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A meno di 24 ore dall’uscita di Andromeda, il quarto capitolo della serie di RPG fantascientifici targati BioWare, ripercorriamo la leggendaria prima trilogia e scopriamo cosa la rende un capolavoro.

La prima cosa che mi è balzata all’occhio nel momento in cui ho deciso di scrivere una retrospettiva su Mass Effect è che la serie di RPG fantascientifici di BioWare è unica nel suo essere criticata e riverita allo stesso tempo. Più esattamente: è unica per essere criticata minuziosamente e con cognizione di causa dalle stesse persone che, nonostante tutto, la riveriscono. In inglese lo si definirebbe un rapporto di “tough love”, qualcosa che in ambito videoludico non s’incontra spesso.

Per esempio, vale la pena citare questa eccellente serie di articoli in cui si descrive come, fin dal primo capitolo (2007), la saga si sia contraddistinta per la peggiore interfaccia utente mai vista fino ad allora, e di come nei sequel le cose siano addirittura peggiorate: critiche con cui è difficile essere in disaccordo, anche e soprattutto se si è fan.

Del resto, erano fan anche coloro che all’uscita del secondo capitolo (2010) accusarono BioWare di avere imbastardito le meccaniche ruolistiche classiche viste nel predecessore al solo scopo di arruffianarsi l’utenza dei vari Gears of War e Call of Duty; critiche che queste stesse persone – lungi però dall’abbandonare la saga, come generalmente si fa quando qualcosa davvero non piace più – avrebbero ritirato fuori a distanza di due anni per mettere alla gogna il multiplayer-tutto-azione del capitolo finale voluto dall’allora CEO di Electronic Arts John Riccitiello.

A proposito: che dire del malcontento causato dal deludente finale di Mass Effect 3? Premesso che negli anni sono stati scritti centinaia di articoli contro il didascalismo che permea i dialoghi della serie, così come le numerose falle nella trama e la generale derivatività delle tematiche (a ragione, l’accusa è che si tratti di un pastrugnone fantascientifico che “cita” opere iper-inflazionate della fantascienza, soprattutto Guerre Stellari, Battlestar Galactica e Firefly), a memoria d’uomo non ricordo casi recenti dove una fanbase si sia così infuriata per una decisione presa dai creatori del loro prodotto preferito. Eppure, al netto di alcuni episodi che vanno dall’idiozia alla genialità (cioè dalle minacce di morte all’invio di cupcake alla sede Bioware), nacque un dibattito proficuo, perlomeno per gli standard di internet: alcuni parteciparono ad appassionate discussioni circa i limiti della narrativa videoludica; altri misero in evidenza il problema delle pressioni dei publisher sugli sviluppatori; altri ancora, invece, colsero l’occasione per rimettere in discussione il ruolo di consumatore passivo ma anche attivo del videogiocatore contemporaneo, spesso criticandone l’arroganza e l’egocentrismo.

Come si è visto, nessuna trilogia di videogiochi è mai stata passata al setaccio con tanto fervore e, inevitabilmente, ne è uscita con numerose scalfiture alla corazza. Oggi basta aprire internet e se si cercano motivi – spesso concreti, ribadisco – con cui infamare Mass Effect c’è solo l’imbarazzo della scelta.

Gotcha!

Eppure…
Breve aneddoto personale: agli inizi del 2012 dovevo finire di scrivere la mia tesi di Master in letteratura. Mi era chiaro che per intraprendere la carriera accademica avrei dovuto ottenere almeno un magna cum laude e, pertanto, nei mesi precedenti avevo macinato straordinari su straordinari al fine di ritagliarmi tre settimane di calma assoluta in cui dedicarmi anima e corpo al Boccaccio. Quella tesi era la cosa più importante a cui avessi mai lavorato. Comincio, e il primo giorno scorre come previsto. Il secondo, invece, proprio no: travestito da fattorino della DHL, un sabotatore suona alla porta e mi consegna un pacchetto. Ignaro di cosa sarebbe successo da lì a breve, lo apro e dico alla mia ragazza: “Ci do una rapida occhiata”. Poi il buio. Passa una settimana, poi due. Mi risveglio dal sonno della coscienza senza aver scritto una-riga-una della mia tesi, ma con ben quattro playthrough di Mass Effect 3 alle spalle: valore accademico, purtroppo, zero. Sono nella merda fino al collo.

