Ascoltiamo gli ultimi album di Babyfather/Dean Blunt, Parquet Courts, PJ Harvey, e la raccolta della serata Progresso per Halcyon Veil.
Felice domenica a tutti. Oggi proviamo a raccontarvi l’ultimo lunare progetto firmato Dean Blunt, gli diamo di indie rock coi Parquet Courts, riesumiamo PJ Harvey dalle polveri dell’alternative ruock, e salutiamo la piccola raccolta-manifesto della serata milanese Progresso. Buon ascolto!
Babyfather – “BBF” Hosted By DJ Escrow
(Hyperdub)
Nuovo progetto dello sfuggente Dean Blunt, Babyfather è nominalmente una band di tre elementi che si presenta come critica e parodia degli odierni act hip hop statunitensi, calando la narrazione in sobborghi britannici abbozzati e caotici, e con il tono grave di Blunt contrapposto a quello pitchato e stridulo di tale DJ Escrow (quasi sicuramente interpretato da lui stesso).
BBF è un mostruoso audiodramma in 23 tracce che sfiora l’ora di durata, e sfrutta espedienti tipo suonerie di cellulari, citofoni, clacson, rumori di bombolette spray e chiacchiericci assortiti, per ricreare un’ambientazione tipicamente urbana. Il tema dell’identità, l’indecifrabile macigno da sempre al centro della produzione di Blunt, viene schiaffato in faccia all’ascoltatore sin dall’intro, ripetendosi con minimi scarti a metà album e nella chiusura: “this makes me proud to be British” è il mantra ripetuto fino allo sfinimento su un placido arpeggio di chitarra classica e archi leggeri, ma quale sia il soggetto, il motivo di questo orgoglio, non ci è dato sapere. La materia sonora è a sua volta un malatissimo potpourri che oscilla tra fascino e fastidio, buttando in mezzo hip hop (quello dei primi anni zero in Greezebloc, quello pesantemente anni ’90 con richiami trip hop di Killuminati), dub appiccicoso (Shook, N.A.Z e Deep), puntate harsh noise (PROLIFIC DEAMONS e Flames) e il classico mood bluntesco minimale ed enigmatico (The Realness e il loop di archi e feedback di Esco Freestyle).
Ci sono anche i featuring di Arca e Micachu, che sono piacevoli ma non essenziali all’interno del quadro dipinto dall’ex Hype Williams. O forse più che di quadro si dovrebbe parlare di qualche muro crepato di una periferia londinese, imbrattato da tante tag quante sono che tracce che compongono il disco. (Andrea Nannerini)
Parquet Courts – Human Performance
(Rough Trade)
Non ho in alcun modo intenzione di raccontarvi quanto Human Performance sia una specie di meraviglioso mix di Sonic Youth, Pavement e altra roba indie che ha fatto girare la testa ad almeno tre generazioni. Che noia. Nessun elenco di riferimenti tranne un nome che va citato per un’unica e fondamentale ragione: è primavera. Mentre lascio la stazione di Milano Rogoredo circondata, oltre i palazzoni di nuova costruzione, da sterminati campi di fiori giallissimi, penso ai Television di Marquee Moon, penso alla Venere di Milo ardita di Venus, un pezzo che è la perfetta rappresentazione armonica di due questioni riducibili a una: l’innamoramento e la rinascita, la pagina svoltata che la vulgata chiama proprio primavera.
