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Cosa succede quando in un mercato escono a breve distanza due capolavori? Che di uno non si parla abbastanza. È il caso di Horizon Zero Dawn, e siamo qui per rimediare.

Due settimane, due milioni e seicentomila copie: questi i più recenti dati di vendita dell’action-RPG Horizon Zero Dawn, uscito in esclusiva per PlayStation 4 sotto l’egida Guerrilla Games lo scorso 28 febbraio. Un successo tanto imprevisto quanto indiscutibile, sia in termini assoluti sia, soprattutto, se si considera che a venderle non è un franchise affermato, bensì una nuova IP creata da uno studio noto per aver sviluppato in precedenza degli FPS tanto accettabili quanto anonimi.

Ma allora perché sentiamo la necessità di difendere questo gioco? Perché purtroppo – si fa per dire – a distanza di appena quattro giorni dalla sua pubblicazione, sul mercato si è fatto vivo un altro gioco eccezionale: ci riferiamo a Breath of the Wild, che, in tandem con la nuova console Nintendo, ha stupito per la vastità, la profondità e la freschezza dell’offerta ludica.

Ora: premesso che da queste parti siamo concordi nel definire la nuova avventura di Link un capolavoro, il problema è che lo scroscio dei pur meritati applausi ha finito per ammutolire mediaticamente Horizon Zero Dawn, che dal 3 marzo in poi è riaffiorato nelle conversazioni tutt’al più nel ruolo di perdente predestinato. La percezione che se ne ha è quindi distorta, tutta virata al paragone più o meno forzato col titolo Nintendo, quasi che si trattasse di giochi realmente simili; un problema perfettamente riassunto da questo pezzo di The Verge, intitolato sobriamente “Perché Breath of the Wild è il futuro dei blockbuster e perché Horizon Zero Dawn è il passato”.

Eccola qui, allora, la necessaria “difesa” del titolo: fermi restando i pregi dell’ultimo Zelda, e soprattutto la ventata di freschezza portata dalle sue meccaniche, il rischio è che non si parli abbastanza di quelli di HZD. Che non è affatto il passato, bensì un esempio da prendere a modello per il futuro degli open world, in cui l’originalità della direzione artistica si accompagna elegantemente alla trama, ai personaggi e alle meccaniche di gioco. Certo, presi singolarmente questi aspetti possono sembrare concettualmente già visti, ma in questo caso è l’esecuzione dell’insieme a risultare straordinaria; e se non siete convinti vi invitiamo a passare in rassegna le decine di giochi che ogni anno compiono gli stessi sforzi, eppure falliscono miseramente (impossibile citarli tutti, ma, restando al passato più recente, un saluto a Ghost Recon: Wildlands lo facciamo volentieri).

Horizon Zero Dawn, quindi: il modo migliore che abbiamo trovato per parlarne è stato partire da due punti di vista diametralmente opposti tra loro: quello del consumatore ossessivo-compulsivo di open world – Reiser – e quello che invece preferisce le esperienze più lineari, Simone.

Reiser: Nello scambio di mail preparatorio mi hai scritto che di solito gli open world ti fanno cagare: “cominciamo bene”, ho pensato, però poi hai immediatamente chiarito che nonostante ciò Horizon ti è piaciuto, malgrado condivida sulla carta molte delle stesse scelte di design che rendono indigeribili altri titoli. Non capisco – o forse sì, ma dillo con parole tue.

Simone: Il problema che ho con gli open-world è che non riesco ad abbandonarmici. Razionalmente capisco che quell’infinità di quest, sottoquest, collezionabili e rewards (che ormai è lo standard per il genere) sia lì proprio per perdersi nel mondo, ma a me provoca solo ansia. Ho aiutato il mercante? Ho collezionato le gemme? Cos’è che dovevo fare? Questo accento sulle “cose da fare!” ammazza il coinvolgimento, perché troppo figlio di quella scuola di role playing (vecchia quanto il termine) in cui la storia è un mezzo per il potenziamento del personaggio e non viceversa. Voglio dire: se mi fermo per aiutare una vecchina a ritrovare la sua capretta, e lo faccio nell’ottica di guadagnare 400 XP e due pozioni anziché per il piacere di fare una cosa buona per la gente del villaggio, secondo me è un problema. È un approccio all’avventura che è burocratico e che nasce da un design burocratico; fatto sta che non solo non mi appassiono alla storia, ma, peggio ancora, non mi appassiono al mondo.