Nonostante ciò, ogni traccia di rimorso o senso di colpa è spazzato via dalla consapevolezza di aver appena terminato la serie di RPG più importante dopo Ultima di Richard Garriott. Di più: la trilogia BioWare è la prova inoppugnabile del potenziale espressivo raggiunto dai videogiochi contemporanei, nonché una dimostrazione pratica di come siano ormai sufficientemente maturi per liberarsi dalla tradizionale sudditanza verso il cinema; e benché le citazioni cinematografiche abbondino, tale liberazione è avvenuta proprio nel momento in cui Mass Effect ha scelto di non scimmiottare le dinamiche espositive della settima arte e di concentrarsi invece sulle potenzialità del medium di appartenenza. Cioè adoperando la tecnologia non per replicare pedissequamente sequenze cinematografiche, bensì per costruire una struttura narrativa come solo un videogioco potrebbe fare: qualcosa che negli anni successivi avrei rivisto applicato – con la stessa autoconsapevolezza ed efficacia – solo in The Last of Us.

L’autore è probabilmente lo stesso del mitico logo delle infrastrutture lombarde.

Mentirei però se dicessi che sono un fan della prima ora. Il 20 novembre 2007 avevo infatti snobbato il primo ME, la cui copertina era – è un fatto oggettivo – così anonima da liquidare il tutto con un sontuoso chissenefrega. Un chissenefrega che sarebbe durato altri due anni, fino a quando l’insistenza di alcuni amici e un sontuoso sconto su Amazon non mi avevano spinto a sborsare 10€ per dare una possibilità low cost al titolo BioWare. Ebbene: a sette giorni dalla creazione del mio comandante Shepard, e a sedici anni dalla pubblicazione di Ultima VII Part 2: the Serpent Isle, il capolavoro Origin era stato finalmente spodestato dal trono di mio gioco preferito. Rispetto ai titoli dell’epoca, di Mass Effect mi avevano colpito fin da subito l’ambizione tematica, la vastità dell’universo e la varietà delle ambientazioni – la missione pluristrutturata su Noveria resterà per sempre nella mia memoria –, ma solo portandolo a termine ripetutamente mi ero reso conto che erano stati soprattutto la trama e i personaggi a lasciare il segno e a farmi soprassedere ogni altro difetto. Fino ad allora avevo coltivato la convinzione che per la loro natura i videogiochi non potessero competere con cinema e letteratura, ma, paradossalmente, ME mi aveva fatto cambiare idea proprio nel momento in cui abbracciava la propria diversità.

Con l’uscita del quarto capitolo, Andromeda, alle porte, dopo tante critiche è quindi venuto il momento di riflettere un’ultima volta sulle ragioni per cui la saga BioWare è così importante. In altre parole: perché ci sono migliaia di adulti che indossano capi “firmati” N7? Perché il numero di fan fiction dedicate alle vicende di Shepard e dei suoi gregari è – fatte le debite proporzioni – degno di franchise come Guerre Stellari e Star Trek? Ma, soprattutto, com’è possibile imbattersi in persone che ancora oggi ricordano con esattezza le decisioni prese in determinati momenti del gioco? E cosa ci dice tutto ciò di noi?

Rispondere a queste domande non solo serve a comprendere il valore di Mass Effect rispetto al medium d’appartenenza, ma ci aiuta anche a ricollocare i videogiochi all’interno della macrosfera dei prodotti d’intrattenimento e della narrativa in generale. E, infine, a capire qualcosa in più su noi stessi.

Prendere le ferie
Prima di definire nei dettagli l’eccezionalità del franchise BioWare, conviene però ripassare brevemente le ragioni che rendevano – e tutt’ora rendono –così tanti videogiochi mediocri sotto il profilo narrativo.

Tanto per cominciare, gli esorbitanti costi di produzione di un videogioco AAA spesso spingono gli sviluppatori verso quello che ritengono essere il pubblico più ampio possibile (semplificando: gente di bocca buona sul piano intellettuale, il cui unico interesse è la conta poligonale). Le risorse vengono quindi destinate perlopiù al reparto artistico o ai programmatori, mentre la trama è considerata semplicemente il filo che lega uno scenario all’altro. Proprio da qui nasce la formulaicità generalizzata tipica dei videogiochi, dove si antepone lo spettacolo ai contenuti (o l’opsis a mythos ed ethos, per restare sul classico), ed ecco perché nel settore abbondano le fantasie di potere tarate sull’immaginario adolescenziale medio-basso, in cui l’interazione prediletta tra il giocatore e il mondo di gioco passa per la canna di un fucile.

