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Ascoltiamo gli ultimi album di Anohni, Chance the Rapper, Dwarfs of East Agouza e il nuovo EP targato PC Music.

Questa domenica trattiamo male un noto rapper nordamericano, vi sveliamo le meraviglie di un terzetto di tizi strani trapiantati in Egitto, affrontiamo l’ennesimo disco “politico” di questa stagione, e finiamo impantanati nel bubblegum pop di un’aspirante internet junkie. Buon ascolto!

Anohni Hopelessness
(Secretely Canadian)
Qualche giorno fa leggevo un articolo del Guardian, scritto da Tim Jonze, secondo il quale fin dal titolo il nuovo disco di Anohni è “il più profondo disco di protesta da decenni a questa parte”. Decenni? Due decenni? Tre decenni? Più profondo di RATM? Holly Herndon? Punkreas? Fatima Al Qadiri? Difficile dirlo.  

Alleggerendo il discorso del tasso di iperbole tipico dell’internet, significa che si tratta di un disco con un qualche tipo di messaggio politico. Il che, tutto sommato, è pure vero – gran parte dei testi sono assolutamente espliciti, sicuramente più di quanto la cantante abbia abituato in passato il suo pubblico, a patto che si sia d’accordo sul fatto che il personale non è più pubblico da decenni a questa parte – ma considerato che in Hopelessness c’è almeno una canzone (“Watch Me”) sul fatto che la privacy è una delle più grandi issue del nostro tempo, forse i dischi passati di Anohni erano ugualmente o anche più espliciti. E a quei tempi, in realtà, la dimensione umana di molte composizioni di Antony and the Johnsons permetteva di arrangiare la musica in autonomia per andar dietro alle arrampicate vocali della cantante.

Hopelessness invece è realizzato da Anohni assieme a Oneohtrix Point Never e Hudson Mohawke, e ognuno dei tre sembra sempre frenarsi un pochino per evitare di far franare il terreno sotto al culo degli altri due. E il risultato finale del disco, più che “il più profondo disco di protesta da decenni a questa parte”, diventa piuttosto la perfetta incarnazione di un compromesso storico che – effettivamente – rende bellissimi e vertiginosi molti episodi dell’album (tipo “Violent Men” o “Why Did You” etc etc). E altre volte affoga la musica in un mare di vorrei ma non posso che sicuramente suonano molto meno interessanti e liberi di quasi tutto quello a cui Anohni (figurarci HudMo e OPN) aveva messo mano fino ad oggi. (Francesco Farabegoli)

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Dwarfs of East Agouza – Bes
(Nata Recordings)
Ho ascoltato questo Bes, scritto e registrato da Maurice Louca, Alan Bishop e Sam Shalabi nell’arco di un anno e mezzo in qualche studio del distretto di East Agouza, Il Cairo, in almeno quattro situazioni molto diverse. Potrei suggerirvi di assumerlo guardando qualcuno cucinare uova strapazzate con coriandolo in polvere per la vostra colazione, oppure di provare a utilizzarlo come spazio sonoro perfetto per passare dal sonno alla veglia alle 5.30 della mattina, dopo aver preso coscienza di un incubo appena finito ed essere quindi pronti a passare alla realtà.

Esiste in questo lavoro dalla trama sonora per noi inevitabilmente esotica, una cifra classica e tradizionale che non va scambiata per assenza di estro e che si affianca e favorisce, piuttosto, l’onda sciamanica, profonda che lo alimenta più del giochino vecchio lui sì del suono per forza da inventare. Qualcosa di tribale ma insieme funk, fatto di tappeti infiniti, reiterazioni classicheggianti di ritmi interstiziali che non trovano pace ma sanno trasmetterla. Un disco quieto dell’altro mondo, inquieto, per la nostra irrequietezza oscena. Battiti cardiaci serrati transoceanici che non consumano e si lasciano felicemente consumare. Consigliato di punto in bianco con la casa piena di gente, magari proprio in questa domenica pomeriggio, per mettere tutti in silenzio. (Giulia Cavaliere)

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GFOTY VIPOTY
(PC Music)
GFOTY può essere catalogata come sorta di “lato oscuro” della PC Music: laddove personaggi come Hannah Diamond e QT esprimono tendenzialmente allegra solarità e sentimenti positivi, lei rappresenta l’internet junkie emarginata che sogna la ribalta, una specie di gothic lolita sfigata i cui pensieri sono tutt’altro che puri: “If I had a chance, to make a tiny wish / It would be for all the other girls to die / And let me get by, on my fucking own” come canta in “All the Love I Had”.

