Platform di Holly Herndon: un bellissimo disco che suona come il 2015, come Wikileaks, come la disintegrazione del confine tra pubblico e privato, tra personale e politico.
Per parlare di Platform, il nuovo disco di Holly Herndon, tocca rispolverare una formula che a me non piace e che sempre riesce a provocarmi subitanee crisi di rigetto e irritazione compulsiva: quella del “disco importante”.
Magari è una formula che non piace neanche a voi, e allora mettiamola così: è un disco di cui hanno parlato tutti. Prima c’è il Guardian che definisce la musicista del Tennesee (ma trapiantata a San Francisco) «the queen of tech-utopia»; poi Wired e VICE che le dedicano ritratti entusiasti; testate diverse assai come The Verge da una parte e Rhizome dall’altra si sono avventurate in analisi insolitamente dense e articolate; e poi com’è ovvio c’è la stampa di settore, quella musicale.
A quelle latitudini è trionfo su (quasi) tutti i fronti: il colosso Pitchfork tributa a Platform un altisonante 8.7 e lo infila diritto nella categoria Best New Music; alla Herndon, The Wire ha dedicato la copertina già sul numero di aprile; The Quietus risponde con un’intervista ampiamente pubblicizzata tramite i soliti canali social; altrettanto hanno fatto Dummy e Consequence Of Sound; Fact è addirittura perentorio: «Platform è il primo disco del 2015 che sembra effettivamente provenire dal 2015»; d’altro canto, eloquente è l’endorsement di The Fader, che dedica all’album uno speciale sulle «ten radical ideas» che l’hanno ispirato, concludendo che si tratta – guarda tu – di «uno dei dischi più importanti del 2015». Appunto.
Nelle ultime settimane, non c’è stato praticamente giorno in cui non mi sia imbattuto in qualche articolo, discussione o intervista con oggetto la Herndon e il suo importante secondo album. C’è stato anzi un momento in cui mi sono sentito letteralmente soverchiato dalla mole di riflessioni scatenate da quello che, dopotutto, è pur sempre un album di nicchia (o “di culto”, se proprio siete affezionati a un’altra formula che tante volte mi ha provocato sbuffi e insofferenza).
D’accordo, Platform è stato pubblicato in Europa dalla 4AD, la stessa etichetta che in passato ci regalò Cocteau Twins e compagnia “eterea”, e che adesso conta in catalogo tizi come The National, Scott Walker, Bon Iver e Grimes; in ambito indipendente è senza dubbio uno dei marchi più influenti: quasi una major, diciamo.
Ma quello della Herndon è comunque un disco “difficile” (di nuovo: altra formula che eccetera eccetera), che poco concede alla fruibilità da sottofondo disimpegnato, e che a voler essere indulgenti ascriveremmo alla categoria “pop elettronico sperimentale”: è per capirci il disco che avrebbe potuto tirar fuori una Bjork meno leziosa e più audace, tanto per non farci mancare uno dei paragoni più ricorrenti quando della Herndon si parla. Non so voi, ma io faccio molta fatica a immaginarmi in heavy rotation un brano come l’iniziale Interference, il cui video vale tra l’altro come manifesto dell’estetica messa a punto dalla musicista statunitense:
Eppure, dicevo prima, di Platform si parla un po’ ovunque, e soprattutto se ne parla tanto, proprio in termini di numero di caratteri impiegati. Ancor più delle recensioni entusiastiche, a colpirmi è stato il profluvio di parole spese a riguardo, che tanto per cambiare mi ha obbligato a sedute di lettura estenuanti come non mi capitava da tempo, almeno in ambito musica & dintorni.
Ecco, più che “importante” chiamerei Platform un disco “pesante”, nel senso migliore del termine: è come se la sua sola presenza riuscisse a piegare il campo gravitazionale del dibattito musicale contemporaneo, esercitando un peso specifico infinitamente superiore alle sue apparenti dimensioni. Arrivati a questo punto, credo di poter dire che più che un disco Platform è un caso: ennesima formula che… ma va bene, passiamo oltre.