Oald but goald: il famoso ‘momento emotivo’ di Call of Duty: Advanced Warfare.

In secondo luogo, così come il cinema degli esordi replicava gli stilemi teatrali, allo stesso modo il medium videoludico ha imitato per decenni il fratello maggiore, sia sul piano formale sia su quello espositivo, mettendo in scena narrazioni prettamente lineari. Ma se agli albori della storia dei videogiochi una simile progressione – da sinistra a destra, livello dopo livello – era comprensibile in quanto dipendente anche da restrizioni tecnologiche, con la crescita della potenza di calcolo nulla è cambiato: i limiti oggettivi di un’epoca passata si sono trasformati nelle tradizioni di quelle successive, diventando parte integrante del lessico videoludico e – talvolta – uccidendo nella culla ambizioni e visioni, oppure limitandole pesantemente.

Guardiamo alla casistica degli ultimi anni: ci sono idee eccellenti zavorrate da meccaniche dozzinali (ti vedo, Bioshock Infinite); ossessioni personali di un creatore che travolgono qualsivoglia coesione diegetica (buondì, Kojima-san); occasionali lampi di genio che cadono in oceani di sequel reiterativi (la sequenza dell’elicottero di Call of Duty: Modern Warfare); saghe interminabili che percorrono all’infinito lo stesso percorso narrativo e tematico (ogni Final Fantasy dopo il VI). Perfino un gioco con personaggi eccellenti, una storia adeguata e meccaniche funzionali può essere rovinato dall’impressione che, in qualche modo, le diverse tessere del puzzle non s’incastrano poi tanto bene: l’esempio più famoso è dato dalle dissonanze ludonarrative dei vari Uncharted, ma il caso più clamoroso è – secondo me – Fallout 4. Nel titolo Bethesda osserviamo infatti da un lato uno dei migliori storytelling ambientali mai visti (la vicinanza tra due scheletri e un passeggino in una stanza, per dire), e dall’altro la trama propriamente detta, che fin dalle prime battute si presenta avvincente e originale quanto un remake di Uwe Boll della interpretazione di Michael Bay di un copione di Roberto Orci. Più grave ancora è però il fatto che gli sviluppatori hanno cercato di imbullonare una narrazione lineare su un medium che non lo è, col risultato di produrre una discrasia tra ciò che la trama considera importante e ciò che invece viene esaltato dal game design: combattere il (o un) male e ritrovare il proprio figlio sono obiettivi importanti sulla carta, ma nella pratica la loro importanza viene meno nel momento in cui l’utente abbraccia le meccaniche di gioco e finisce inevitabilmente per dedicarsi ad attività secondarie – livellare il proprio personaggio, esplorare, cercare specifici oggetti – anziché dedicarsi alla Causa (la mia Sole Survivor ha riabbracciato il figlio dopo 4 anni in-game: peggior mamma di sempre).

Fotina di gruppo (da Citadel).

Anche in Mass Effect avviene qualcosa di simile: mentre si avvicina il giorno del giudizio, il comandante Shepard e il suo equipaggio si dedicano ripetutamente ad attività relativamente frivole; è come se all’alba della battaglia di Stalingrado i soldati sovietici si fossero occupati di svolgere commissioni per i commercianti rimasti anziché prepararsi a scacciare la VI armata dalla città. Ma allora come mai – a differenza di Fallout 4 – questo resta uno dei titoli più lodati per le sue qualità narrative? La mia teoria è semplice: la trilogia BioWare si presenta a tutti gli effetti come una vacanza.

