L'uscita di Zootropolis è forse il segnale definitivo che tra Disney e Pixar non vi è più alcuna differenza. Per il futuro dell'animazione, si prospettano film sempre più simili tra loro.
Zootropolis, la nuova pellicola Disney dell’anno, è l’ennesimo sintomo che la Disney, dopo l’assorbimento della Pixar una decina di anni fa, ha assimilato anche i principali della sua associata. Il pitch da solo è indicativo: Zootropolis è una detective story ambientata in una città di animali antropomorfi, in pratica una versione meno cruenta – o, per l’appunto, “disneyana” – di Blacksad, il fumetto di Juan Diaz Canales e Juanjo Guarnido con protagonista un gatto nero che di mestiere fa l’investigatore privato. Puro stile Pixar, insomma. Ma arrivati a questo punto c’è davvero differenza?
Facciamo un passo indietro: nel 2006, l’acquisto della Pixar da parte della Disney per 7,4 miliardi di dollari, mise i destini di entrambe le compagnie nelle mani di Ed Catmull e John Lasseter; i due, cofondatori proprio di Pixar, furono voluti dalla dirigenza Disney a guidare la loro casa d’animazione. O meglio, più che “voluti”, Catmull e Lasseter furono imposti: va infatti ricordato che se sulla carta è stata la Disney a comprare la Pixar, di fatto è la seconda a tenere le redini della prima. Questo perché per comprare Pixar, gli studi fondati dal vecchio Walt dovettero vendere le proprie azioni alla stessa Pixar, attraverso uno schema economico di non facile intuitività. Il risultato è che lo studio di Toy Story è diventato la voce grossa al tavolo degli azionisti Disney: a tutt’oggi, la fetta più grande delle azioni è detenuta da Laurene Powell Jobs, vedova di Steve Jobs (tra i fondatori della Pixar). Che la Disney, in questo processo, sia essa stessa diventata un po’ più “pixariana”, non dovrebbe quindi stupire granché.
Anche se è stata la Disney a comprare la Pixar, di fatto è la seconda a tenere le redini della prima.
L’animazione però, è un’arte a lungo termine. Brad Bird l’ha descritta come il gesto di gettare idee in un pozzo e sapere che fine faranno solo anni dopo: per realizzare un lungometraggio animato ci vogliono in media quattro anni, e quindi i cambiamenti nelle direzioni creative – quando ci sono – sono lenti ad affiorare. Una volta entrato in carica alla Disney, Lasseter ha prima di tutto dovuto sbrogliare una serie di magagne lasciategli in eredità dai suoi predecessori, e non potendo far tornare in porto navi già varate, ha potuto soltanto traghettarle verso acque più tranquille. È riuscito comunque a disinnescare potenziali bombe come Bolt e Rapunzel e a ricatturare il gusto dei classici col fortunatissimo Frozen, ma da quando ha potere decisionale sui nuovi progetti, la musica è cambiata: per dire, ha recuperato un vecchio progetto, Ralph Spaccatutto, e lo ha fatto diventare il più pixariano dei cartoni.
Ecco, per l’appunto: come si diceva sopra, Lasseter dirige non solo la Disney, ma anche la Pixar. E se restiamo agli ultimi titoli, per Pixar il 2015 è stato l’anno sia di Inside Out, sia de Il viaggio di Arlo, il cartone uscito lo scorso novembre ambientato in una realtà alternativa in cui i dinosauri sono diventati la specie dominante del pianeta. Inside Out è stato un successo fino a diventare uno dei maggiori incassi Pixar di sempre. Arlo, invece, una disfatta che segna per Pixar il primo, clamoroso, flop al botteghino, dalle conseguenze ancora da capire.