La domanda di conseguenza non può che essere: perché tante parole? Cosa c’è dentro Platform da giustificare dissertazioni lunghe e ridondanti come quella che state leggendo ora? Quasi tutti gli autori che col disco si sono confrontati, sono stati costretti a ricorrere a spericolate fughe in avanti nel campo della più pura e a volte astratta teoria: digressioni filosofiche e concettose indagini politiche, nelle recensioni del disco sono la norma. In tutte le analisi, a ricorrere con ossessiva frequenza è il rapporto tra essere umano e tecnologia, perno dichiarato della ricerca della Herndon e, incidentalmente, nodo attorno al quale ruota una fetta ormai maggioritaria delle nostre esistenze. Capite bene che, messa in questi termini, la faccenda una sua rilevanza ce l’ha.
Perché come dire, è un nodo che raramente ci va di affrontare e ancor meno di sciogliere: farlo, solleverebbe se non altro a una serie di quesiti e dubbi non proprio agevoli e ancor meno rassicuranti. La Herndon invece, è una che riesce a spendere per il suo laptop le stesse parole che altri riserverebbero a un amante, a un amico, insomma a un essere in carne ed ossa.
«Come esprimere le emozioni che proviamo? Mi sembrerebbe strano usare un crescendo di violini per descrivere i sentimenti che provo dopo che mi sono lasciata con uno su Skype».
Sentite cosa dice al Guardian: «Un sacco di gente lo accusa di essere poco coinvolgente, poco naturale, poco emotivo, ma il laptop mette in relazione così tanto della mia vita… Il mio Skype, il mio conto in banca, le mie email, i miei rapporti personali (…) In effetti è uno strumento iper-emozionale: ha più contenuto emotivo di quello che un violino potrebbe mai sognarsi (…) Come esprimiamo oggi le emozioni che proviamo? Mi sembrerebbe strano usare un crescendo di violini per descrivere i sentimenti che provo dopo che mi sono lasciata con uno su Skype».
Il che mi ha ricordato una discussione che ho avuto qualche settimana fa in uno dei luoghi meno tecnologici della già tecnofoba Roma: un bar di Torpignattara. In quella discussione, ai miei interlocutori chiedevo tra il serio e il faceto quali fossero i “picchi emotivi” grandi e piccoli delle loro giornate-tipo. Prendi un giovedì a caso: è mattina, suona la sveglia, e quello è senz’altro un picco, no? Un evento cioè che nel suo piccolo “spezza” l’ipotetica linea piatta data dalle abitudini di tutti i giorni. E poi? Ti lavi, ti vesti, esci in strada: tutto come al solito, linea piatta continua. A un certo punto dal tuo smartphone arriva l’inconfondibile bleep di una notifica su Facebook, ed eccolo! L’inavvertibile sussulto del picco. Chi mi cerca? Chi starà parlando di me? Di cosa staranno ciarlando i miei amici vicini e lontani?
Aggiungete alle notifiche di Facebook i trilli di Skype, quelli di WhatsApp, gli scampanellii di quel residuo di un tempo ormai remoto che sono gli SMS, o molto più prosaicamente il cellulare che squilla mentre state ad annoiarvi alla fermata del tram. A loro modo, sono tutti Grandi Eventi in sedicesimo che messi assieme consumano senza sosta il nostro bagaglio emotivo, o più che consumarlo diciamo che lo colonizzano. Una giornata veramente noiosa, è una giornata in cui su Facebook non succede niente. Una giornata in cui non ti arriva manco un’email. Una giornata in cui il tuo laptop non si accende.