Reiser: Il gameplay da pony di Foodora: vai qui, prendi, vai là, consegna: eccoti il salario. Chiaro. Quei giochi con mappe sterminate che ti obbligano a fare più giri della merda nei tubi e nel frattempo ignori tutto quel popò di mondo che gli sviluppatori hanno creato: è il problema della maggior parte degli open world contemporanei, dove lo spazio che separa il punto di partenza da quello d’arrivo è tanto vasto quanto inutile dal punto di vista ludico. È un problema tipico del design di molti titoli UbiSoft, in cui si rimpiazza il vuoto di idee nella costruzione del mondo con una mole di lavoro spropositata richiesta al giocatore, che nei fatti lo spinge a muoversi su binari poiché gli unici significati si trovano al termine di essi. Ma sparare sulla croce rossa è facile; piuttosto, trovo significativo che perfino un titolo iperlodato come The Witcher 3 soffra di queste logiche “efficientiste”, dove si corre da un lato della mappa all’altro per portare avanti la trama e, onestamente, badando poco ai dettagli.

Simone: Però c’è una differenza. Perché, semplificando, se mi sono appassionato alla storia ho almeno voglia di andare avanti con la main quest; se invece mi sono appassionato al mondo ecco che improvvisamente tutti quei simboletti scemi sulla mappa diventano mistero, curiosità, opportunità; e all’improvviso l’importante diventa partecipare, e allora aiutiamo la vecchina a trovare la capretta perchè in quel momento è la “nostra” vecchietta nel “nostro” mondo.

Reiser: E questo, in effetti, Witcher lo fa, principalmente perché è scritto bene, ma anche perché – al di fuori delle missioni – lascia abbastanza spazio all’esplorazione. Ma lasciamo stare gli altri giochi e passiamo a Horizon: ti confesso che nei primi dieci minuti mi sono cascate le braccia nel vedere come si macchi di molti dei peccati tradizionali del genere. Per esempio, indica a monte il da farsi e il dove farlo; evidenzia i collezionabili con precisione certosina; per non dire dell’eccesso di informazioni presente a schermo, che a momenti ti pare di pilotare un F-15 più che impersonare una cavernicola futuristica. Ho avuto un déja vu di Far Cry Primal, e per me non è un complimento. Senonché – e così arriviamo alla Redenzione©, per quanto mi riguarda del tutto inattesa – dopo breve le cose migliorano esponenzialmente. Un po’ per autodisciplina (disattivare il 95% dell’HUD e usare la mappa il meno possibile aiuta); un po’ perché l’estetica del mondo di gioco e i riferimenti (a metà tra Terminator, Nausicaä e i Dinobot) sono realizzati benissimo; un po’, infine, perché il mistero che avvolge la terra del 3060 è reso molto bene dallo status di outsider della protagonista, Aloy, la cui conoscenza del mondo – ovvero la nostra – cresce in maniera naturale a ogni missione. Premesso che a differenza tua sono ancora lontano dal finirlo – sono un po’ oltre l’arrivo a Meridian, per capirci – per ora la progressione è stata un piacere, in quanto ho riscontrato un raro effetto domino tra gli elementi “nozionistici” (la sceneggiatura e il background narrativo, diciamo) e quelli “geografici” (l’esplorazione e l’azione). Gli uni portano agli altri e viceversa, in una serie di giochi di sponda molto piacevoli che mantengono altissima la curiosità.

