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A un anno dalla scomparsa e dal suo ultimo album, ricordiamo David Bowie riscoprendo uno dei suoi periodi più incompresi e anticipatori: quello che nel 1997 lo portò ad abbracciare il postumanesimo raver di Earthling, il suo disco più controverso.

Forse è ancora che i fatti (e il cordoglio) sono relativamente freschi, ma gennaio sembra oramai essere il mese del ricordo di David Bowie, almeno sull’internet. L’8 appena passato era il suo compleanno e il 10 l’anniversario della morte, in una coincidenza consacrata dall’inquietante Blackstar, uscito esattamente in mezzo a l’una e l’altra data. Ma se nel 2017 appena iniziato Bowie avrebbe compiuto settanta anni, questo implica che ne sono passati venti da quel 1997 in cui manifestò pubblicamente la sorpresa di essere arrivato sano e salvo a cinquanta, e in cui pubblicò uno dei suoi album oggi peggio cacati: Earthling.

Di quel disco, due cose sono più o meno rimaste nell’immaginario collettivo: il singolo “Little Wonder”, che fu una mezza hit grazie anche al video di una Floria Sigismondi al tempo quotatissima, e il fatto che si tratti dell’album “drum & bass” di Bowie. La qual cosa, per la maggior parte dei fan accaniti e buona parte degli esegeti meno infoiati, non è per niente buona: anzi, nel  discutere della discografia ufficiale dell’artista, di solito su Earthling si glissa con un certo imbarazzo. Di norma viene bollato come svarione vetero-fichetto, frutto di una crisi di mezza età e prodotto invecchiato male del suo tempo. Già a suo tempo l’ironia dei fan del genere deve essere stata feroce. Cioè, mo’ Bowie si è messo a fare la drum & bass. Vabé.

David Bowie nel periodo Earthling, 1997.

Ovviamente il nostro non era così scemo da avere mai preteso di entrare a far parte della scuderia Metalheadz, per quanto lo stesso boss della label nonché imperatore globale della drum & bass Goldie si fosse impegnato a scacciare gli snobismi facendogli cantare un brano (“Truth”) nel suo Saturnzreturn, sempre del 1997. Il Bowie degli anni Novanta stava semplicemente facendo quello che Bowie ha sempre fatto meglio: pescare suggestioni dall’underground e da culture musicali decentrate, sintetizzarle e poi scioglierle nel suo songwriting per alterarne il gusto. Certo, i detrattori non hanno completamente torto, e a un primo ascolto l’approccio bowieano alla drum & bass in forma canzone lascia lievemente basiti, specie sulla lunga distanza. Ci mette un po’ a farsi capire. Quello che però non fa mai è banalizzare gli elementi del genere di riferimento riducendoli a patina superficiale. Anzi, Bowie capiva benissimo come si articolava il groove hardcore inglese, per motivi indissolubilmente legati alla sua storia musicale e alle mai del tutto taciute influenze jazz che lo hanno sempre accompagnato, ed era stato proprio questo senso di simpatia innata ad avvicinarlo a quello che succedeva in club come il Blue Note di Hoxton Square.

Ma il valore e, contemporaneamente, la benintenzionata goffaggine di Earthling non stanno solo negli elementi musicali più spiccioli. L’immaginario incarnato dal David Bowie di quegli anni in cui era ancora una rockstar a tutti gli effetti (prima della “fase neoclassica” e del ritiro forzato) è intriso di un futurismo vagamente cyberpunk e tipicamente “fine millennio”, sospeso tra le linee primordiali dell’internet a 56k, body modification, tardive suggestioni rave e il lavoro di (allora) Young British Artists come Damien Hirst e i fratelli Chapman, e di performer radicali come Ron Athey. Era stato proprio Athey a scatenare in lui, qualche anno prima, una rinnovata ossessione per il lavoro sul corpo e sui limiti morali dell’arte, riprendendo idealmente la linea delle reincarnazioni artaudiane, delle trasmutazioni sacrificali aliene e delle paranoie totalitarie dei suoi anni Settanta.