Voleva essere una considerazione paradossale, e invece più ne parlavo più mi si rivelava come la più trita delle ovvietà. Similmente, le dichiarazioni della Herndon sull’iper-emotività del suo laptop, potranno apparire ingenue o a seconda dei punti di vista agghiaccianti; ma sono dichiarazioni che non fanno altro che restituire una banalissima verità.
Musicalmente parlando, Platform è – dicevo prima – un disco di pop elettronico sperimentale: non abbastanza pop da finire tra le collezioni di canzonette, né abbastanza sperimentale per essere avanguardia dura e pura. Alcuni brani sono più immediati (si fa per dire) di altri: la già citata Interference, per esempio; o l’altro singolo Chorus, uscito già qualche mese fa; o anche quella specie di Laurie Anderson in crash che è Morning Sun. E poi c’è Home, la più struggente canzone d’amore dell’anno, dedicata all’ipotetico agente dell’NSA che in incognito spia le conversazioni on line dell’inconsapevole Holly. Chissà se Edward Snowden l’ha sentita.
Altri momenti sono più enigmatici. Lonely at the Top per esempio si ispira ai video ASMR, quelli cioè che attraverso sussurri e simili provocano (definizione di Wikipedia) «una piacevole sensazione di formicolio al cuoio capelluto, lungo la schiena o sulle spalle di solito accompagnato da uno stato di completo rilassamento mentale di chi la sperimenta». La mia compagna è una fanatica dell’ASMR e mi ha assicurato che Lonely at the Top funziona. Il testo però, sembra alludere a una escort di alto bordo che si rivolge al suo cliente, o forse a una massaggiatrice alle prese con un broker affaticato dai ritmi disumani della finanza virtuale.
In un caso come nell’altro, Platform stabilisce vette realmente impressionanti per quell’estetica hi-tech di cui già ebbi modo di parlare qualche settimana fa. La produzione è una pioggia di sound effects iridescenti che se isolati paiono composti da qualche strano elemento liquido-gassoso. Ma layer dopo layer, i singoli ingredienti vengono accumulati fino a comporre oggetti tridimensionali dalle superfici solide, compatte, che brillano di una luce al tempo stesso aliena, incontaminata e sensuale.
Dal punto di vista strettamente musicale, Platform – notava Britt Brown su The Wire – «ha l'effetto di far apparire il resto della tua collezione di dischi improvvisamente datata».
Nel suo modo contorto e finanche cerebrale, Platform è un disco che ha molto a che fare con la realtà. Che poi sia una realtà (uh) virtuale, è un dettaglio che nel 2015 non dovrebbe stupire granché. Molti dei suoni con cui la Herndon costruisce i suoi brani, sono registrazioni della sua attività on line catturate da un sistema inventato dall’artista (e compagno della stessa Herndon) Mat Dryhurst. Il sistema si chiama net concrete e in sostanza “appunta” campioni audio mentre tu stai browsando tra un sito e l’altro: è l’equivalente della musique concréte del buon vecchio Pierre Schaeffer, solo coi pop-up al posto dei rumori del cantiere sotto casa. Almeno mi pare di capire così.
A uscirne è una musica freddissima eppure impetuosa, coi suoni che arrivano da tutte le parti e che senza preavviso appaiono e scompaiono, qualcosa come un information overload controllato. Dal punto di vista strettamente musicale, Platform – notava Britt Brown su The Wire – «ha l’effetto di far apparire il resto della tua collezione di dischi improvvisamente datata»: suona, più che “attuale”, appropriato e funzionale ai tempi che corrono, e più che dal futuro pare piovuto da quegli ancor più misteriosi anfratti che stanno tra i gangli di qualche rete neurale artificiale. È puro ghost in the shell, se capite cosa intendo. Un parallelo che d’altronde è venuto spontaneo anche a Deforrest Brown Jr. nella sua già citata recensione-saggio per Rhizome.