Simone: Non per fare il guastafeste, ma le cose peggiorano a partire dalla metà gioco, anche perchè nella seconda parte l’avanzamento tra una main quest e l’altra diventa molto meccanico: sappiamo sempre dove andare e perchè, e la protagonista sembra un po’ troppo padrona della situazione per una post-cavernicola. Tuttavia, se anche so di dover marciare attraverso mezza mappa già conoscendo l’obiettivo, l’esplorazione è sempre avvincente in virtù di un’ambientazione davvero ben costruita. Il volano continuo tra preistoria e antichità, tra western e pre-colombiano, tra medioevo e fantascienza, è ben congegnato e ti lascia piacevolmente spaesato, estremamente classico ma costellato di particolari incongrui nella miglior tradizione del post-qualsiasicosa giapponese. Mi spingerei fino a definirlo “vibrante di vita”, tecnologia compresa, che si manifesta in forma di grandi animali robotici, cavalli e tigri, struzzi e coccodrilli…

Reiser: Ecco, fammi fare il puntiglioso: per me pure troppi, proprio in senso quantitativo: in Horizon non passa un minuto senza che ci sia questo o quel mostro da cacciare, e alla fine non è possibile esplorare in santa pace senza avere l’ansia che salti fuori un uccellone di acciaio che ti accoppi. E poi: proprio la natura del bestiario mi ha richiesto una sospensione dell’incredulità non da poco. Cioè: l’assunto è che il mondo è stato riazzerato da una specie di Skynet che mille anni fa ha fatto un culo così all’umanità, giusto? Ma mi dirai mica che i carri armati del 2060 son stati gremati da caimani cibernetici e blatte king size, vero? Per carità, son belli e divertenti da cacciare, ma per ora la loro esistenza è stata un LOL continuo ogni volta che ci pensavo.

Simone: E invece – NO SPOILER! – hanno un motivo ben preciso per essere così. Chiaro che se fossero stati solo una bella trovata non saremmo qui a parlarne, ma poi tutto va al suo posto.

Reiser: Me lo auguro. Comunque sia, è pacifico che una volta accettata la premessa ci si trova in un mondo francamente fighissimo, che fa coesistere preistoria e tecnologia di seconda mano in maniera efficace.

Simone: Ma che l’ambientazione fosse originale si sapeva, non era una dote nascosta: io l’ho comprato per questo, e penso anche tu, no?

Reiser: Sì, però ammetterai che vada vissuta per essere davvero apprezzata. Mi spiego meglio: di giochi ambientati in futuri postapocalittici ne abbiamo visti centomila, eppure nessuno si è spinto tanto in là nell’unire realismo e fantasy come Horizon, e spesso restano troppo legati al concetto di mondo-rotto-ma-aggiustabile. Per esempio, The Last of Us “funziona” emotivamente proprio nel momento in cui ci mostra gli effetti della decomposizione della società, rappresentata da Joel, contrapponendoli però alla speranza di un futuro nuovo e migliore, personificata da Ellie. Speranza che è ulteriormente rafforzata dal fatto che in quel gioco son passati sì e no 20 anni dal collasso, e quindi tornare a un “prima” è possibile. Idem quando esploriamo gli scenari di un eventuale olocausto nucleare, tipo nei Fallout: anche lì non abbiamo mondi distrutti, bensì mondi da restaurare, soprattutto nelle reincarnazioni più recenti (la Boston del quarto capitolo sembra più la Detroit di oggi che non una città vittima di un’esplosione nucleare). Insomma, gira e rigira alla fine non abbandoniamo mai la società da cui veniamo. Horizon, invece, fa tabula rasa del “nostro” mondo e in cambio offre qualcosa di radicalmente diverso che al contempo è pure plausibile, e, dunque, intimamente comprensibile. Di per sé non è nulla di nuovo: esistono numerosi esempi di letteratura (Un cantico per Leibowitz), fumetti (Bloodstar) e cinema (Il pianeta delle scimmie) dove si è visto qualcosa di simile, ma mai prima d’ora era stato possibile viverlo. La prima volta che ti addentri nelle rovine semi-irriconoscibili di una città, o quando passi dai paesaggi bucolici esterni alla freddezza di vecchi bunker, è impossibile restare indifferenti e non farsi mille trip su come siano andate le cose.

