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Come King Tubby annunciò l'era di Pro Tools: un estratto da Alla ricerca del suono perfetto di Greg Milner, uno splendido libro che racconta un secolo e passa di musica registrata.

Perfecting Sound Forever di Greg Milner è uno dei più bei libri di musica degli ultimi dieci anni, ammesso che di semplice “libro di musica” si possa parlare: perché dentro non ci trovate né i Pink Floyd né i Rolling Stones, i Beatles compaiono per un paio di pagine appena, Bob Dylan manco quelle, e di Bruce Springsteen si parla perlopiù di Born in the USA. Adesso però non vi agitate: oggetto del libro di Milner non è la classica mitologia ruock né tantomeno qualche sua impervia variante underground; piuttosto, come il titolo lascia intuire, Perfecting Sound Forever è la storia del suono registrato, in un percorso che dai cilindri di Thomas Edison porta infine all’mp3, con tutto quello che c’è in mezzo: innovazioni tecnologiche, studi e tecniche di registrazione, diatribe tra audiofili, vinile vs. compact disc, analogico vs. digitale, batterie che suonano asciutte vs. batterie larger-than-life, eccetera eccetera eccetera.

Se vi sembra un argomento arido o poco interessante, credetemi: la maniera in cui Milner ricostruisce storie, peripezie, effetti e persino filosofie di un secolo e passa di musica registrata, fa sembrare l’autobiografia di Keith Richards il modesto memoir di un pensionato, e spiega tantissimo del modo in cui noi oggi “ascoltiamo musica”. Riesce persino a rendere appassionante un tema abusato come la loudness war: quantomeno, leggendolo vi farete una cultura su come le radio (prima ancora che gli studi) newyorchesi hanno condizionato la quantità di decibel che escono dal vostro impianto stereo.

In occasione della traduzione in italiano del libro – uscito per il Saggiatore col titolo Alla ricerca del suono perfetto – vi proponiamo quindi un estratto dal capitolo dedicato all’alba dell’era digitale, quando programmi come Pro Tools mandarono all’aria interi decenni di “buone pratiche” tra produttori e ingegneri del suono. E per parlare della “pro-toolizzazione del mondo” (parole di Milner) di cui solo ora cominciamo a intuire gli esiti, cosa c’è di meglio che partire da Kingston, Giamaica, alla fine degli anni 60? Buona lettura. (Valerio Mattioli).

La copertina di Alla ricerca del suono perfetto, Il Saggiatore, 2016.

Il fantasma di Tubby
Il mixing (e quindi l’editing), contrapposto alla semplice registrazione in quanto tale (e quindi il lasciare le cose “così come sono”), rappresenta ormai la modalità dominante nella musica d’oggi. L’affermazione dei DAW [ovvero “digital audio workstation”, i sistemi digitali di registrazione come Pro Tools e i vari Cubase, Logic ecc, ndr] fa tutt’uno con quella del campionamento, del sequencing, dei file audio digitali e degli iPod: un complesso di elementi che contribuisce a ridurre la musica a un codice universale da ricombinare a piacere. Chiamiamolo “mondo pro toolizzato”, una condizione musicale di cui lo stesso Pro Tools è poco più che un esempio. Notando che “il mixer da registrazione, nato semplicemente come un insieme di potenziometri e manopole, è ormai, in un certo senso, un dispositivo per la creazione musicale”, il pioniere del campionamento digitale Roger Linn ha osservato di recente come le interfacce informatizzate e le “superfici di controllo” usate per creare musica siano esempi del “mixer come metafora”.

Per individuare l’origine di questa metafora dovremmo probabilmente risalire fino agli esperimenti “suono su suono” di Les Paul, se non addirittura agli enhancements musicali di Stokowski e dei Bell Labs. Ma la persona responsabile della prima moderna avventura in cui tale metafora si dispiegò in tutta la sua gloria, fu un ex riparatore di apparecchi elettronici in Giamaica di nome Osbourne Ruddock, noto ai più come King Tubby. […] Non era né un cantante, né un deejay, né un musicista in senso tradizionale. E non era nemmeno un produttore. Era un ingegnere del suono, un tecnico specializzato in registrazioni audio, sebbene raramente registrò altro che parti vocali. Si guadagnava da vivere missando dischi, un ramo in cui aveva sviluppato una tale abilità che il suo nome – così come quello di Edison parecchi decenni prima – spesso appariva in maggiore evidenza rispetto a quello dell’artista sull’etichetta del disco.