Sfortunato, Il viaggio di Arlo, lo è stato fin dall’inizio: di mezzo ci sono stati una produzione travagliata, un soccorso d’emergenza da parte del think tank Pixar, e un cambio di regia che ha ripensato quella che era la visione del primo autore Bob Peterson. Ne è uscito un western colorato che su Rotten Tomatoes raggiunge il 77% di gradimento: mediocre per la Pixar, ma comunque buono per tutti gli altri. Il viaggio di Arlo è però piaciuto poco agli spettatori, quei pochi che lo hanno visto: 300 milioni di dollari d’incasso in tutto il mondo, mentre per raggiungere il punto di pareggio di milioni ne sarebbero serviti 500. Il viaggio di Arlo si è rivelato un disastro commerciale che forse potrà essere lenito con i ricavi dell’home video e del merchandising: pare difficile però che i bambini accorreranno in massa nei negozi come era successo per il franchise di Cars, non particolarmente performante al cinema ma rivelatosi un gigante dell’industria ludica. Specie quando i loro genitori li avranno già riforniti con action figure e set mobili targati Jurassic World.
Il viaggio di Arlo ha avuto la sfiga di uscire nell’anno di Inside Out, il favorito di pubblico e critica che ha segnato il ritorno della Pixar dopo dodici mesi di assenza e un periodo di stanca. Seguire un film del genere non era facile, specialmente perché Inside Out era la carta spuria; paradossalmente infatti, “l’usato sicuro”, il rigore che la Pixar sentiva già di avere segnato, era proprio Il viaggio di Arlo, coi dinosauri e i T-rex e tutti i “roar” e i “ahah che simpa il bambino”.
Il flop di Arlo, ha insomma compromesso non pochi piani targati Pixar, al punto che la casa sta adesso ripiegando sui propri franchise di punta: dal 2010, dei sei film usciti dallo studio, già tre erano un sequel; nei prossimi anni invece, sono in arrivo altri quattro sequel/threequel/quadriquel: Alla ricerca di Dory, Cars 3, Toy Story 4 e Gli Incredibili 2. Non che sia una colpa, fintanto che i film sono belli. E poi gli affari sono affari, come ha detto Ed Catmull a Wired: “I sequel sono meno rischiosi dal punto di vista finanziario. Ma andremmo in bancarotta creativa se facessimo solo quelli. Up, Wall-E, Ratatouille sono film rischiosi. Per prenderci quei rischi, e per noi è importante farlo, dobbiamo bilanciare con film più sicuri”. Dall’altro lato viene in mente una replica ovvia: l’atipico Inside Out è il secondo maggior incasso Pixar, eppure non è un sequel.
Per Il viaggio di Arlo, i carichi da novanta sono in realtà stati altri. C’è stata la cannibalizzazione da parte di Jurassic World, altro blockbuster a tema preistorico che ha risvegliato l’interesse verso i dinosauri (ma i loro rettili erano ipperrealistici e questo può aver penalizzato la stilizzazione bambinesca della Pixar); e poi la grande quantità di animazione precedente allo stesso Arlo che ha saziato il pubblico: Inside Out, Home, The Peanuts Movie, Hotel Transylvania 2 e soprattutto Minions, un film che si ricorda più per l’invasiva campagna di marketing che per la brillantezza delle gag. O forse i produttori non hanno saputo vendere bene quello che era in apparenza un film dallo schema semplice: è stata nascosta la vena western, sono stati privilegiati elementi d’atmosfera (paesaggi e radure) e ci si è buttati sull’amicizia atipica tra due specie diverse.
Il flop di Arlo ha costratto la Pixar a ripiegare sui propri franchise di punta. Nei prossimi anni usciranno quattro sequel: Alla ricerca di Dory, Cars 3, Toy Story 4 e Gli Incredibili 2.
Disney e Pixar, non sono mai state in sincrono, nemmeno agli inizi. Quando negli studi di Emeryville la Pixar inaugurava la sua esperienza cinematografica con l’exploit Toy Story, l’inossidabile Disney cominciava a patire le crepe che l’avrebbero a brevissimo tempo sconquassata, riducendo lo studio a un pallido ricordo della corazzata che fu. Nel periodo d’oro della prima, con una sfilza di successi come Alla ricerca di Nemo, Gli Incredibili, Ratatouille, Wall-E, Up e Toy Story 3, la seconda arrancava tentando di frenare l’emorragia di soldi e talenti causata dai flop di Atlantis, Il pianeta del tesoro, Chicken Little e I Robinson.