Simone: Anche le varie tribù che incontri godono di questo effetto “tabula rasa”: sono un mix di azteco e di inuit, antico romano e pellerossa, tutto spolverato con un estetica scrapper-mecha che restituisce molto bene l’idea di culture ricostruite in fretta e per necessità, mescolando avanzamento tecnologico dove si poteva e superstizioni quando non c’era di meglio (o di peggio), hanno quell’equilibrio tra familiare e spiazzante che ti fa mettere comodo nella fantascienza.

Reiser: Mi è anche piaciuta la naturalezza con cui si scoprono abitudini, storia e tradizioni delle tribù del Colorado (spoiler?) post-postapocalittico. Il crescendo con cui la protagonista apprende la storia del “suo” mondo è ben ritmata, con un’esposizione che raramente scade nel didascalismo e che comunque è sempre legata alle proprie azioni. È una merce abbastanza rara nei videogiochi in generale, ma soprattutto negli open world, che spesso si accontentano di spezzare l’esperienza in fasi ben distinte di azione e di apprendimento (ripenso a Skyrim, che pure adoro, dove il 90% del background storico della terra è relegato in centinaia di libri scritti male).

Simone: Ecco: se mi sono perso in questo mondo è perché ogni aspetto del gameplay (o quasi) è al servizio dell’esperienza complessiva. In un certo senso è vero quello che hanno scritto – che HZD è il passato degli open world e che non inventa niente in termini di meccaniche –, ma è anche vero che il mix è a tutti gli effetti una riuscitissima selezione dei migliori elementi del genere, e che ogni sua parte (dal crafting alla navigazione, fino alla gestione delle quest) è ben bilanciata, e contribuisce ad arricchire l’esperienza narrativa senza mai interferire. Ti faccio un po’ di esempi: quando esplori, stai esplorando un territorio sconosciuto, con l’impressione che dietro ogni montagna possa esserci un indizio più o meno esplicito sulla backstory e sul passato del mondo; anche il maledetto crafting (che in genere odio al punto che pur di non farlo abbasso il livello di difficoltà) qui è organico rispetto a un contesto dove si smontano le macchine abbattute per riutilizzarne i componenti per i propri scopi; infine, naturalmente, c’è la caccia alle macchine, che è un’esperienza elettrizzante e curatissima nei dettagli. Sono nettamente più forti di te, padrone del territorio e, perlomeno all’inizio, imprevedibili. Di conseguenza, sei costretto a studiarne i movimenti, le debolezze, i punti da colpire e le armi da mettere fuori uso, ma tutto questo è un piacere perché – ancora una volta – essendo completamente immerso nel mondo di gioco fai quello che ti sembra naturale, prima ancora di quello che il gioco si aspetta da te.

Reiser: Perché in un certo senso le macchine fanno davvero paura. Un po’ per il design, certo, ma soprattutto per il loro comportamento. La prima volta che incontri il Sawtooth riconosci subito che è una tigre pimpata, ma mentre di solito le tigri nei videogiochi lasciano indifferenti, visto che di solito hai mitra e lanciarazzi con cui ucciderle, in questo caso, col fatto che avevo il mio arco marcissimo e poco altro, solo a vederlo sono andato in paranoia. Questo è perché – ne parlavo l’altro giorno con Paul Engelhard, pure lui grande fan di HZD – il combat system è perfettamente calibrato sull’atmosfera del gioco. A differenza di altri “giochi con l’arco”, come gli ultimi due Tomb Raider o i vari Far Cry, dove oltre un certo punto si dispone di un arsenale così vasto e potente che ne mina l’utilità intrinseca (che me ne faccio delle frecce se ho un lanciafiamme?), nel titolo Guerrilla si deve costantemente far uso di tutto ciò di cui si dispone e farlo al meglio; devi perciò ricordarti di forze e debolezze di ogni singolo nemico, scegliere i giusti tipi di frecce, studiare il terreno e via dicendo. Non esiste sovralivellarsi o avere le armi migliori: un Ravager o un Thunderjaw vanno comunque cacciati con intelligenza e conoscenza, non affrontati a viso aperto, perché puntualmente ti fanno secco in uno o due colpi (consiglio spassionato: giocatelo a livello hard). Infatti, ancora adesso, nonostante la mia esperienza li renda meno difficili, in media ci metto venti-trenta minuti per tirarne giù uno come voglio io – cioè senza scontri diretti – di cui dieci passati a disseminare trappole sul terreno, hackerare mostri di passaggio da usare come distrazione, studiare vie di fuga e via dicendo. Anche perché ogni volta che sento i loro versi, a metà tra un ruggito e il rumore di una fresatrice (l’ho già detto che il sound design è fenomenale?), penso “ok, se non sto attento sono morto”. Ecco, Horizon ti cala davvero nel duplice ruolo di predatore-preda, il che non è scontato se si pensa che finora l’unico che ci era riuscito era stato Monster Hunter.

