psichico e della salute fisica della sua vittima. In una trilogia di videogiochi in cui il giocatore è invitato a compiere scelte morali e di natura spesso filosofica, è significativo che l’obiettivo principale della trama – quello di fermare i Reapers – porti a interrogarsi sul ruolo della vita cosciente nella galassia, e sul valore di difenderla contro un’aggressione che sembra provenire dalla struttura stessa dell’universo.

La trilogia di Mass Effect ha raggiunto i 14 milioni di copie vendute nel 2014, e trattandosi di un videogioco, non possiamo sapere a quanto ammontino i consumatori che hanno piratato il prodotto. L’impatto culturale della serie è stato enorme e rivitalizzante per la fantascienza. Con Mass Effect, il cosmicismo lovecraftiano ha trovato un’espressione o meglio ancora una piattaforma aperta al pubblico generalista. Ma la moltiplicazione di questa tipologia di nemici ha interessato, sebbene in forma meno strutturale, anche diverse altre opere mainstream.

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I White Walker di Game of Thrones.

Partiamo dal simbolo della cultura contemporanea televisiva, Game of Thrones (e meglio ancora, la saga di libri da cui è tratta, A Song of Ice and Fire di George Martin). Gli Others (noti nella serie come White Walkers) sono un nemico diciamo così omnicida, che porta con sé cambiamenti climatici devastanti sotto forma di un inverno letale. Sono ancora più inavvicinabili dei Reapers, tanto che non sentiamo mai un Other parlare con un essere umano. Di loro si conosce solo l’origine geografica, l’antichità (l’unica altra invasione di cui si ha traccia precede la trama principale di ottomila anni) e, appunto, il desiderio omnicida.

In una storia costruita sulla molteplicità degli obiettivi politici e sulla moralità grigia, gli Others sono un nemico esterno, altro (ancora), portatore di mutamenti climatici, con cui non si può scendere a patti e di fronte al quale l’unica risposta possibile è la cooperazione. Il primo libro di A Song of Ice and Fire risale al 1996, e le sue prime stesure al 1993, quindi precede Mass Effect di quindici anni. E sia per presentazione che per ruolo, gli Others ricordano molto uno dei Grandi Antichi del Mythos, Ithaqua the Windwalker. George Martin stesso è un noto ammiratore di Lovecraft, e secondo una teoria che si è diffusa a macchia d’olio fra i fan, nel prossimo libro, The Winds of Winter, potrebbe verificarsi un evento catastrofico di omaggio puramente lovecraftiano, ovvero il tentativo di Euron Greyjoy di risvegliare dagli abissi il Drowned God, dalla cima di una torre le cui fondamenta sono state costruite dai fantomatici Deep Ones molto prima dell’arrivo degli esseri umani. Potete esplorare la teoria sotto il suo tag, dal nome alquanto appropriato: The Eldritch Apocalypse.

Sempre in collegamento con il freddo e i mutamenti climatici, l’altro successo videoludico degli ultimi anni, The Witcher (una trilogia di RPG, proprio come Mass Effect) ha anche, come fonte della rottura di equilibri della sua trama, un mutamento strutturale del mondo. A spingere la Wild Hunt e i suoi spettri ad attaccare l’universo parallelo in cui si svolge la serie fantasy, infatti, è il White Frost, un’era glaciale che si diffonde di mondo in mondo come un contagio. Se i libri di The Witcher sembrano proporre, almeno tentativamente, spiegazioni più meccaniche, nel gioco la natura magica del fenomeno viene enfatizzata.

Sebbene non contengano sufficienti elementi del cosmic horror da poter rientrare nel genere, varie altre opere hanno comunque rielaborato codici narrativi di questo tipo, a partire dalla figura del nemico omnicida con cui è impossibile un dialogo. Oltre allo stesso The Witcher si può pensare alla rinnovata popolarità degli zombie e in particolare di The Walking Dead. Nel reboot di XCOM, gli invasori alieni, The Elders, fanno molteplici riferimenti a un nemico vero e ulteriore da cui non c’è scampo. The Expanse, una serie recente di libri space opera da cui il canale televisivo SyFy ha sviluppato una serie TV in corso, ha come rottura dell’equilibrio lo sviluppo metastatico di una molecola replicante di origine aliena, e il titolo stesso del primo libro (Leviathan Wakes) sa di strizzata d’occhio al cosmicismo. E così via.

Dal riscaldamento globale all’insicurezza economica, dalle migrazioni alla globalizzazione, i problemi affrontati dal mondo moderno sono difficilmente personalizzabili.