L’immaginario incarnato dal David Bowie di quegli anni in cui era ancora una rockstar a tutti gli effetti è intriso di un futurismo vagamente cyberpunk e tipicamente ‘fine millennio’.

Bowie aveva visto Athey in 4 Scenes in a Harsh Life, uno dei suoi primi lavori di auto-immolazione liturgica, e aveva notato come il sangue sieropositivo di lui sfiorasse pericolosamente il pubblico, rischiando di coinvolgerlo. Questo gli aveva ficcato in testa l’immagine di un sacrificio rituale, di un millennio che veniva immolato per fare posto a quello nuovo, segnato evidentemente da un neopaganesimo di stampo più o meno raver. Un’idea non meno che frequentatissima all’epoca, e anzi possiamo tranquillamente dire che su questo Bowie era pure leggermente in ritardo rispetto ai sommovimenti interni all’underground elettronico vero e proprio. D’altro canto, per quanto potesse tenere le antenne dritte, lui quel mondo lo poteva incontrare solo a questo modo: tangenzialmente. L’album che uscì fuori da quelle ossessioni fu 1. Outside, considerato dai più il fratello maggiore di Earthling e primo capitolo di una trilogia di cui in realtà quest’ultimo non fa parte e che non verrà mai di fatto completata.

“Fratello maggiore” perché molto più ambizioso: anzitutto, a quasi vent’anni da Low, in studio con lui c’è di nuovo Brian Eno (si tratta anzi, nonostante la credenza popolare, dell’unico vero album di Bowie prodotto da Eno), il che basta già a rappresentare una nettissima dichiarazione di intenti. Il lavoro di studio conferisce ai pezzi, nati da un fiume di improvvisazioni del duo con la nuova band di Bowie (capitanata dal chitarrista belewiano Reeves Gabrels), toni sospesi tra il noir e l’allucinazione: una specie di electro-funk vagamente industrial e allo stesso tempo barocco, beffardo e un po’ mortifero.

Anche dal punto di vista della presentazione, si tratta di cose fatte in grande: 1. Outside è un vero e proprio concept album, una narrativa sconnessa che riprende il vecchio amore per Burroughs tra intermezzi spoken word e frammenti testuali del diario di Nathan Adler, nuova maschera mai del tutto indossata (in realtà tutte le immagini dei personaggi della vicenda nascono da manipolazioni digitali della sua faccia). La storia, che contiene svariati riferimenti all’AIDS ed espressioni come “no-future priestess of the caucasian suicide temple”, parla di un detective – Adler, appunto – che indaga sull’omicidio rituale di una ragazzina, i cui resti sono poi diventati un’installazione. Più che di arrestare i colpevoli, il suo compito sembra quello di stabilire se si tratta di arte o no.

Insomma, Bowie sembra tornato quello che aveva generato la mitologia di un tempo e che era un po’ andato in letargo durante gli anni Ottanta e i primissimi Novanta: gioca con i piani intersecati della riflessione sull’arte, della sessualità, del capitalismo, delle possibilità dell’evoluzione e dell’interazione con tutto ciò che è “altro” dall’idea canonica di umanità. In generale, i testi dei brani non seguono tutti pedissequamente la storia di Adler, ma spesso deviano o la arricchiscono di elementi che sembrano fare riferimento più al passato di Bowie stesso, pur rimanendo su corde tematiche simili.

In “Hallo Spaceboy”, uno dei pezzi più memorabili, sembra parlare a se stesso raccontandosi ancora sotto forma di ragazzo alieno che, come spesso succede ai personaggi che Bowie interpreta, è completamente estraneo alla situazione in cui si trova e finisce vittima della sua stessa ambizione, oltre che della sua incoscienza. È contemporaneamente Major Tom, The Man Who Fell to Earth e un Moonchild, il messia artificiale di Aleister Crowley. Viene quasi da pensare che sia proprio lui l’agnello sacrificale per l’alba del terzo millennio e non la piccola Baby Blue Grace. Del resto, nei diari di Adler (a loro modo un piccolo saggio di estetica del sangue) sono citati non solo artisti che hanno inscenato forme postmoderne di sacrificio animale (il già citato Hirst) ma anche e soprattutto altri che hanno messo il proprio corpo a disposizione del rituale: Chris Burden, i “castrazionisti viennesi” (ovvero gli Azionisti, Rudolf Schwarzkögler in primis) e, appunto, Ron Athey, novello San Sebastiano (ricollegandosi quindi idealmente anche al lavoro di Eno per Derek Jarman) trafitto e trasfigurato.

