Ascoltiamo "King Push – Darkest Before Dawn: The Prelude", il nuovissimo album del rapper americano finito immediatamente tra i titoli migliori del 2015.
Se si esclude la morte di Sean Price, è un dato di fatto che il 2015 sia stata la miglior annata per il rap da un lustro a questa parte. Innanzitutto, né Iggy Azalea, né Nicki Minaj hanno pubblicato nuovi album e già solo questa è una magnifica notizia; in secondo luogo, sono uscite opere di qualità da parte di artisti capaci di soddisfare ogni gusto e tendenza dell’hip hop contemporaneo.
Kendrick Lamar ha prodotto il disco più importante dell’anno soddisfacendo sia chi compra vecchie magliette Cross Colours su eBay, sia chi odia il rap ma ha paura di dirlo; Scarface, Large Professor e Joey Badass si sono infilati di prepotenza nelle playlist dei nostalgici dei Walkman e dei pantaloni XXXXXL; Summertime ‘06 di Vince Staples è stato l’album-rivelazione degli ultimi dodici mesi (purtroppo ha venduto 14,000 copie scarse nella prima settimana, aggiudicandosi così il Disco d’Alluminio 2015), mentre A$AP Rocky e Bodega Bamz hanno mantenuto alta la bandiera di Harlem. Perfino i possessori di iPhone bianchi hanno avuto l’imbarazzo della scelta tra l’onnipresente Drake, Future e Young Thug (MC che oscillano tra il melenso, l’incomprensibile e il trash, ma che hanno un ottimo orecchio per i beat) e, infine, tutti quei nomi che in passato fuoriuscivano dalla stomia intestinale dell’hip hop (Tyga whaddup!) quest’anno hanno infilato una sequenza di #fail da brividi.
Insomma: al netto di qualche delusione (Action Bronson, Jay Rock, Dr. Dre), dopo tanti anni passati a filtrare quel pochino di qualità in mezzo a una distesa di mediocrità, stilare una lista dei dieci migliori dischi dell’anno sarebbe stato di nuovo fattibile, se non addirittura semplice. O perlomeno così pensavo fino a poche settimane fa. Tutto è però cambiato quando, tra novembre e dicembre, Pusha T ha confermato che il suo nuovo lavoro solista sarebbe uscito non più nel 2016 – come molti, incluso il sottoscritto, pensavano – bensì entro la fine dell’anno: il 18 dicembre, per la precisione. Ad accompagnare la notizia e a ricordare tutti che era ancora presto per stilare qualsivoglia classifica, nonché che la gara per il primo posto era ancora aperta, c’era poi Untouchable.
Ora: è da giovedì sera – cioè da quando è leakato King Push – Darkest Before Dawn: The Prelude, prequel del prossimo venturo “vero” King Push – che sto cercando di mettere in ordine i motivi che rendono l’ultimo album di Terrence Thornton, aka Pusha T aka Push-a-ton aka l’unico artista del roster G.O.O.D. Music a non vestirsi come un fashion editor de L’Officiel, l’album dell’anno, e l’unica risposta che trovo comincia con Intro, finisce con Sunshine ed è numerata da 1 a 10. Dico sul serio: andate su Spotify o su iTunes, scaricatelo dai siti russi che non posso linkare qui, e ditemi se KP non è un lavoro ineccepibile.
(Ma prima di proseguire devo fare una premessa resasi necessaria dopo il fraintendimento del mio articolo su Fallout 4: Darkest Before Dawn è l’album dell’anno PER ME. Se avete preferito comprarvi un dashiki e scaricare la discografia di George Clinton per apprezzare appieno Kendrick non c’è problema… dopotutto To Pimp A Butterfly è oggettivamente un ottimo disco e forse è socialmente più d’impatto di questo. Insomma, a posto così e, casomai non foste d’accordo con me, respirate dal naso per 30 secondi prima di accanirvi in eventuali commenti all’articolo.)
Chiarito ciò, passiamo ai fatti: dopo tanti anni passati a farci annusare il suo talento tramite dischi e mixtape, in cui momenti brillanti (MILLIONS MILLIONS IN THE CEILING MILLIONS MILLIONS IN THE CEILING, per dire) venivano zavorrati da pezzi con synth puzzoni da softporno e ritornelli degni di essere cantati da Elsa e Anna di Frozen, Terrence Thornton ha finalmente pubblicato il suo Illmatic, spezzando così un’attesa durata quasi dieci anni in cui i fan dei Clipse hanno atteso pazientemente l’erede spirituale del classico Hell Hath No Fury.
Darkest Before Dawn non ha la carica innovativa di quell’album, ma di certo è un’opera rifinita in ogni dettaglio nella sua crudezza; per restare nell’ambito tematico tanto caro al nostro, è droga finissima capace di far sanguinare il naso a chi per anni si è accontentato delle palline alla mannite smazzate da gente come Medium Sean o Tyga alias Grandmaster Trash. Ripensandoci, non so nemmeno se abbia senso scrivere una recensione vera e propria: se sapete chi è Pusha T probabilmente a quest’ora lo state già ascoltando pensando a nuovi modi di rapinare gli anziani, e dunque non avete bisogno di me; mentre se siete capitati su queste pagine tra l’ascolto di un vinile di Ghemon autografato col rossetto e l’ultima autoanalisi emo di J.Cole non sono sicuro di potervi a spiegare la differenza tra lo struggle rap che tanto vi piace e questo.
Se nella musica cercate la consolazione per le vostre miserie quotidiane, siete fuori strada. Pusha è onesto e casomai vi spiegherà per filo e per segno quanto la vostra vita faccia schifo rispetto alla sua.