Così, mentre penso intensamente a Marquee Moon come a un disco primaverile perfetto da cui l’umana performance sul pianeta non può sfuggire, ecco che spunta la pazzesca title track di quest’album di questi quattro tizi di Brooklyn che mi fanno dimenticare tutto l’orribile e invernale noiosissimo indie replicante di se stesso e mi fanno volare tra le braccia di Tom Verlaine. E allora vi racconto di questi arpeggini tossici e vitali, di questa dolcezza intorpidita da Nico con pupille ultradilatate, di quanto Peraphresed e Berlin Got Blurry raccolgano eredità sparse (oltre agli stessi Television, Modern Lovers, Magazine) ma vadano a sperperarsele in birrette sul fiume verso le sette e mezza di sera. Se avete voglia di nostalgia, Human Performance è il disco che fa per voi, se la nostalgia invece non vi va, dai, com’è possibile? Che follia. (Giulia Cavaliere)
PJ Harvey – The Hope Six Demolition Project
(Island)
Quando, cinque anni fa, è tornata sulle scene abbracciando un’autoharp tradizionale, alcuni fan affezionati alla PJ Harvey tutta eccessi e Telecaster sono trasaliti. Colei che ci aveva trascinato nelle sue altalene emozionali, provocandocene altrettante con riff ruggenti da una parte e poemi sofferti dall’altra, ci presentava un concept album sulla prima guerra mondiale, curato perfettamente in ogni dettaglio sonoro e registrato in una chiesa del Dorset. Tempo due o tre ascolti però, e anche i più scettici hanno fato pace con l’evoluzione artistica di una PJ che, combattuti i demoni personali, decide di raccontarci quelli universali della guerra in Let England Shake.
Nel frattempo PJ ha viaggiato tra Washington DC, Kosovo e Afghanistan con il fotografo Seamus Murphy. Il risultato sono un libro di poesie e foto, The Hollow of the Hand, e un’ultima fatica discografica: The Hope Six Demolition Project. Strati di chitarre e fiati, cori maschili in lontananza, brani ciclici (su tutti il singolo d’esordio The Wheel), e poi le tematiche sociali. Se quindi da una parte The Hope Six è un prosieguo di Let England Shake (o almeno di quel modo di fare i dischi) dall’altra se ne distanzia: il messaggio politico è meno deciso e la Harvey stessa si fa fotografa insieme all’amico Murphy, restituendo una realtà nella quale però l’impronta personale è più leggera; mentre musicalmente i nuovi apporti sperimentali appresi nel 2011 si uniscono alle sue sonorità rock più tradizionali, creando una nuova, interessante terza via. (Laura Marongiu)
AAVV – Conspiración Progresso
(Halcyon Veil)
Evviva, finalmente i Vipra su disco! Cioè, ok: Lento violento è una collaborazione a quattro (sei) mani col portoghese Nigga Fox, e d’accordo, il brano lo conoscevamo già da un paio d’anni, ma insomma: meglio tardi che mai. In realtà la cosa più interessante di questa breve compila in formato EP è, come dire, il quadro complessivo che se ne ricava: la raccolta è stata curata da Jim dei Primitive Art, e già dal titolo rimanda alla nota serata Progresso che sempre Jim & soci organizzano da tempo a Milano; a sua volta, Progresso funziona un po’ come naturale appendice/referente della pluricitata crew di Janus (la serata berlinese dei vari Lotic, M.E.S.H. ecc ecc); e infatti il marchio Janus viene abbondantemente sottolineato in presentazioni e cartelle stampa. Infine, fiancheggiatore di Janus è anche l’americano Rabit, sulla cui etichetta Halcyon Veil viene pubblicato il disco. Quindi capite, è tutta una famiglia, no? Il famoso network.
Venendo ai contenuti: non so bene come descrivervi questa Conspiraciòn Progresso e quindi mi limito a ricordare che, oltre alla succitata collaborazione tra Vipra e Nigga Fox, contiene tracce di nomi magari non proprio conosciutissimi come Bekelé Berhanu, HVAD, Zutzut e Draveng. La geografia che ne viene fuori è a dir poco frastornante: si va da Copenaghen a Lisbona, da Monterrey a Roma, da Berlino a Milano, e la musica è un collage di poliritimi africani, kuduro spastici, svisate finto-HD, e boh, chissà cos’altro. Nel suo piccolo, è un concentrato che vale come manifesto della club culture più avventurosa, eccitante e idiosincratica che sia dato conoscere da qualche anno a questa parte. Bravo Jim, grazie Rabit, un saluto a Janus e bella pe’ Vipra. (Valerio Mattioli)
La redazione di Prismo vive in una cascina nelle colline tra Busto Arsizio e Varese dove passeggia per i campi ragionando su paradossi filosofici e coltivando marijuana così potente che la puoi fumare solo in un bong costruito dentro la tua mente.