1. Outside è insomma una martellata di industrial-rock siderale, tutta basata sulle svisate noise-digitali di Gabrels. Nelle TV e nelle radio Europee ne girò soprattutto una versione remixata in chiave eurodance dai Pet Shop Boys (con l’aggiunta di liriche che ripescano il vecchio Major Tom, il primo a perdersi nello spazio), mentre in America la suona soprattutto coi Nine Inch Nails in versione ancora più steroidale, nel corso di un tour che pare abbia portato più fortuna a Trent Reznor che a Bowie stesso. Sembra infatti che, conclusosi il set dei Nine Inch Nails e i brani eseguiti assieme, a sentire lui resti poca gente. Molti fan hardcore non stanno ben digerendo il nuovo corso, mentre di nuovi acquisti se ne vedono ancora pochi. Ciononostante, sia Bowie che la band sembrano caricati a mille.

È proprio alla fine di quel tour nei primi mesi del 1996 che, Bowie e Gabrels decidono di rimettersi immediatamente a scrivere senza ricontattare Eno e, non si sa ancora bene perché, abbandonando completamente Adler. Il risultato, per quanto ancora cibernetico e futurista, è apparentemente molto più diretto e accessibile di Outside e i testi sembrano avere cambiato rotta. Più che all’industrial rock americano dei Nine Inch Nails (o allo shock-rock apocalittico che in quei giorni Marilyn Manson sta portando al successo dovendogli non poco), Bowie si è appassionato alle ultime derive dell’hardcore continuum della natia Inghilterra. Allo stesso tempo la sua attenzione sembra essersi spostata su un versante diverso di questo neopaganesimo di fine millennio: non più il corpo, non più le nuove forme di crudele sacralità, ma il rave, o meglio la condizione psicologica del raver stesso. Inteso come figura che ha attraversato una dimensione senza tempo per ritrovarsi dall’altra parte della notte cambiato, confuso, perso.

Come lo Spaceboy ricoperto dalle polveri lunari, la voce di Earthling sembra infatti persa tra lo spazio e il tempo: da una parte potrebbe appartenere a un Bowie che nel suo cinquantesimo anno di età inizia a confrontarsi con il tempo che passa, dall’altra potrebbe semplicemente raccontare di una deriva tra stati di coscienza ed emotivi di una intensità inafferrabile, effimera e allo stesso tempo capace di riverberare attraverso la memoria. Non è dato di sapere se Bowie in quegli anni abbia provato a fare uso di MDMA, magari per semplice intento scientifico. Certo, il testo di “Battle For Britain (The Letter)” sembra quasi suggerire che conosca bene una forma di depressione simile al down di quella sostanza:

My, my, the time do fly
When it’s in another pair of hands
And a loser I will be
For I’ve never been a winner in my life
I got used to stressing pain
I used the sucker pills to pity for the self
Oh, it’s the animal in me
But I’d rather be a beggar man on the shelf

Don’t be so forlorn, it’s just the payoff
It’s the rain before the storm
On a better day, I’ll take you by the hand
And I’ll walk you through the doors

Di fatto, molte delle liriche dell’album sembrano divise tra uno stato di empatia totalizzante, che finisce per comprendere o volere comprendere l’universo intero, e il suo contrario una volta che quello stato si è consumato: una necessità di tornare in sé che ha persino a che fare con la paranoia.