Al piccolo studio di Tubby, i produttori affidavano tracce complete di parti strumentali registrate altrove. Tubby si occupava della sovraincisione delle voci e talvolta anche di altri strumenti aggiuntivi, e poi eseguiva il missaggio. Infine, rielaborava i brani strumentali in versioni cosiddette “dub”: utilizzando il banco-mixer manipolava le singole tracce, talora inserendo le parti vocali e spostandole più o meno in evidenza nel mix finale, e aggiungendo ulteriori effetti. Il basso, le percussioni, la chitarra ritmica, la voce e tutto il resto, venivano ricombinati in maniera sensazionale: a seconda dei casi, una traccia poteva praticamente svanire nel nulla, oppure crescere a dismisura come se dovesse schizzare nella stratosfera. Queste “versioni dub” erano destinate a diventare il lato B delle canzoni sulle quali si basavano, ma spesso erano proprio i lati B a far vendere il disco.

King Tubby.

Il dub – e quindi, per estensione, King Tubby – è spesso considerato come l’atto di fondazione dell’hip-hop, della techno e di altri generi profondamente radicati nel concetto di remix: un’idea abbastanza corretta, ma che davvero non rende giustizia a Tubby. Fu lui a dare inizio alla pro-toolizzazione del mondo trasformando il suo minuscolo studio in uno strumento musicale. Plasmò un’estetica fondata sul principio che la musica registrata […] non fosse poi così irrilevante in quanto fatto storico. Lì fuori era già pieno di suoni registrati: aspettavano solo di essere rimodellati.

Uno dei primi album interamente composti da dub fu Blackboard Jungle, una collaborazione del 1973 fra Tubby e Lee “Scratch” Perry, che rielaborava i ritmi [o riddim, ndr] della band di quest’ultimo, gli Upsetters. Nel brano “Dub Organizer”, il deejay Dillinger rende omaggio proprio a Tubby: “Rock and roll like you never knew before / While King Tubby’s at the controls”. (“Rock’n’roll come non l’hai mai sentito prima / Quando c’è King Tubby ai controlli”). Per un musicista tanto rivoluzionario, il soprannome “Organizer” potrebbe suonare riduttivo, un po’ come dare del “miscelatore di colori” a un grande pittore, e tuttavia Dillinger aveva centrato il punto. Perché se Tubby fu il profeta predigitale di Pro Tools, fu proprio per via del suo talento preternaturale nell’organizzare il suono.

Ecco perché l’eredità di Tubby si estende ben oltre la cerchia dei generi musicali più strettamente legati al dub. L’aspetto più significativo non è tanto che egli abbia inventato il remix (cosa che comunque fece), quanto piuttosto che il concetto di remix abbia reinventato la musica moderna.

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Rock and roll like you never knew before / While King Tubby's at the controls.

Una sera di fine anni sessanta a Kingston, il sound system di King Tubby era in piena attività. Il suo deejay, Ewart “U-Roy” Beckford, era impegnato in un toasting su un ritmo chiamato Stalag 17. Prese il microfono in mano e urlò “You’re now listening to King Tubby’s Hi-Fi!”. Questo è quello che disse, ma quello che il pubblico sentì fu “You’re listening to King Tubby’s Hi-Fi-fi-fi-fi-fi…”: Tubby aveva applicato uno slapback echo, dividendo in due il segnale di U-Roy e ritardandone una delle parti.

La folla esplose: gente che esultava, gente che sparava in aria… Philip Smart, un apprendista ingegnere presso lo studio di Tubby presente quella sera, ricorda che il pubblico andò a cercare Tubby per portarlo in trionfo sulle spalle. “Fu la prima volta che in Giamaica si sentì un effetto delay”, spiega. Per quanto quasi chiunque lo aveva già ascoltato sui dischi, “nessuno sapeva come usarlo dal vivo. Era un’invenzione che Tubby teneva gelosamente nascosta. Dopo quella serata, tutti i sound system vennero da noi per ordinare amplificatori nuovi. Non riuscivamo a starci dietro. Siamo stati a costruire amplificatori per mesi”.

Come con i tone test di Edison, per noi è impossibile comprendere appieno perché la folla rispose con tanto entusiasmo a null’altro che un suono che si diffondeva nell’aria. Probabilmente aveva qualcosa a che vedere con lo shock provocato del mondo della registrazione che all’improvviso si manifesta nel mondo dell’esperienza reale. La maggior parte di quella gente non sapeva come si ottenesse un effetto-riverbero su disco, ma percepiva istintivamente che i dischi fossero finzione, e non documenti diretti. Nel mondo reale, si supponeva che il microfono fosse trasparente.