Mi spiego meglio: l’elemento che contraddistingue le narrazioni lineari è il mythos, ovvero la trama, ovvero la sequenza di eventi; sono esperienze “passive” che funzionano solo seguendo la volontà – e un ordine – prestabilito a monte da terzi, tipicamente degli sconosciuti. Di conseguenza, nel teatro peripeteia e agnizione non possono aver luogo all’inizio di una tragedia, così come non si può guardare la quarta stagione di Breaking Bad prima della seconda, e, con buona pace di Gaspar Noé, nemmeno è sensato vedere un film partendo dalla fine per tornare all’inizio. Per converso, quando si va in vacanza gli unici momenti fissi sono la partenza e l’arrivo, mentre la sequenza degli eventi che avvengono tra di essi è del tutto insignificante ai fini del piacere dell’esperienza: ci si ricorda magari “di quella volta che” ci si è ubriacati o di “quella volta che” è successo qualcosa di divertente, ma nemmeno Furio di Bianco, Rosso e Verdone sente la necessità di inquadrare queste cose in un ordine spaziotemporale preciso. Soprattutto, la vacanza è vissuta come un momento di rottura con le proprie consuetudini, in cui visitare luoghi sconosciuti e conoscere persone e culture diverse diventa la nostra attività principale.

Ora: questi motivi non sono esattamente gli stessi che ci spingono a giocare ai videogiochi? La domanda è retorica, ma mi aspetto un’obiezione: se l’escapismo attivo vale per qualsiasi videogioco, allora perché Mass Effect funziona e Fallout no? Per il semplice motivo che, come nelle vacanze vere, la qualità dell’esperienza complessiva è data soprattutto dai compagni di viaggio. E quelli pensati da BioWare sono semplicemente i migliori che si possa avere.

With a little help from my friends
Che si tratti di letteratura, cinema o teatro, il miglior modo per ottenere l’attenzione del pubblico consiste nel creare personaggi con i quali identificarsi o empatizzare, e per far ciò si punta alla mimesi: un personaggio credibile e sfaccettato (verrebbe da dire “umano”, ma la fantascienza ha dimostrato tramite gli alieni che anche il gioco degli opposti sortisce lo stesso effetto) spesso è sufficiente per portare avanti una trama che magari è poco originale o priva di pathos. Ecco perché applaudiamo film in cui un protagonista ben caratterizzato siede su una panchina, mentre fischiamo altri dove un tizio qualsiasi si trova a fronteggiare l’apocalisse: il primo proietta amore, odio, paura e insicurezza come noi, il secondo no. Un eroe moralmente immacolato è noioso, così come lo è un antagonista la cui malvagità è fine a se stessa – non a caso, i greci attribuivano difetti fatali ai propri eroi, e perfino il vangelo mostra talvolta Gesù come disperato, incazzato o violento.

Band of Brothers.

Ecco: nella trilogia BioWare il giocatore non ha solo dei gregari, bensì dei compagni, talvolta addirittura degli amici. Essi sono così ben ideati da risultare unici e credibili al punto da destare empatia nel giocatore, e così succede – non senza sorpresa – che quando Garrus e Tali finalmente si uniscono si è contenti per loro, e allo stesso modo si resta delusi quando si scopre che dietro alla facciata di perfetta compagna di Ashley si nasconde un razzismo viscerale. Il legame creato con questi ammassi di pixel e file audio è tale che in nessuno dei miei molteplici playthrough ho mai ucciso Wrex, anche se sapevo benissimo che se l’avessi fatto il gioco sarebbe cambiato sensibilmente offrendomi esperienze nuove, poiché farlo avrebbe significato andare contro la mia natura; allo stesso modo, mi sono sentito in colpa per aver tradito Liara in ME2 e, quando nel DLC Shadow Broker mi ha accusato di infedeltà, ho provato autentica vergogna. In un cast così ben scelto e caratterizzato (tanto sul piano etnico quanto su quelli culturale e sessuale, va sottolineato), perfino la stereotipata monodimensionalità del soldato James Vega torna utile per apprezzare ancora di più la ricchezza umana degli altri.

È per queste ragioni che ho adorato alla follia l’espansione Citadel, anche se tecnicamente è puro fan service: organizzare una festa dove i propri amici-compagni cazzeggiano tra loro mentre altrove i Reaper distruggono pezzi di galassia cessa è un’assurdità che diventa accettabile nel momento in cui si accetta la non-linearità del medium e la sua natura di prodotto d’intrattenimento diverso.