Entrambi i versanti della traversata hanno a che fare con lo smarrimento, qualcosa con cui Bowie si è dovuto confrontare più o meno da quando ha iniziato a essere famoso; ma da riferimento autobiografico, questo sentimento sembra ora espandersi ai destini del mondo. Ancora una volta, è la fine del millennio a ossessionarlo, l’incertezza riguardo una nuova era che probabilmente non verrà plasmata a livello culturale dalla sua generazione. Lo smarrimento coincide ovviamente con l’assenza di riferimenti, con la morte delle narrazioni, senza che questa sia necessariamente da intendersi come catastrofe, anzi. Da sempre convintissimo postumanista, Bowie sembra ora più che mai inviare riflessioni dalla soglia tra la condizione umana e la storia che progredisce oltre quei limiti. Non è la tecnologia in senso stretto a garantire questa possibilità, quanto la scoperta di nuove forme di interazione tra gli individui che potrebbero rivelarsi tanto portatrici di una nuova spiritualità concreta quanto di una serie di nuove atrocità.

Earthling è frenetico, frammentato e talvolta claustrofobico ma mai dichiaratamente oscuro come 1.Outside. In mezzo al tempo che accelera e all’informazione che moltiplica esponenzialmente, l’autore-protagonista sembra incapace di riconoscere la sua età quanto la sua posizione nel tempo. È invecchiato, è maturo, sente il peso del tempo sprecato quanto la forza del futuro che gli si spalanca davanti. Già in “Little Wonder”, che apre il disco e liricamente somiglia a un astratto stream of consciousness, riaffiora l’immagine dell’uomo perduto nello spazio, e il refrain “Sending me so far away” non lascia spazio a dubbi. Se 1. Outside era un rituale di sacrificio e iniziazione, Earthling è la prova della visione.

In “7 Years in Tibet”, Bowie fantastica di un monaco tibetano che viene ucciso da un raid militare cinese, ma lo sgomento è superato dall’elevazione. Mentre in “Dead Man Walking” la vita/morte eterna sembra portare verso una condizione di libertà, tra nichilismo attivo e zen. Lo zombie-raver cammina diagonalmente tra le realtà e le epoche:

And I’m gone, gone, gone
[Gone, gone, gone spinning slack through reality]
Now I’m older than movies
[Dance my way, falling up through the years]
Let me dance away
[Until I swivel back round then I fly, fly, fly]
Now I’m wiser than dreams

Il primo piazzava l’artista al centro di un labirinto e di un divenire-animale che lo aveva trasformato in minotauro, questo prende atto che i dedali non si articolano solo nello spazio ma anche nel tempo. Alcuni tratti possono comunque finire in vicoli ciechi, altri vanno percorsi in più di una direzione. È il motivo bowieano più ricorrente: avendoci abituato a non pensare a lui come a un semplice uomo, sembra incerto se portare alle estreme conseguenze questa illusione e, nel caso, cosa fare con quanto di umano ancora ha.

Telling Lies” parla molto ambiguamente di un falso profeta che potrebbe essere pure David stesso: “Me, I’m fast like bad infection / Gasping for my resurrection”. Raccontare bugie sembra allo stesso tempo un modo di raggiungere la trascendenza e mimarla, venderla come un vuoto simulacro. D’altro canto, la sua stessa sublimazione è avvenuta, proprio in quei tempi anche per via finanziaria (attraverso la vendita dei BowieBond), quindi continua a essere sospeso verso la mercificazione consapevole di sé e l’orrore per questo stesso cannibalismo collettivo a cui la fama lo sottopone. Del resto, l’orrore e l’atrocità non sono banditi dall’album, anche se affrontati con un’ironia che sembra quasi ridergli in faccia. Tanto “Law (Earthlings On Fire)” quanto “I’m Afraid of Americans” raccontano di un’umanità in autodistruzione con umorismo zen. D’altro canto, come pronunciato da lui stesso, “la mia scrittura consiste nell’affermare che non esiste una realtà ultima, che non c’è qualcosa a cui potersi aggrappare per definirla”.