Un sound system “mobile” a Kingston, Giamaica, 1970.

[In Giamaica] la grande popolarità dei sound system favorì lo sviluppo di una piccola industria per la produzione di amplificatori e diffusori. Lo scopo era quello di far viaggiare il suono sempre più lontano – i sound system si svolgevano all’aperto, e il suono si disperdeva facilmente – e sempre più chiaro: ed era una specialità in cui Tubby eccelleva.

Come Moses Asch prima di lui, anche Tubby aveva cominciato come riparatore di apparecchi elettronici, lavorando tanto sui televisori quanto sui frigoriferi, per poi infatuarsi delle possibilità date dal suono amplificato. […] Prima di diventare famoso, si era di tanto in tanto occupato dell’attrezzatura di un modesto studio di registrazione con un unico microfono chiamato Treasure Isle e gestito da Duke Reid, un produttore affermato. Reid aveva stabilito un accordo con Rudolph “Ruddy” Redwood, proprietario di un negozio di dischi e organizzatore di sound system: Reid passava a Redwood i suoi acetati, e quest’ultimo gli riferiva quali erano i brani che funzionavano meglio col pubblico.

La storia – forse apocrifa – narra che un giorno Redwood, mentre stava scegliendo della musica al Treasure Isle, chiese al tecnico di Reid, Byron Smith, di preparargli un acetato di “On the Beach”, un brano dei Paragons. Mentre svolgeva il lavoro, Smith si accorse di aver dimenticato d’inserire le parti vocali, ma Redwood gli chiese di lasciarlo così com’era. Quella sera, fece suonare la versione normale su un giradischi e quella strumentale su un altro. Tempo dopo Redwood ricordò: “Mi dissi: ‘Trasformerò questo posto in uno studio e passerò dalla versione cantata a quella strumentale’, alternando i volumi. Be’, caro mio: sembrava di sentire strillare il pavimento della sala da ballo!”.

Redwood convinse Reid a far uscire la versione strumentale del brano, e realizzando che avrebbe potuto raddoppiare la quantità di musica senza dover registrare più brani, cominciò a pubblicare i singoli del Treasure Isle con le versioni strumentali sul lato B, sulle quali sovraincideva un sassofono o un organo per tenere la linea melodica. Tra il 1968 e il 1970, quando la breve stagione del rocksteady prese a sfumare nel primissimo reggae, altri produttori cominciarono a inserire sul lato B le versioni strumentali – ormai semplicemente note come versions – delle relative canzoni,  finché questa divenne una prassi comune.

Tubby aveva chiaramente una visione a tutto tondo e quasi intima, che arrivava fino ai minimi dettagli dei circuiti elettronici, degli strumenti coinvolti nel missaggio. Ma come Tubby riuscì a ottenere quel suono, nemmeno i suoi assistenti sono riusciti a capirlo.

Tubby era amico di Bunny “Striker” Lee, un produttore che ricorreva spesso al Treasure Isle per registrare la sua musica. Nel 1968, Lee portò Tubby a una delle feste di Redwood. Tubby notò l’effetto elettrizzante delle versions sul pubblico, e decise quindi di dare una ventata d’aria fresca al suo personale Home Town Hi-Fi sound system, allora alle prime armi. Ingaggiò quindi come deejay U-Roy, che già aveva fatto qualche disco con Lee.

In breve, quello di Tubby divenne il più impressionante sound system dell’intera isola. Parte del suo successo derivava dalle innovazioni tecniche introdotte dallo stesso Tubby, come per esempio delle casse distinte per i tweeter, con piccoli padiglioni in acciaio che per tutta la pista da ballo mettevano in risalto le frequenze acute dei piatti hi-hat e lo schiocco del rullante. Appena il suo sound system decollò, iniziò poi ad allestire il suo studio nella casa che sua madre possedeva nella zona di Waterhouse, a Kingston. Tra 1971 e 1972, cominciò a sperimentare seriamente col potenziale delle versions. Erano un’arte in crescita: Diversi ingegneri, in particolare Errol Thompson in uno studio chiamato Randy’s, avevano cominciato a esercitare un ruolo più creativo, conducendo esperimenti sulla possibilità di manipolare le tracce per dar vita a quello che in breve sarebbe divenuto noto come dub. La grande trovata di Tubby, fu un sistema per trasferire su disco il suono delle sue serate.

