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Cerchiamo di capire se l’essere umano più influente nei dieci anni a venire sia un bravo ragazzo o meno. Si chiama Elon Musk. Pro: vuole salvare l’umanità. Contro: non prova sentimenti.

“Quando l’uomo considera il proprio “io” come, “l’unica realtà”, è chiaro che non può ammettere che esista un oggettivo, “ragionevole”, e cioè regolare collegamento tra questo “io” da una parte e il mondo esteriore che lo circonda dall’altra. […] In tal caso egli non sarà affatto disposto ad ammettere l’esistenza nel mondo esteriore di una dose anche piccola di ragionevolezza e cioè di regolarità”.

Recentemente ho trovato in questo passaggio di Plechanov, scritto cento e rotti anni fa, la verbalizzazione di qualcosa che mi capita di provare più spesso di quanto vorrei. Non può essere un caso se ultimamente nel campo letterario si discute sempre più spesso di distopie fantascientifiche. C’è chi non desidera celebrare il futuro, meglio blandirlo, ammansirlo, sperando di non farlo arrabbiare.

Da anni la retorica di Evgenij Morozov muove dalla critica dell’epica ciecamente ottimista orchestrata e cantata dalla Silicon Valley. Morozov però non è il primo ad avere individuato sintomi di decadenza di questa stramba Atene ultra-umanista. Già nel 2005, Jonathan Huebner affrontava l’argomento in A possible declining trend in Worldwide Innovation, ispirato dai postumi colossali che il grumo di sognatori e nouveaux riches arrivisti stavano smaltendo nei primi anni del Duemila. Rimane qualcosa nel ragionamento di Huebner che non mi convince del tutto: Huebner si dichiara infatti anti-accelerazione, sostenendo che il tasso di sviluppo delle “life-changing inventions” abbia iniziato a rallentare, il progresso a diminuire — curioso come individui il tasso di progresso nel rapporto tra il numero di sviluppi tecnologici su base annua e il numero di abitanti sulla Terra. Chi avrebbe mai detto cosa si nascondeva dietro al fascino discreto del 1850:

Sentiamo come suona l’altra campana. Le cose possono cambiare, e questo cambiamento può non terrorizzare. Ecco verbalizzato l’effetto della visione di Elon Musk, inizialmente, sul sottoscritto. Qualcosa di incredibilmente ragionevole, giusto. Ideato da un essere umano proiettato all’esterno della mia scatola cranica. Poi però è subentrata la fase più razionale: quali spese comporta, il cambiamento? Non parlo di denaro. Cerchiamo di capire qual è l’impatto dell’esistenza di Musk su questo pianeta.

Le macchine
Elon Musk è, in ordine cronologico, il co-fondatore di PayPal (a 28 anni), il fondatore e CEO di SpaceX (31 anni), il CEO di Tesla Motors (32 anni) e SolarCity (35 anni), aziende di cui, dal primo giorno, rimane maggiore azionista. Andando a fondo della questione si intuisce l’interconnessione di queste aziende, il modo in cui si supportano, si scambiano consulenze su materiali, progettazione, eccetera. Prendiamone una alla volta, un paio di minuti per capire di cosa si occupano.

SolarCity ha rivoluzionato il settore delle energie rinnovabili, diventando in dieci anni il “top of mind” se sei americano e vuoi metterti dei pannelli fotovoltaici sul tetto. Nel 2012 SolarCity diventa il primo installer di pannelli solari negli Stati Uniti: chiude contratti con gruppi come Intel, Walgreens, WalMart. Nel 2014 SolarCity vale 7 miliardi di dollari.