Musicalmente, quindi, da una parte Bowie sembra abbracciare intimamente i codici estetici della club culture, dall’altra è proprio la consapevolezza della sua estraneità a quel mondo a fornirgliene un’ottica più completa, prendendo in qualche modo atto dello spaesamento post-rave e chiedendosi in che modo questo possa fornire lezioni per il futuro dell’umanità. Per non farsi mancare niente, in mezzo al tour di Earthling trova il tempo per incursioni segrete, apparizioni clandestine in piccoli club e “tende rave” di festival (usanza tipicamente anni Novanta) in cui lui e Gabrels suonano set totalmente elettronici e perlopiù strumentali. Il nome scelto è The Tao Jones Index, ironizzando sulla quotazione in borsa e sulla spiritualità simulata. La maschera/simulacro dell’epoca è proprio questa: Bowie sezionato e venduto, che permette speculazioni su se stesso. Una specie di eucarestia capitalista, contraddittoria e perfino ipocrita.

Il groove ipercinetico e le poliritmie robotiche che muovono tutto Earthling, l’abbiamo detto, sembrano fornire a Bowie una scusa per riportare sia il krautrock che il jazz nella sua musica attraverso l’influenza di Goldie e Photek, per assemblare i brani in architetture intuitive. È tanto la tecnologia quanto la necessità musicale di mantenere ben bilanciate le dinamiche di forza interne alla band a dargli la necessità di organizzare anche la voce come elemento plastico. Il lavoro sul contributo della band è massiccio, e le qualità di ogni membro vengono sfruttate come uno strumento, con le improvvisazioni collettive campionate e riassemblate, specialmente per quanto riguarda la parte ritmica, Gabrels che si trasforma in una macchina texturale e dronante e il piano di Mike Garson che saltuariamente irrompe a generare cambi di tono, spesso dando un carattere beffardo ai pezzi (l’umorismo zen di cui sopra).

Poi niente: dopo un tour e un mega-concerto di compleanno, la fase futurista volge al termine insieme al millennio per lasciare posto a un Bowie neoclassico, stavolta sì simulacro di un se stesso preesistente, in qualche modo accodandosi alla feticizzazione di un passato iperreale che investirà tutta la cultura popolare nel terzo millennio. In mezzo c’è la partecipazione, come doppiatore e autore della colonna sonora, al videogioco Omikron: The Nomad Soul, in cui è centrale il tema della reincarnazione. Per quanto in quegli anni Bowie inizi a dimostrare una certa insofferenza per la retorica del “camaleonte del rock” che viene usata quando si parla di lui, il fatto di avere immolato così tanti simulacra ed essersi riconvertito in corpi nuovi così tante volte, lo rende perfetto per un tema del genere.

Facendo un salto avanti di quasi un ventennio, la stessa insofferenza e, insieme, lo stesso morboso attaccamento spirituale per i processi di sacrificio-morte-rinascita si ritrovano tutte in Blackstar. In effetti il suo ultimo album presenta parecchi punti in comune con Earthling: anche lì – e nel musical gemello Lazarus, che riprende il personaggio di Thomas Newton da The Man Who Fell to Earth – lo spaesamento, il ritorno dalle/alle stelle, la necessità di confrontarsi con l’ignoto (il tempo, la morte, il passato, la propria eredità) vengono raccontati come una ricerca di libertà. E anche lì il lavoro ritmico sembra dovere più di qualcosa al suono post-UK-hardcore, anche se a suonarlo è una vera e propria jazz band. Quello stesso tribalismo siderale, ripreso con il tentativo di portarlo una volta per tutte fuori dal tempo. Blackstar è la prosecuzione di quel viaggio in forma di eco iniziato nel 1997. Se prima, però, la voce multi-corporea di tutti i Bowie possibili riverberava tra diverse traiettorie temporali, tra cui molte afferrabili e “presenti”, ora riecheggia da un altrove perenne. Per diventare finalmente onnipresente.

Francesco Birsa Alessandri
Francesco Birsa Alessandri legge fumetti e litiga con la gente. Nel tempo libero fa l’editor e scrive di musica. Ha co-fondato Haunter Records.

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