Una diversità attorno a cui ruota l’intero Mass Effect 2 – per me il capolavoro della saga –, dove l’importanza attribuita alla caratterizzazione degli NPC raggiunge lo zenit e dove la presenza del miglior cast della storia videoludica mi spinge a parafrasare la tagline di Salvate il Soldato Ryan: “La missione è il team”. Del resto, fin dall’uscita del trailer di lancio (che, per pura coincidenza, anticipò il successo di quella Heart of Courage utilizzata all’inizio di ogni partita di Euro 2012), l’obiettivo del gioco era chiaro: non essere eroi solitari, bensì formare un equipaggio con cui lanciarsi in una missione apparentemente suicida. Coerentemente, l’ordine con cui si approccia questo o quell’altro membro è irrilevante, mentre a contare è la qualità del rapporto che si instaura con loro e tra di loro; simili dinamiche relazionali sono poi esplicitate sia nei dialoghi tradizionali, cioè quelli che coinvolgono attivamente il giocatore, sia in quelli “occasionali”, ovvero quelli che avvengono in autonomia tra i personaggi controllati dal computer. Ebbene, soprattutto questi ultimi sono così ben realizzati e credibili che in più di un’occasione ho affrontato missioni scegliendo la mia squadra a prescindere dalla sua efficienza operativa, assecondando invece la mia personale curiosità narrativa al solo scopo di scoprire quali fossero i rapporti tra di essi (questa forma di “dialogo occasionale” è stato poi ripreso efficacemente dal già citato The Last Of Us e decine di altri giochi, non per ultimo il recente Final Fantasy XV, anch’esso fortemente incentrato sul concetto di amicizia). Per non dire delle ore passate a sentire cosa aveva da dire il mio – sì, il mio – equipaggio a bordo della Normandy e assistere così alla conversione dell’omicida, al manifestarsi della profonda spiritualità dell’assassino e, perché no, anche solo al ladro che scrive lettere d’amore al soldato.

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Thane <3

Vista quindi l’enfasi sui rapporti interpersonali e sui personaggi, non deve stupire che ben due DLC siano stati battezzati con i nomi di specifici personaggi, e che in essi si affrontino missioni orientate soprattutto a integrare le rispettive biografie: per esempio, si difende Tali durante un processo; si investiga il figliol prodigo di Thane; si seduce la figlia assassina di Samara. E nemmeno è una coincidenza che molte delle missioni abbiano a che fare con legami familiari interrotti: dopotutto, nella serie si mostra una galassia nel mezzo di una crisi, e mostrare la dissoluzione di famiglie e amicizie è uno dei modi più efficaci per avvicinare il lettore ai personaggi, rappresentando in termini comprensibili le ripercussioni concrete di eventi altrimenti troppo grandi per essere compresi fino in fondo.

Normandy & Shepard BFF
A questo punto sono solo due gli amici della vacanza che mancano all’appello: la Normandy, l’astronave su cui viaggiamo, e Shepard, cioè noi. Chi pensa che per loro natura questi non possano essere dei personaggi – per quanto atipici – si sbaglia. Cominciamo dalla prima.

Ah, la Normandy. Glissando sui tempi di caricamento passati nei suoi ascensori, nel corso della trilogia la SSV-Normandy è assurta a tutti gli effetti al ruolo di coprotagonista: nel primo capitolo è un semplice palcoscenico per i momenti più comici – o drammatici – della trama a quartier generale; nel secondo, dopo la sua distruzione, viene ricostruita e dotata di un’intelligenza artificiale che la trasforma in un quartier generale senziente; infine, nel terzo, con il trasferimento della IA in un robot dell’equipaggio (interpretato da Tricia Helfer di Battlestar Galactica, la cui Caprica 6 resta uno dei migliori umani artificiali della fantascienza recente), essa diventa a tutti gli effetti una creatura al nostro pari. Un’antropomorfizzazione di un mezzo la cui importanza viene ribadita nell’ultimo DLC di Mass Effect 3, il già citato Citadel, che ambienta lo scontro finale su quell’esatto ponte di comando da cui Shepard ha impartito ordini per centinaia di ore e da cui abbiamo visto dispiegarsi la galassia. In un ecosistema fantascientifico popolato dai vari Millennium Falcon, Enterprise, Serenity e Galactica – astronavi iconiche di narrazioni iconiche – è sorprendente come l’elegante Normandy sia riuscita a ritagliarsi uno spazio nei cuori e nelle menti degli appassionati: tornare a bordo dell’astronave era come tornare in un hotel a cinque stelle dopo una giornata in spiaggia, e in tal senso, per quanto la mia trepidazione per Andromeda sia alle stelle, penso che la Tempest avrà molta strada da fare per riempire il vuoto lasciato dalla Normandy. Ci mancherai.