Simone: Sì, le bestie sono disegnate benissimo. Sono tante, ma ogni first encounter è un bel momento, e se calcoli una side-quest ciascuna diventano almeno quindici bei momenti. Avvistarle la prima volta mentre si fanno i fatti loro è un emozione (ma anche quando ti tendono un agguato) e alla fine ti ci affezioni anche un po’. Dopo un po’ mi dispiaceva perfino doverle cacciare: in un’occasione dovevo trovare un “cuore” di Trampler (un robo-bisonte) ed ero partito con l’idea di doverne ammazzare anche una decina prima di ottenere il drop giusto. Invece ne ho trovato uno già morto – completo di cuore – ai piedi di una collina, e mi sono sentito felice: non tanto per aver risparmiato 10-20 minuti di caccia, quanto per lo scampato massacro. Oppure: stavo aggirando un lago a dorso di uno Strider (un robo-cavallo), quando sono arrivato in un punto in cui la “riva calpestabile” finiva, costringendomi a continuare a nuoto. Mi sono tuffato, abbandonando lì lo Strider (tanto ne avrei trovato un altro), ho nuotato e, dopo un po’, ho sentito un gran casino alle mie spalle. Mi sono voltato e ho visto che due Snapmaw (infamissimi robo-coccodrilli) avevano trovato il cavallo, intrappolato in quel vicolo cieco dove io lo avevo portato, e lo stavano facendo a pezzi. Mi sono sentito una merda.

carico il video...

Reiser: È lì che ti accorgi che la tua incredulità non è nemmeno sospesa, è proprio volata via. E questo partendo da una narrativa che, sulla carta, mi era parsa sinceramente una stronzatona col botto: “In un mondo postapocalittico dove animali biomeccanici dominano il mondo”… non si può sentire. O magari sì, ma lo derubrichi d’istinto ai film coi mostri grossi da vedere giusto per passare un’ora e mezza ma non un minuto di più. Invece qui, dopo manco cinque ore, al netto di qualche spiegone di troppo e dell’occasionale dialogo marcio, mi sono accorto che la storia mi aveva preso eccome, complice anche un cast di doppiatori (soprattutto Ashly Burch, ma anche Nicolette McKenzie, e aspetto con ansia il capitano Daniels di The Wire) che si son dati da fare fornendo quelnonsoche di credibilità in più ai personaggi. Per restare al paragone col cinema: Horizon è un bel film d’azione, e dio solo sa quanto siano difficili da trovare.