Nel suo scritto, Deforrest Brown Jr. non nasconde tutta la sua ammirazione per un disco di cui il meno che si può dire è che è ambizioso, eppure chiude con una sfumatura incerta, di dubbio se non addirittura di rifiuto; a non convincerlo, è l’apparente ottimismo dell’autrice: «nel mondo della Herndon, il futuro è radioso; la tecnologia ha effetto non di separare, ma di creare vicinanza e intimità». Al giovane critico newyorchese, le retorica tecno-utopista che permeerebbe l’album sa di first world naiveté. A furia di insistere sugli aspetti liberatori della tecnologia, si rischia di dimenticare che per una buona fetta del pianeta quella tecnologia significa prima di tutto sfruttamento e repressione (e depressione, aggiungerebbero altri).
Andrebbe a questo punto specificato che il titolo dell’album allude al concetto di “piattaforma” per come sviluppato dal designer e filosofo inglese Benedict Singleton: prendendo esempio da giganti informatici come Facebook e Google, Singleton immagina la piattaforma come una struttura che, sotto la superficie, viene rimodellata e usata dagli utenti a fini non previsti né programmabili. In sostanza, la piattaforma è uno “spazio condiviso” che permette relazioni e scambi inaspettati, che a loro volta mettono in crisi le strutture rigidamente ordinate della piattaforma stessa. Il futuro, pare suggerire Singleton, è nella collaborazione che fa esplodere le griglie e le gerarchie imposte da programmatori e corporation.
E infatti Platform è un album che trabocca di collaborazioni; alcune reali (nel senso di ospiti che partecipano con testi, suoni, voci), altre diciamo così “ideali”: lo stesso Singleton viene citato dalla Herndon come protagonista imprescindibile del disco, ma materialmente di lui non c’è traccia nelle dieci tracce dell’album. Discorso simile per Metahaven, il collettivo olandese di design radicale al quale si devono massime inarrivabili come «il design è censura in alta risoluzione» e «un brand è una forma di pregiudizio socialmente ed economicamente sostenuta».
Con Metahaven (che del disco firma comunque la copertina), la Herndon aveva già collaborato per il video di Home, ma quello che pare di capire è che il vero contributo del gruppo a Platform sia nelle (immagino) infinite discussioni via Skype su argomenti tipo controllo informatico, Datagate, e libera circolazione delle informazioni. Vale la pena ricordare che, a suo tempo, Metahaven curò anche una curiosa campagna di rebranding per WikiLeaks.

La presenza di un collettivo come Metahaven, conferisce a Platform un sapore squisitamente politico, e rende l’affaire Herndon ancora più complicato. Deforrest Brown Jr. ha senz’altro ragione quando dice che l’idea di “piattaforma” che tanto sta a cuore alla Herndon, «semplicemente, non è alla portata di tutti», vuoi per motivi economici, vuoi per motivi più genericamente culturali. Ma ridurre Platform all’idea che un «gruppo di lavoro sia la panacea per il collasso totale di un’umanità devastata da se stessa e dal suo ambiente» (di nuovo parole di Brown), mi sembra se non altro limitante.
È quindi interessante notare come su una bibbia hi-tech qual è The Verge, Lizzie Plaugic fornisca di Platform un’interpretazione diametralmente opposta a quella apparsa su Rhizome. Altro che tecno-utopismi per ricchi occidentali: col suo nuovo album, la Herndon ci avverte che «la tecnologia significa conflitto». O per meglio dire: «un MacBook è eccezionale per far girare una workstation audio, ma le politiche sul lavoro della Apple sono quantomeno discutibili. I software possono partorire suoni che nessuno strumento è in grado di produrre, ma possono anche essere l’obiettivo di una cyber-sorveglianza non richiesta».
In diverse interviste, la Herndon ha in realtà ribadito di non avere una posizione netta sul grande tema “la tecnologia e noi”. Di certo, la musicista americana non si è risparmiata in dichiarazioni di sincero trasporto nei confronti del mezzo tecnologico e sul suo potenziale in termini di emancipazione. Addirittura, il suo primo album (Movement del 2012) era una specie di straniante ritratto della love story tra lei e il suo laptop, e fidatevi se vi dico che di ironico non aveva nulla.