Facciamo che ci provo. Darkest Before Dawn è un disco che richiede innanzitutto autostima: se nella musica cercate la consolazione per le vostre miserie quotidiane, aggrappandovi a gente che canta di sentimenti che provate anche voi (ma che comunque vi prende per il culo perché è più ricca e piena di donne di voi), siete fuori strada. Pusha è onesto e casomai vi spiegherà per filo e per segno quanto la vostra vita faccia schifo rispetto alla sua (“How can you relate if you’ve never been great?“, diceva), nonché quanto è più figo di voi e dei vostri idoli, e lo farà in un modo che – posto che riusciate a capirlo – paradossalmente vi convincerà.
Ma, appunto, non è detto che lo capirete: innanzitutto perché per comprendere appieno i suoi testi servono elasticità linguistica e conoscenze che vanno dal sapere chi sono Pudgee Tha Phat Bastard e Nobo Matsuhisa a ricordarvi delle colonne sonore di New Jersey Drive o di personaggi come Alpo e Rich Porter. Non solo: aiuterebbe anche avere un’idea di emceeing che sappia spingersi oltre gli ignoranti mainstream à la Bobby Shmurda, così come agli inetti underground che sanno solo condensare milioni di sillabe in una strofa senza avere un briciolo di carisma o personalità. Solo così si possono apprezzare gli sleghi, i cambi di tono, le pause ad effetto e tutto il bagaglio da vero liricista – passatemi il calco – in dotazione al Nostro.
Chiaramente non serve sapere tutte queste cose, così come tecnicamente non serve essere dei sommelier per bere un borgogna. Tuttavia, è la ricchezza delle sfumature che rendono Pusha uno dei pochi artisti mainstream capaci di trasportare l’essenza dell’arte della rima in contesti contemporanei; serve gusto, insomma, e quello è qualcosa che si costruisce in anni di alimentazione sonora di qualità, non certo ingurgitando acriticamente ogni Big Mac musicale che si cerca di far passare come finezza.
Il che ci porta ai beat: in Darkest Before Dawn scordatevi sia la rincorsa ai trend del momento (che porta all’irriconoscibilità del singolo artista il cui successo dipende solo ed esclusivamente dal beatmaker scelto), sia quella al manierismo più ottuso (che porta alcuni a fomentarsi per principio di fronte a un beat di Premier, confondendo le sue produzioni fotocopiate di oggi con capolavori del passato come Mass Appeal, NY State Of Mind o Come Clean). Le basi scelte per l’album non sono derivative: contengono sì riferimenti e citazioni che spaziano da Kanye West a El-P fino alla Bad Boy dei tempi d’oro (quella degli Hitmen, per capirci, tra cui un certo Nashiem Myrick che qui riappare con una delle produzioni più grezze dai tempi di T.O.N.Y.), ma non sono identificabili come appartenenti a uno specifico stile o nome.
Per esempio, Timbaland è irriconoscibile e prima di entrare nello studio deve aver preso una DeLorean che lo ha portato nella Brooklyn di metà anni ‘90 dove gente con giacche Helly Hansen e una gamba dei pantaloni alzata al ginocchio gli ha passato una DAT con su Untouchable; il già citato Nashiem Myrick invece ha fatto una collect call con El-P e gli IAM, e il risultato della conversazione – la magnifica Keep Dealing – è l’incrocio tra Iron Galaxy e Un Cri Court Dans La Nuit. Idem Puff Daddy (o chiunque abbia prodotto il beat di Crutches, Crosses, Caskets a suo nome) che omaggia Madlib; casomai l’unico che mantiene inalterato il suo stile è il buon Q-Tip, la cui F.I.F.A. non stonerebbe in un nuovo album degli A Tribe Called Quest, il che è – a scanso d’equivoci – un complimento.
Ecco: l’album di Pusha è quello che erano i dischi potenzialmente mainstream di metà anni ‘90. Roba fatta da dio, da gente capace e che s’ispirava al gotha del genere, ma che al contempo non aveva paura di bagnare i propri piedi nel mainstream. In tal senso gli omaggi alla seconda golden age non sono da cercare nel sound e, dunque, in un’ipotetica nostalgia acustica, bensì nella filosofia di base: Darkest Before Dawn trasuda carisma, originalità e talento da ogni campione e ogni rima, con come collante la spocchia e l’arroganza di chi sa di essere bravo.
E così come in passato ho sperato facessero Jay-Z, Nas o Snoop, mi auguro che Pusha faccia il botto: non tanto per lui o per il suo conto in banca – non ne ha bisogno – bensì per diffondere un po’ di buon gusto tra gli ascoltatori. Chissà: così come in passato non è certo stato il rap cosiddetto conscious a far sparire metastasi musicali tipo gli Harlem World ma carismatici cinghiali come DMX, allo stesso modo oggi per spostare le varie Iggy Azalea nell’indifferenziata serve qualcuno che mostri la differenza tra fuffa e qualità. Qualcuno che mostri che i beat si uccidono, non si cavalcano; che i testi si scrivono con cura anziché buttar giù 16 barre scritte con la sinistra; che l’autoesaltazione deve promuovere la propria personalità, non il proprio conto in banca; che è possibile descrivere la propria realtà con immagini suggestive invece che con noiosi filmetti delle vacanze.
Per tutto questo serve gente come Pusha. E poi, certo, serve gente che lo sappia ascoltare.
Costanzo Colombo Reiser è nato a Milano nel 1981. Di professione grafico, nei tempi morti preferisce scrivere di musica, politica o altro. Ha scritto per Il Mucchio, L'Ultimo Uomo, Rivista Studio e L'Uomo Vogue, ed è caporedattore area gaming di Prismo.