Tubby aveva chiaramente una visione a tutto tondo e quasi intima, che arrivava fino ai minimi dettagli dei circuiti elettronici, degli strumenti coinvolti nel missaggio. Ma come Tubby riuscì a ottenere quel suono, nemmeno i suoi assistenti  – Smart, Lloyd “Prince Jammy” James e Overton “Scientist” Brown – sono riusciti a capirlo. “C’erano alcuni passaggi che nessuno sapeva da dove venivano” ammette Smart. “In altri studi si diceva che Tubby fosse riuscito a potenziare la consolle. Se poi avesse aggiunto qualche nuovo sistema per migliorare gli equalizzatori, io con lui non l’ho mai approfondito. Non penso fosse così, ma si vociferava che avesse cambiato i resistori o qualcosa del genere, ed è per quello che l’equalizzazione suona come suona”. La più tangibile innovazione di Tubby fu l’installazione di cursori sulla sua consolle, che gli consentivano di sfumare l’entrata e l’uscita delle diverse tracce in fase di missaggio. Per dire: la consolle di Thompson disponeva solo di pulsanti, il che lo costringeva ad aggiungere o togliere le tracce in modo tanto improvviso quanto brutale.

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King Tubby, Natty Dub, 1975.

L’accordo che in genere Tubby stabiliva coi produttori, prevedeva che questi lo pagassero per il mix dei dischi, ma che poi gli lasciassero i nastri in modo che lui potesse farne quello che meglio credeva. Tubby ne ricavava dei dub, che vendeva agli organizzatori dei sound system. Per i produttori era tutta pubblicità: almeno i loro rhythms raggiungevano un pubblico più vasto.

In particolare, Tubby inaugurò una stretta collaborazione con Bunny Lee. Le sue basi si prestavano bene al dub: Carleton “Santa” Davis, il batterista degli Aggrovators – la house band di Lee – aveva sviluppato un suono che chiamava “flying cymbal” (“piatto volante”) ispirato dai ritmi incessanti di batteristi di Philadelphia come Kenny Gambell e Leon Huff. Il risultato era un hi-hat sibilante aperto in levare e chiuso in battere, un suono acuto che spiccava nel mix e favoriva la netta separazione tra frequenze alte e basse tipica di Tubby.

Bunny Lee stimolò Tubby a spingere sulla creatività dietro la consolle, facendogli notare che più i suoni erano folli, più la folla in pista sembrava apprezzare; lo aiutò a sviluppare il suo tipico effetto eco/delay, ottenuto grazie a due nastri che rimbalzavano l’un l’altro; e approfittò anche del modo in cui Tubby impiegava i filtri passa-alto, forse il più potente tra gli effetti a sua disposizione. Il filtro passa-alto rimuove le frequenze basse: applicato su una singola parola o addirittura su una sola sillaba, dava l’effetto di far schizzare il suono su per lo spazio, coi bassi che si prosciugavano man mano che il suono si allontanava. Combinando il filtro con un effetto-riverbero, il viaggio era assicurato. “Suonava in maniera assurda, tipo film dell’orrore”, ricorda Bunny Lee, “ma al pubblico piaceva. Alla gente la roba strana piace, sai com’è”. “Quella era l’arma segreta”, racconta Smart. “Nessun altro studio capiva com’eravamo riusciti a ottenerla”.

Tubby e la sua squadra trattavano lo studio come uno strumento musicale. “Era tutto dal vivo”, ricorda Smart. “Ogni singolo particolare veniva fatto e rifatto live. Io incidevo qualcosa come venti, trenta, o anche quaranta dub in un giorno. Era tutto improvvisato, perché avevamo la giusta vibe, il feeling. Nemmeno ci pensavamo. Ascoltavi il dub appena finito e pensavi: ‘Wow! Neanche lo sapevo di aver fatto una roba del genere!’”.

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Augustus Pablo e King Tubby, King Tubbys Meets Rockers Uptown, 1976.

Il più incredibile dub di Tubby uscì nel 1976. “King Tubbys Meets Rockers Uptown” nasceva da una collaborazione con Augustus Pablo, un produttore e strumentista il cui peculiare suono, di solito costruito a partire dalla sua melodica, risultava ipnotico, quasi narcotizzante. All’origine di “King Tubbys Meets Rockers Uptown” c’è uno strumentale di Pablo chiamato “Cassava Piece”, caratterizzato da un desolato riff di melodica in minore, una linea di basso parecchio pesante, e una batteria – suonata da Carlton Barrett – talmente potente da diventare di fatto lo strumento principale. Gli effetti che Tubby applica sul mix del brano, sono a questo punto minimi: giusto un po’ di riverbero e di delay sulla melodica.