Simone: Premesso che se l’avessi giocato doppiato in italiano gli avrei tolto uno o due voti su dieci, io invece ci speravo che non fosse una “stronzatona col botto”. Dai primi filmati su YouTube si vedeva che c’era un lavoro di design che voleva lasciare il segno, quindi l’unica cosa da sperare era che gli altri elementi fossero all’altezza. Certo, tante cose sono al minimo sindacale, ma hanno il principale pregio di essere al servizio dei temi centrali, mentre altre spiccano. In particolare, ribadisco, la backstory: tutti i misteri per cui la Terra è diventata così, e cosa è successo ai vecchi esseri umani e chi minaccia i nuovi e via dicendo. Con il progredire del gioco ho trovato un’impalcatura molto più complicata di quanto mi aspettassi, che, pur non essendo impeccabile e scricchiolando qua e là, resta un vero piacere da ripercorrere: ha le progressioni giuste, due o tre momenti WTF, i colpi di scena, un botto di dettagli. Figurati che l’ultima volta in cui mi sono appassionato così tanto nelle fasi di esplorazione – dove ritrovi le registrazioni del passato e grazie a esse ricostruisci cos’è successo – è stato con Bioshock (nessuno si arrabbi, Bioshock è Bioshock). E poi, forse la cosa più importante, il modo in cui il passato della Terra e quello della protagonista si intrecciano funziona alla grande. Questo costruisce un doppio binario d’interesse che, paradossalmente, aiuta anche la storia a procedere in maniera più cadenzata. La storia di fondo non è mai una corsa contro il tempo, ma un lento viaggio di scoperta, che come tale a volte può anche prendersi i suoi tempi. Che il giocatore vada dritto all’obbiettivo o che si prenda la libertà di guardarsi intorno, in entrambi i casi funziona. Per capirci: a volte ti sembra giusto aiutare la vecchina a trovare la sua capra o andare a caccia di robostruzzi solo per dare il tempo alla protagonista di metabolizzare tutte le informazioni sconvolgenti sul suo passato che ha scoperto nella missione precedente. Ed è subito RPG.

Reiser: Detto questo, a voler fare gli sbirri c’è da dire che è abbastanza imbarazzante la nonchalance con cui Horizon pesca a piene mani dall’immaginario di Terminator e, soprattutto, da Nausicaä della valle del vento. Voglio dire: mille anni dall’apocalisse + protagonista coi capelli rossi + tribù di fricchettoni che viene attaccata da tribù di merde umane + sfruttamento di una tecnologia letale del passato… per me c’è abbastanza materia per una causa.

Simone: Ma ben venga citare Nausicaä! Per come la vedo io potrebbero uscire sedici eredi di Nausicaä all’anno e avrebbero tutti una buona possibilità di essere figate.

Reiser: Più che altro, dopo aver storto il naso all’inizio, la sensazione di plagio è passata nel momento in cui ho imparato a conoscere la protagonista e i suoi comprimari, in media così ben caratterizzati che le loro vicende, per piccole che potessero essere, mi stavano a cuore. Certo, in generale non mi dispiacerebbero sottotrame più ramificate – ma si può applicare lo stesso discorso fatto poco tempo fa per la trilogia originale di Mass Effect: soprattutto nei videogiochi, la trama propriamente detta è secondaria rispetto ai personaggi, e se tu me ne fornisci di validi – anche solo degli archetipi, perché no?, mica stamo a ffa’ Kubrick – riesci a trasmettere molto meglio il contesto generale e lo spirito del gioco, che è poi quello che conta. Da questo punto di vista è anche azzeccata la scelta di dipingere Aloy come una reietta che deve apprendere il funzionamento della società, rispetto alla quale è considerata una “esterna”: nonostante abbia una sua storia ben precisa, essa è a tutti gli effetti il giocatore, ben più che il Geralt di The Witcher. Esattamente per questo motivo il coinvolgimento è totale, tanto che le opzioni nei dialoghi diventano davvero scelte personali slegate dal gameplay: rappresentano non scelte, bensì sentimenti (BTW bravi i Guerrilla che li hanno slegati da meccaniche di bonus/malus).

Simone: Sì, vero. Niente ammazza di più il role playing che pensare: ora tradisco quello così sblocco il Cazzotto del Traditore. Altra cosa su cui sono stati bravi: Aloy è un personaggio femminile giovane e con tanti problemi, ma non per questo è un personaggio drammatico. Ha quel tono “cazzaro in faccia alla morte” che in genere è riservato agli uomini: Nathan Drake sì ma Lara Croft no, per capirci.