Si capisce quindi perché lo scandalo NSA scoperchiato da Snowden, con l’agenzia per la sicurezza americana scovata a spiare e sorvegliare privati cittadini di mezzo mondo, abbia rappresentato per la Herndon un autentico trauma: «la mia casella di posta per me era la mia casa», ha confessato al Guardian. «Pensare che qualcuno abbia potuto violare quello spazio…». La Herndon non conclude la frase. «She looks a bit sick», ci informa l’intervistatore Ben Beaumont-Thomas.
In una prospettiva del genere, Platform potrebbe persino assomigliare a un disco di protesta – una suggestione che la Herndon in persona ho idea che approverebbe. Sempre al Guardian, la musicista si lascia andare a un amaro commento sul «cinismo, il sarcasmo, l’ironia» che caratterizzano l’esistenza on line. «Non ci sta portando da nessuna parte. È una risposta depressa alle condizioni opprimenti in cui noi tutti viviamo: questa situazione precaria in cui non sappiamo se avremo mai una casa tutta nostra, se il lavoro durerà, e tutto fa schifo».
In un’altra intervista (sulla sempre prestigiosa Interview), ribadisce comunque di essere «assolutamente un’ottimista (…) È la mia aspirazione: che la gente lavori assieme per trovare scenari alternativi a quello attuale, perché quello che abbiamo adesso non funziona». «Nel senso di?», chiede l’intervistatrice. «Nel senso del capitalismo», risponde secca lei. «Capitalism is sucking the life out of everything», ha ribadito più recentemente a Fact.
«Platform è un album ossessionato dall'ingombrante onnipresenza del futuro – e dall'idea che quello che chiamiamo futuro, stia già accadendo ora»
È vero, per la Herndon la tecnologia è una faccenda molto personale, privata, emotiva. Solo che, puntualizza la musicista rispolverando uno slogan troppo facilmente dimenticato e improvvisamente di nuovo urgentissimo, «il personale è politico». In maniera che più candida non si può, la Herndon confessa in tutta scioltezza che – per dirla con le sue parole in un’ennesima intervista, stavolta per POSTMatter – «Non penso mai [alla tecnologia] in termini di avatar; la sento già incorporata e integrata in me, senza strappi».
Altro che accelerazionismo, qui siamo a un passo dal transumanismo bello e buono. Eppure questa banale constatazione è esattamente tra i motivi per cui Platform ha sollevato tanti dilemmi, tante prese di posizione, insomma tante parole. Naturalmente, un simile bagaglio concettuale significherebbe poco se non riuscisse a informare anche la musica che Platform contiene. Più che le collaborazioni con artisti e attivisti digitali, più che i riferimenti teorico-politici che spuntano tra interviste e recensioni, sono i brani stessi dell’album a trasmettere una quantità di stimoli, interrogativi, sospetti, illuminazioni, fervori, dubbi, entusiasmi, da trasformare l’ascolto in un’esperienza poco meno che totalizzante.
Per chi non l’avesse capito, Platform è un disco splendido. Grosso. Importante. E allora, visto che di citazioni altrui è pieno questo pezzo, lasciatemi chiudere con un’altra citazione ancora; la prendo di nuovo da The Verge: «Platform è un album ossessionato dall’ingombrante onnipresenza del futuro – e dall’idea che quello che chiamiamo futuro, stia già accadendo ora». In questo senso, l’altro aggettivo che andrebbe speso è «necessario». Perché Platform dice del presente più di tutte le parole che sono servite a raccontarlo.
Valerio Mattioli, caporedattore di PRISMO, ha scritto tanto in giro. Il suo libro "Superonda - Storia segreta della musica italiana" è uscito per Baldini & Castoldi nel 2016.