Questa non può e non vuole essere una lista esaustiva, e sicuramente coi titoli si potrebbe andare avanti a lungo. Quello che però è interessante, è interrogarsi sulle origini del fenomeno. La visione del nemico nella letteratura e in generale nella cultura ha conosciuto una profonda mutazione rispetto alla guerra fredda, in cui gli scenari apocalittici erano innanzitutto associati a una paura della tecnologia e (comprensibilmente) della guerra atomica. Laddove un film del 1983 come War Games sembrava interrogarsi sulla futilità del sistema internazionale bipolare (come dice il supercomputer, “the only winning move is not to play”), oggi la riflessione sembra essersi spostata sul rapporto con la natura, sul proprio posto nel mondo, e sui meccanismi troppo grandi per essere controllati.

Non è un caso che la rinascita del cosmic horror coincida con un ritorno di fiamma del genere post-apocalittico (vedi di nuovo il caso di The Walking Dead). E che tanta narrativa post-apocalittica sembri rivolgersi soprattutto a un pubblico Young Adult (si pensi a The Hunger Games per esempio) è probabile ulteriore indicazione di un mutamento generazionale.

Il filo conduttore che unisce tutte queste ramificazioni quasi cladistiche è proprio quello del nemico inconoscibile, plurimillenario, la cui agenda è indecifrabile. Un genere che era nato come indagine di una paura universale ha improvvisamente acquisito rilevanza sufficiente da potersi incorporare nella cultura mainstream, e sembra riflettere una più ampia ansia sociale: dal riscaldamento globale all’insicurezza economica, dalle migrazioni alla globalizzazione, i problemi affrontati dal mondo moderno sono difficilmente personalizzabili. Non si può sparare in testa a un trend di temperature e non si può discutere a tu per tu con una recessione economica. Nella cultura pop, questo si può esprimere in forme più filosofiche (come Mass Effect o A Song of Ice and Fire), o come commento politico (vedasi l’era glaciale causata dall’uomo nel film Snowpiercer), o come intrattenimento (i cari vecchi zombie, ad esempio), ma è proprio questa trasversalità a sottolineare che la paternità non appartiene a un movimento artistico con obiettivi definiti: è il prodotto di un pubblico, e in ultima analisi di una cultura, la nostra, che si sente smarrita. Abbiamo paura di dove stiamo andando e ci sentiamo impotenti di fronte alla natura sistemica delle nostre sfide, proprio mentre la recessione manda in crisi i valori della classe media universale che erano stati il faro dell’Occidente per decenni.

Prospettive per il futuro.

Si può forse trarre uno spunto di moderato ottimismo dall’importanza attribuita da diverse di queste opere all’idea di cooperazione, sia fra individui che internazionale: in Mass Effect, l’arco principale della lotta contro i Reapers riguarda proprio la faticosa costituzione di un fronte comune fra specie aliene molto diverse e spesso ostili fra loro, con metodi idealisti o machiavellici a seconda delle preferenze del giocatore, e la creazione da parte del protagonista stesso di una band of warriors che sviluppa legami personali, al di là delle proprie differenze, combattendo fianco a fianco. Similmente, la salvezza di Westeros dagli Others sarà possibile solo con la fine delle guerre fratricide all’interno del continente, mentre le questioni dinastiche influenzano considerevolmente il finale della trilogia di The Witcher, e così via.

Da notare che questa tendenza alla cooperazione sembra latitare nelle opere di cosmic horror “puro”, mentre è più presente in quelle fantascientifiche o fantasy che adottano il cosmic horror in un quadro più ampio: ma questa asimmetria è facilmente spiegabile con le differenze di genere e quindi di obiettivi. Il terrore del Revival di Stephen King è cosmico ma anche profondamente personale, e probabilmente espone in narrativa un dilemma familiare per chi soffre di depressione o altre patologie – un senso di completa futilità di fronte alla percezione di un futuro fatto di sole tenebre. Nella narrativa speculativa, che tende a essere più politica e meno personale, la cooperazione ha invece un ruolo centrale. E considerando lo scenario internazionale attuale – dal trattato di Parigi sul riscaldamento globale agli accordi poi falliti sulla Siria – sembra che il cosmicismo contemporaneo abbia quantomeno dimostrato una certa lungimiranza: le soluzioni passano attraverso la politica, e a volte anche attraverso la collaborazione con attori internazionali di cui non si condividono le ideologie. Una tale trasversalità però, si ottiene mettendosi in discussione e ricercando la classica maturazione personale: perché di fronte alle crisi sistemiche che affrontiamo oggi, siamo tutti un po’ Jon Snow. E come lui, non sappiamo niente.

Tullio Pontecorvo
Tullio Pontecorvo è uno studente di scienze politiche e relazioni internazionali, e aspirante scrittore di fantascienza. Potete seguirlo sul suo blog: tulliopontecorvo.wordpress.com

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