Tesla Motors sta caricando il ceffone più violento nella storia dell’industria automobilistica — il perché lo si potrà capire nel paio di anni a venire. I motivi sono svariati, quasi impossibile riassumerli in un paio di righe. I più importanti: se ne guidi una non devi pagare-la-benzina e non c’è bisogno di manutenzione costante. Ah, e non emetti anidride carbonica. Inoltre, leviatani come Ford e gli altri possono solo sognare un network efficiente come quello di Tesla, la sua filiera verticale, la sua capacità di creare un rapporto organico tra software e hardware: quando un cliente di Hong Kong, proprietario di una Model X, si è lamentato dell’apertura verticale delle portiere nel suo minuscolo garage — condizione tipica di chi vive da quelle parti — gli ingegneri della Valley hanno sistemato il problema nottetempo, aggiornando il programma di apertura delle portiere e inserendo un’opzione di apertura parziale. Per esempio. Per i colossi è difficile semplificare, ormai; solo Tesla, per ora, è in grado di attuare una serie infinita di aggiornamenti estemporanei e implementati come si deve. È impossibile modificare nel giro di una notte, non lo so, una serie di led della plancia quando devi interagire con migliaia di fornitori.

Real-life Tony Stark

La strategia commerciale dell’azienda si può approfondire qui: in poche parole, è stata progettata una piramide, la cui cima è la Roadster del 2008, super potente, super leggera, super cara. Con le vendite della Roadster si è potuto costruire la parte intermedia della piramide, la berlina Model S e il SUV Model X, che mette in crisi sia chi li ama (prestazioni e optional indiscutibili) sia chi, giustamente, li detesta (ciao, inquinamento!). La vendita di questi modelli è finalizzata alla costruzione della base quadrata, la Model 3, un modello destinato a scavare un abisso tra Tesla e i suoi competitors. Model 3 dovrebbe essere una versione compatta della S, con meno optional e un prezzo più ragionevole.

Un’ultima cosa pazzesca: i brevetti di Tesla ora sono in outsource. Chiunque, ovunque, può sfruttarli. Tesla dimostra così a pubblico/investitori/avversari un interesse per l’ambiente innegabile chiarendo, contemporaneamente, di non sentirsi minacciata da chi è zavorrato da gestioni societarie rimaste nel ventesimo secolo. Be’, si sta parlando di automobili comunque. Voglio dire, chi se ne frega, quando si può parlare di RAZZI SPAZIALI, no?

I razzi spaziali
È sufficiente una data per capire cosa sia SpaceX: 28 settembre 2008. In contrasto con la vigilia di un tramonto, un reggimento di ingegneri aerospaziali attende l’inizio di una nuova Era, circondato dalle palme e dai razzi di Kwajalein, l’isola del Pacifico da dove SpaceX, un’azienda aerospaziale privata nata sei anni prima, sta cercando di lanciare un razzo in orbita. È il quarto tentativo. Lanciare razzi in orbita “it’s normally a country thing, not a company thing…”, dicono, è una roba che fa la Cina, la Russia, gli USA: non è una roba che fa un’azienda. Costa molto, è molto difficile. Il futuro di Musk è in questo lancio: se dovesse fallire perderebbe tutte le sue risorse, economiche, politiche, psicologiche. Conto alla rovescia, 10… 3, 2, 1.

Il quarto lancio di SpaceX, nelle narrazioni intorno a Musk, è la Rinascita. Il pittogramma della Luna Nuova. La fenice. Quelle cose lì. Grazie al lancio SpaceX dimostra la sua affidabilità alla NASA che, dopo averci pensato un paio di mesi, chiama Musk e gli offre un contratto da un miliardo e mezzo di dollari. (Altri traguardi ad avere raggiunto per primi: prima impresa privata ad agganciare la ISS; l’atterraggio, e possibile riutilizzo, di un razzo – un razzo vero, non il palloncino blu di Bezos.) Musk sta rivoluzionando l’esplorazione spaziale perché risparmia senza compromettere la qualità dei mezzi. Anzi, la amplifica. La formula segreta è sempre la stessa, la manifattura in-house (SpaceX soddisfa l’80-90% della produzione senza rivolgersi all’esterno. La principale concorrente americana, la ULA – Lockheed + Boeing – dipende da più di 1200 fornitori). Anzi, la formula segreta è così tripartita: 1) capire come si fa una cosa; 2) scoprire che gli altri la fanno sprecando tempo e risorse; 3) assorbire la lezione e partire da zero.