Questi ultimi erano tutti tentativi di uscire dai tipici schemi disneyani, e di provare a sporcarsi le mani con prodotti più adulti (la fantascienza ottocentesca, il retrofuturismo…); insomma, la Disney stava “provando a fare la Pixar” senza veramente capire quali fossero le qualità della casa rivale, e saccheggiandone soltanto gli elementi superficiali (niente musical, l’uso della computer grafica, ecc.). Non è un caso che gli unici successi disneyani di quel periodo stiano state pellicole secondarie e fuori dal radar della dirigenza come Lilo & Stitch e Koda, fratello orso. Al contrario, quando in tempi recenti la Disney è riuscita a “recuperare” con successi come Rapunzel, Ralph Spaccatutto, Big Hero 6 e soprattutto Frozen, ad annaspare era la Pixar, con pellicole poco fortunate come Cars 2 (ugh!) e Monsters University.
Tornando in casa Disney, in queste settimane Zootropolis si sta praticamente vendendo da solo, un po’ grazie alla sinergia promozionale data dalla partecipazione di Shakira, un po’ per la viralità della gag dei bradipi (vedi il native advertising nostrano dei The Jackal). Intanto il franchise di Frozen – l’unico titolo disneyano di cui è stato annunciato il sequel, per ora – continua a macinare numeri enormi nel merchandising, che è sempre stato il punto debole della Pixar. Per dire, è sintomatico come film Pixar universalmente riconosciuti quali vette dell’animazione al computer come Wall-E, Up e Ratataouille siano famigerati per essere veleno per il merchandising: la loro oggettistica è minima, nessuno ha voluto acquistarne le licenze, e nonostante l’alta qualità del prodotto, i film sono stati obnubilati dalla cronistoria dello studio. Guardate i trailer degli ultimi film Pixar: c’è sempre un schermata che recita “Dai realizzatori di” seguita da alcuni titoli forti dello studio. Ratatouille in quella schermata non compare mai.
Nel libro, Verso la creatività e oltre Ed Catmull ha raccontato i travagli vissuti dalla Pixar dopo essere diventato il più importante studio di animazione del mondo. In quel libro, ci sono passaggi in cui il suo socio John Lasseter si trova a dire: “C’è una leggerezza e una velocità alla Disney che vorrei vedere di più alla Pixar”. Essendo ora il capo sia di Pixar che di Disney, proprio Lasseter sembra essere il punto cruciale, il prisma su cui si rifrangono luci e ombre di entrambe le società. Le attenzioni di quest’ultimo, oltre al settore cinematografico, sono richieste anche dal merchandising e dai parchi tematici; molti mettono in dubbio la capacità di guidare un impero così vasto senza prediligerne una parte, tanto più che il regista è una presenza fissa alla Disney da quando è stato incaricato di supervisionarne i progetti. Fornisce appunti, guarda gli storyboard ed è presente alle prime letture con gli attori e la troupe.
Durante i primi anni di rodaggio, lo staff Pixar ha spesso pensato che il proprio capo passasse troppo tempo a plasmare i film della consorella. Ora la situazione pare essersi stabilizzata e il regista si divide equamente tra le due compagnie. “Entrambi i posti pensano che passi troppo tempo nell’altro studio”, ha dichiarato un amico, “è questo il vero punto della storia”. Catmull racconta a tal proposito un episodio saliente: nel 2013 i dipendenti della Pixar furono convocati per la “giornata dei suggerimenti”. Uno di questi era una nota di due pagine e mezza in cui ci si lamentava del fatto che Lasseter aveva così tanti impegni da arrivare a un meeting pensando di essere a un altro. “Portava le sue emozioni da un incontro all’altro, facendo credere di essere arrabbiato per qualcosa quando non lo era”. “Sto lavorando per risolvere la cosa” era stata la risposta di Lasseter, che intanto, invece che diminuire il lavoro, l’ha aumentato, prendendosi in carico la regia di Toy Story 4.