Reiser: Beh, in questo è aiutata dal fatto che in HZD i personaggi maschili che ho incontrato finora non fanno una bella figura. Anzi, per dirla tutta la maggior parte mi pare composta da minchioni…

Simone: E tu sei ancora all’inizio! Non è una brutta figura, è una colossale débâcle del maschio, così implacabile da essere quasi comica. Non ho mai visto niente in cui universo femminile e maschile siano così distinti: gli uomini sono tutti deboli, narcisi e insicuri al punto che vorresti prenderli a schiaffi. Alcuni hanno bisogno di una guida femminile per fare bene, altri sono solo matti e portano guai, se non morte e distruzione. Per fortuna le donne sono forti, altruiste, cazzute, più o meno empatiche a seconda dei casi, ma sempre portatrici di soluzioni e vita. Nella storia principale, nelle storie secondarie, nella backstory, questo stesso schema si ripropone come un mantra, ogni scontro dal più piccolo al più grande è tra un principio maschile negativo e un principio femminile positivo. Una scelta ardita, a tratti in odore di ingenuità, ma che in definitiva paga: si rivela (come sempre, l’avete capito) centrale per la storia raccontata e conferisce molta identità al gioco (a posteriori quanto gli animali meccanici).

Reiser: Vero – e tra l’altro il fatto che si noti così tanto la dice lunga sugli standard del genere e di genere. Comunque sia, arriviamo alle conclusioni: se dovessi riassumere il valore di Horizon in una parola?

Simone: Equilibrio. Ogni aspetto di HZD è ben equilibrato e non ti stanchi mai di fare qualcosa (un po’ come succedeva in Uncharted 4, ma qui non c’è una trama lineare a garantirlo). Ciò che ho apprezzato più di tutto è però come viene gestito il rapporto tra main quest, side quest e cosette varie da fare; ogni volta che qualcuno chiede qualcosa alla protagonista, lei risponde sempre nello stesso modo: farò il possibile, se ho tempo, ci provo. Da una parte si dimostra interessata, dall’altra ci tiene a precisare che ha anche altro a cui pensare. Sembra poco, ma a me ha tolto tutto lo stress di avere venticinque cose in sospeso, che poi è quello che mi fa odiare gli open world. Giocando ho fatto molto più del necessario, ma ho anche ignorato le cose che mi sembravano inutili (su tutte, sgomberare i covi di banditi, davvero l’apoteosi del boh): però non ho mai avuto l’impressione che mi stessi perdendo qualcosa di fondamentale, né tantomeno di essermi attardato troppo mentre il destino del mondo si dipanava in mia assenza. Ancora una volta, l’equilibrio.

Reiser: Nell’attesa di finirlo, invece, io scelgo inaspettato. Mai avrei detto che di tutti gli studios proprio i Guerrilla Games sarebbero riusciti a tirare fuori un gioco che, al netto di qualche occasionale sbavatura, riesce a combinare tre elementi di per sé molto forti e difficili da affrontare – narrativa, open world, caccia – restituendo un prodotto che, prima di ogni altra cosa, è davvero immersivo. È un’immersività simile a quella provata in Red Dead Redemption, dove da un lato si assiste allo svolgimento della storia, ma al contempo ci si mette nei panni del protagonista in quelle più libere. Il giocatore non è né spettatore, né protagonista, bensì attore. Ecco, Horizon Zero Dawn è un gioco che si interpreta, e in più dimostra come dalla sintesi di meccaniche già viste possa nascere qualcosa di nuovo, a condizione che vi sia un’idea forte alla base. Così è stato peraltro anche con Breath of the Wild, seppure con intenti diversi e un focus sull’esplorazione molto più marcato; per cui – posto che si tratta di giochi sostanzialmente diversi tra loro – se proprio si vogliono fare paragoni, definire uno il futuro e l’altro passato è una fesseria buona per il clickbait e basta. Per nostra fortuna, sono entrambi il presente.

Costanzo Colombo Reiser
Costanzo Colombo Reiser è nato a Milano nel 1981. Di professione grafico, nei tempi morti preferisce scrivere di musica, politica o altro. Ha scritto per Il Mucchio, L'Ultimo Uomo, Rivista Studio e L'Uomo Vogue, ed è caporedattore area gaming di Prismo.
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Simone Laudiero scrive romanzi per ragazzi e sceneggiature per la tv e per il web con La Buoncostume.

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