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E anche Joker.

E poi c’è Shepard. Fatico a trovare parole per descrivere adeguatamente l’ammirazione che provo per BioWare e per come siano riusciti a creare un protagonista interamente personalizzabile, ma al contempo dotato di una personalità che trascenda quella del giocatore. Pensateci: creare qualcosa che il giocatore senta come proprio, ma che non sia un semplice contenitore sterile in cui riversare le proprie fantasie. Non è facile.

Certo, in generale disporre di un contesto di fantasia aiuta: laddove nel nostro mondo una donna di colore vivrebbe giocoforza delle situazioni diverse da una sua controparte bianca e maschile (ecco perché GTA non permette di creare personaggi, mentre Saints Row punta a un parossismo così estremo da annullare ogni pretesa di realismo), in una realtà alternativa è possibile circumnavigare molti di questi problemi spostando questioni controverse su altre razze o, più generalmente, ricorrendo a parabole. L’ambito fantasy è pieno di esempi – limitando lo sguardo all’ambito videoludico, basti pensare alla saga di Dragon Age –, ma quello fantascientifico è forse più interessante ancora, poiché consente di immaginare un futuro verosimile, in cui i problemi dell’oggi sono già stati affrontati – in un verso o nell’altro – e che è possibile comprendere senza grandi sospensioni dell’incredulità.

Mass Effect però si spinge molto più in là: non solo permette di personalizzare in ogni dettaglio l’aspetto e la personalità del proprio Shepard (sesso, etnia, orientamento sessuale) e di scegliere il proprio background (con ripercussioni pratiche concrete, come per esempio l’impossibilità di intraprendere determinate missioni nel primo capitolo), ma, soprattutto, offre la possibilità di modificarne i tratti caratteriali nel corso dell’avventura. Il sistema di scelte morali adottato, pur non essendo perfetto sul piano etico (si premiano gli estremi), è nei fatti ciò che consente davvero di “giocare un ruolo”: basti pensare che al termine di ME3 è possibile ripercorrere le scelte e le azioni compiute in precedenza e tracciare così un profilo psicologico completo sia del proprio personaggio, sia, di rimando, di se stessi.

Il bello è che tale sviluppo di personalità avviene in maniera naturale e senza che il giocatore conosca le ripercussioni nel medio termine che determinate scelte o risposte avranno sulla trama: per esempio, se nel primo Mass Effect si uccide Wrex, nel terzo sarà il suo fratello più debole Wreav a condurre la razza dei Krogan in guerra; quanto ai compagni morti nella missione suicida del secondo episodio, essi resteranno morti, alterando radicalmente la struttura del sequel. Il numero di possibili combinazioni lascia ancora oggi senza parole e mostra l’assoluta devozione di BioWare nei confronti dell’idea di storytelling non-lineare, nonché le possibilità in materia offerte dai videogiochi. A questo punto poco importa il deludente finale dell’ultimo capitolo: dopotutto, una vacanza resta bella anche quando le valige arrivano in ritardo.

Uno schema della trama in Mass Effect 3 (immagine tratta da Entropymag).

Ciò che conta, invece, è che per tre giochi e centinaia di ore Mass Effect ha saputo offrire i migliori comprimari della storia dei videogiochi; una galassia ricca di storia e cultura, ma anche mistero; una seconda casa e, malgrado qualche svista qua e là, un modello da seguire per quel che concerne la scrittura dei dialoghi in qualsiasi medium. Per questi motivi, quando verrà il giorno in cui si riconoscerà ai videogiochi la stessa dignità in materia di narrazione riservata ai libri e al cinema, Mass Effect sarà considerato il titolo che ha portato all’emancipazione l’intero settore.

Ora tocca ad Andromeda.

Paul Engelhard
Paul Engelhard nasce a Seoul nel 1978, e cresce tra Corea, Germania e Milano. Residente a Bonn, quando non parla di videogiochi cerca di finire la sua dissertazione sul Boccaccio.

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