“Cassava Piece” fornì poi la base di “Baby, I Love You So” di Jacob Miller, un cantante che registrava per l’etichetta di Pablo, la Rockers. È un brano dall’andamento bizzarro, come fuori fase: non ha ritornello, e le strofe sembrano fluttuare senza direzione. “Baby, I Love You So” divenne infine “King Tubbys Meets Rockers Uptown”. E in “King Tubbys Meets Rockers Uptown”, niente resta più fermo. È l’esempio perfetto di quello che lo scrittore Steve Barrow chiama “il senso di mutazione continua” di un tipico dub targato Tubby: i frammenti del testo intonato da Miller volano nell’aria, le percussioni di Barrett rimbombano, i riverberi riverberano altri riverberi. Ascoltate attentamente, e potrete cogliere ogni singolo colpo dell’hi-hat che quasi impercettibilmente echeggia  nel canale destro. Melodica e chitarra sono letteralmente impregnati di riverberi.

Il risultato è una canzone troppo grande per essere contenuta in una stanza: come gran parte dei lavori di Tubby, richiama gli spazi aperti dei sound system, ma persino questi sembrano incapaci di trattenerla. Davvero, la canzone dà l’idea di essere troppo gigantesca per l’intera Terra. Tutti questi elementi in continua trasformazione paiono orbitare uno intorno all’altro, o forse proprio intorno alla stessa canzone, come se questa fosse il sole e le sue diverse parti i pianeti.

Ma non è solo lo spazio a sembrare più grande. La canzone sembra quasi dilatare il tempo, un po’ come il delay sulla voce di U-Roy in mezzo a una festa. Il continuo apparire e scomparire del cantato di Miller è come l’eternità condensata in un istante, è l’immenso intreccio di emozioni, sinapsi e impulsi elettrici che si cela dietro una dichiarazione tanto semplice quanto urgente: Baby, I love you so.

“King Tubbys Meets Rockers Uptown” suona come l’infinito. Ed è proprio questa concezione del mixer quale metaforico messaggero di eternità, che Tubby ha introdotto in musica. […]

Augustus Pablo e King Tubby, insieme.

Durante gli anni in cui Tubby si dedicò seriamente al dub, erano esplosi violenti conflitti fra le fazioni fedeli al People’s National Party del primo ministro Michael Manley e il più conservatore Jamaica Labour Party. Lo studio di Tubby su Dromilly Avenue, si trovava in una sorta di terra di nessuno tra le zone controllate dai due partiti. Dopo un po’, i soldati ai posti di blocco cominciarono a realizzare quello che succedeva da Tubby. “Ci rispettavano”, ricorda Smart, “ci facevano: ‘Prego ingegnere, passi pure!’”.

Spesso Tubby preferiva lavorare di notte, proprio mentre fuori dallo studio le strade si trasformavano in campi di battaglia. “Ricordo Bertram Brown [il produttore] raccontare le peripezie per partire da casa sua, in una zona controllata dal PNP, e poi raggiungere Tubby intorno alle nove”, ricorda Barrow. “Tubby arrivava dopo cena, e i due si chiudevano in studio per tutta la notte. Ogni tanto da fuori si sentivano colpi d’arma da fuoco, ma loro restavano dentro. Si mettevano a missare un dub dopo l’altro, e poi se ne andavano attorno alle quattro o cinque di mattina, quando cominciava a far giorno e anche le diverse fazioni se n’erano andate a letto. Ed è tutto finito dentro la musica. Quello che senti in un mix di Tubby, è una nazione in guerra con se stessa”.

La caotica atmosfera di un mix di Tubby – i risucchi improvvisi, le brusche impennate, le distorsioni a sorpresa – è in effetti parallelo al caos politico che infuriava fuori dallo studio. Ma la vera metafora contenuta in questi dub, si riflette nell’immagine di un uomo barricato dietro a una consolle mentre fuori volano le pallottole, chiuso dentro a uno studio diventato terreno neutrale in cui stabilire le proprie leggi. Lo stesso atto di sparare è come una registrazione one take dal vivo in studio: vivi o muori con quello che hai, e il passato mica lo puoi remixare. In quelle notti da Tubby invece, potevi immaginare un mondo migliore, totalmente sotto controllo: un luogo in cui pure se una pallottola era stata già sparata, ti restava comunque un’eternità per deciderne la traiettoria.

Redazione Prismo
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