Ma se è sempre lui a guidare entrambe le compagnie dal punto di vista creativo, a questo punto cos’è che rende diverse Pixar e Disney? Di sicuro ci sono gli scarti narrativi, importanti e certamente sottolineati per variare il tipo di film da proporre al pubblico: così, la scelta Pixar di produrre storie internamente allo studio (cioè storie che partono da proposte dei propri dipendenti) fa da contraltare alla politica Disney di affidarsi volentieri a fiabe e racconti che vengono poi modellati su misura.
Film universalmente riconosciuti quali vette dell’animazione come Wall-E, Up e Ratataouille sono famigerati per essere veleno per il merchandising.
Ma la vera differenza, sono le diverse metodologie di lavoro. La Disney, come la Pixar, ha un nucleo di registi e sceneggiatori a cui la produzione del film può fare affidamento per farsi consigliare su punti incerti della trama, sul tono e lo sviluppo dei personaggi. La Pixar lo chiama “Brain Trust”, la Disney “Story Trust”, ma il concetto è lo stesso. A cambiare è però l’approccio alle critiche e alle discussioni interne: “Alla Disney sono più gentili. La gente lì è preoccupata di non scombinarti i capelli o urtare i sentimenti altrui”, ha detto un insider. La Disney ha a cuore il galateo, la Pixar i risultati. Ironico a dirlo, considerando che la Disney degli anni Novanta è passata alla storia per le feroci lotte intestine che tormentavano ogni produzione, mentre la Pixar è nota per la sua atmosfera rilassata, dove ognuno è libero di esprimersi come meglio crede. Certo, può anche darsi che abbiano un ottimo ufficio stampa.
Inoltre la Pixar, quando si tratta di rimodulare o cambiare drasticamente le sorti di un film, chiama in soccorso personalità interne alla produzione: è successo con Ratatouille, Ribelle – The Brave e Il viaggio di Arlo. Alla Disney invece, Jennifer Lee era un’esterna assunta per lavorare a Ralph Spaccatutto e poi spostata di peso per coadiuvare Chris Buck nella lavorazione di Frozen: “Una cosa che non sarebbe mai successa alla Pixar”.
Adesso che Lasseter ha definitivamente portato il metodo Pixar alla Disney, le differenze lavorative si fanno però sempre più impercettibili. Per ora la cosa non sembrerebbe nemmeno un male: lo stesso Zootropolis appare come l’ibrido perfetto dei due colossi, unendo la “spendibilità” di un cartone Disney con la “lateralità di pensiero” dei film Pixar. E in linea teorica dovrebbe essere ancora meglio, visto che ora sono entrambi studi guidati creativamente dalle idee dei loro registi. Secondo le cronache, Big Hero 6 è nato da un pitch di uno dei registi che aveva scartabellato tra le proprietà Marvel (dai, è comunque bello poterci credere).
Certo, paletti invalicabili continuano a esserci. Per preservare un minimo di identità, in casa Pixar restano vietati gli adattamenti e i musical; ma la relazione sempre più osmotica con la Disney tenderà inevitabilmente a confondere le acque, portando nei cinema film sempre più simili tra loro, e per giunta all’interno di un panorama generalista già di per sé ben omologato. Quantomeno, è lecito sospettare che le cose andranno sempre più in questa direzione. Il problema semmai riguarda il settore degli indipendenti, che soffrono l’assenza di un apparato in grado di valorizzarli in maniera efficace, un po’ come fa il Sundance con i film dal vivo.
Forse un’idea di dove sta tirando il vento nel mondo dell’animazione, ve la dà il fatto che Brad Bird – uno duro e puro che paventa da anni un film sul divorzio (!) – è al lavoro su un sequel come Gli Incredibili 2. Vorrei potergli dire “Put your money where your mouth is!”, insomma “fai quello in cui credi”. Ma ho paura che mi risponderebbe gettandomi addosso secchiate di pezzi da cento.
Andrea Fiamma scrive per Fumettologica e Rivista Studio. Si occupa principalmente di fumetti e amenità varie.