Il suo nuovo VIPOTY è un prodotto crossmediale – EP, cortometraggio, sito web e applicazione per smartphone – ma limitandoci al contributo musicale possiamo definirlo un lavoro di pura schizofrenia freak-pop, concentrata in tracce dove convivono momenti sing-a-long e staffilate caustiche di synth detunati in odore di trap (vedi “Amazing”), o anche versi piano e voce da provino per Disney Channel che evolvono in ritornelli pop-punk dove la prima cosa a cui pensi sono dei Blink 182 a cui sono stati appioppati dei synth e una voce femminile (“Got My Chad”). La vera chicca weird è però “Poison”: parte d’ignoranza bass in tempi dispari senza lesinare sulle distorsioni, procede affilandosi come lame in jump-style, buttandosi poi su un ritornello ancora dalle reminiscenze pop-punk (sì, sempre i maledetti Blink in testa, e a questo giro troviamo pure quella che sembra proprio una chitarra elettrica), il tutto declinato in sincopi malate come solo PC Music, degenerando attorno alla metà con rincarata dose di accordi acidi e ritmiche sclerotiche. Uno si aspetterebbe di finire la corsa tranquillamente sconvolto nel delirio più totale, quando a cinquanta secondi dalla fine ce ne vengono concessi una trentina di cascate orchestrali quasi dream pop. Ma era una burla, la chiusura è secca, colpi ben assestati dove la nostra scandisce il titolo della traccia.

In breve, dieci minuti di delizie pop adolescenziale spesso al limite dell’umanamente sopportabile, che starebbero bene in un’incrocio virtuale tra uno stadio gremito di quindicenni e una versione parodistica di un teatro di Broadway, frullati in mostruosità sintetiche difficili da prevedere. (Andrea Nannerini)

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Chance the Rapper Coloring Book
(Apple Music)
A fine 2013 era impossibile leggere una lista dei migliori mixtape dell’anno senza imbattersi in Acid Rap di Chance The Rapper: chi più, chi meno ne esaltava l’originalità, l’esecuzione e l’immaginario inusuale per il genere d’appartenenza. Per quanto ritenga che è dai tempi degli Arrested Development che nell’hip hop basti appena un pizzico di famolostrano per guadagnarsi i titoli dei giornali blog, devo ammettere che in quell’occasione Chance ha saputo rileggere funk, rap e perfino qualcosina di free jazz in maniera unica e coesa.

Ora: a distanza di tre anni è recentemente uscito Coloring Book e, di primo acchito, la mia reazione è stata questa:

Paradossalmente, questa prima impressione non solo non è stata mitigata dagli ascolti successivi, ma ne è perfino uscita rafforzata; e per quanto a sangue freddo non me la senta di definire l’album una cagata – le cagate vere sono altre – di certo è uno dei dischi più deludenti che abbia ascoltato quest’anno.

Tanto per cominciare, nel tentativo di ammodernare la tradizione gospel afroamericana (grossomodo), Chance si è del tutto scordato di scegliere beat capaci di lasciare il segno. Questo sia sotto il profilo della potenza vera e propria, sia sotto quello delle melodie, sia, infine, sotto quello della passione; diciamo che c’è un problema se il tuo beat meno fiacco sembra uno scarto del 2003 di Kanye che sarebbe andato bene giusto a Consequence, mentre quando vuoi fare l’eclettico ti produci al massimo in motivetti da telefilm (no, davvero: Same Drugs starebbe da dio in Grey’s Anatomy).

“Ma ci sono i testi”, leggo in giro. “Chance è maturato, parla di sé e del suo rapporto con dio, è coraggioso!”. A parte il fatto che di recente il rap cristiano tira parecchio, il problema che ho con Chance non sta tanto nell’idea in sé quanto nell’esecuzione. Vedete, per anni ci sono stati fior di artisti che hanno pescato a piene mani dai testi dei 5%er, della Nation Of Islam, dell’Islam classico e, più di recente, anche dalla Bibbia: ma se è possibile ascoltare un intero disco degli X-Clan, dei Poor Righteous Professors, del primo Tragedy Khadafi o di No Malice senza addormentarsi è perché dai loro testi si capisce che a) ci credono e b) li sanno condire con un immaginario di spessore e c) rimano con convinzione. Chance, invece, che già nasce con l’handicap di essere privo di qualsiasi molecola di bassi nelle corde vocali, si limita a discorsi da chierichetto espressi in rime che manco i capibanda scout: “I don’t make songs for free, I make ‘em for freedom/ Don’t believe in kings, believe in the Kingdom” o “This what it sound like when God split an atom with me/ I even had Steve giving out apples for free”, oppure la mia preferita: “Ain’t no Twitter in heaven”. RAGA CHE POETICA CHE IMMAGINI FORTI MI STA DANDO DAVVERO DA PENSARE.

Scherzi a parte: talvolta si intuisce che scavando un po’ c’è del talento (la prima strofa di “Summer”, per esempio), ma al netto di qualche breve attimo di luce Coloring Book resta una sòla. Il fatto che venga elogiato per le sue tematiche (LOL) mi porta a pensare che ci troviamo in un momento simile a quando, agli inizi degli anni ‘90, bastava fare pezzi gangsta mediocri per ottenere un contratto; adesso è la stessa cosa, solo che evidentemente tira più il rap da oratorio. Passerà anche questa. (Costanzo Colombo Reiser)

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Redazione Prismo
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