SpaceX rilancia le ambizioni americane nel mercato dei lanci orbitali, la parte più lucrosa dell’industria spaziale: è da più di dieci anni che gli americani, per spedire esseri umani nello spazio, chiedono la macchina a Madre Russia. Per ogni lancio volano 70 milioni di dollari da Washington a Mosca. L’azienda di Musk ne chiede 60: meno di Europa e Giappone, perfino meno della Cina. Tutto questo in una dozzina di anni. Si inizia a intuire di chi stiamo parlando? Uhm, sì, forse. Ma non si è capito niente se non si prende atto della vera Mission — dichiarata in qualsiasi rassegna stampa — di SpaceX: portare l’uomo su Marte.

Al di là del bene e del male
Elon Musk è una persona buona? Non poche testimonianze potrebbero farci propendere per il sì. George Blankenship, una delle menti dietro alla progettazione dell’Apple Store, poi coinvolto da Musk nell’ideazione dei Tesla Store, interrogato riguardo a quest’ultimo ha dichiarato: “è il primo posto in cui ho lavorato a qualcosa che cambierà il mondo”. Tipo. Un’altra citazione interessante tratta dalla biografia più affidabile, Elon Musk: Tesla, SpaceX and The Quest for a Fantastic Future, è da attribuire a Craig Venter, l’uomo che ha decodificato il genoma umano e creato forme di vita sintetiche: “Elon è una di quelle poche persone che sento essere più realizzate di me.”

Un altro target che potrebbe considerarlo il Salvatore? Chiunque sia disgustato dall’industria del petrolio e dalle conseguenze nefaste delle “missioni di pace” che scambiano regimi più o meno democratici per raffinerie. Chiunque non voglia vivere in un mondo surriscaldato, viziato, sottosviluppato. Un target di tutto rispetto. Ovviamente la situazione è un po’ più complessa di così.

Uno dei segreti di Musk è la gestione del tempo. Il tempo è l’unica risorsa il cui esaurimento lo preoccupa davvero. Accelerazione e Alienazione, il PBE citato nell’introduzione, ruota intorno alla discussione del Tempo; secondo Rosa, quello del tempo nelle nostre vite, oggi, è il totalitarismo perfetto: “abbastanza efficiente da soddisfare l’enorme bisogno di regole delle società moderne proprio perché rimane tale: silenzioso, inosservato, ideologicamente individualizzato e naturalizzato.”

Partendo dalla gestione muskiana del tempo si arriva a una serie di aneddoti apologetici. Il mio preferito: Kevin Brogan, un ex ingegnere di SpaceX, dichiara: “Fa tutto velocemente. Piscia velocemente. È come un idrante — tre secondi e ha finito.” Le deadline non sono scandite in mesi o settimane, ma in giorno per giorno e ora per ora. Secondo Ashlee Vance, l’impiegato ideale di SpaceX è Steve Davis (1979, scapolo, direttore degli advanced projects): lavora un minimo di 16 ore al giorno da anni. Un’altra eminenza grigia esemplare è Gwynne Shotwell, presidente di SpaceX, la stessa ad avere dichiarato che in un futuro molto prossimo la gara per il commercio spaziale si giocherà esclusivamente tra SpaceX e Cina. È anche sulle spalle di queste persone che si regge il suo impero.

La strategia è semplice: capire come si fa una cosa, scoprire che gli altri la fanno sprecando tempo e risorse, assorbire la lezione e partire da zero.

Nella biografia, Ashlee Vance si trova a raccontare due settimane tipo di Musk, quattordici giorni in cui Musk si sposta nel suo jet privato una dozzina di volte, vede prima i suoi figli, poi Eric Schmidt di Google, poi Barack Obama, e il resto del tempo lo divide tra Tesla e SpaceX. Mentre leggevo hanno iniziato ad aumentarmi i battiti per minuto, il respiro si è fatto più breve, le mani hanno iniziato a evaporare. Mi sono fermato cinque minuti, ho fatto altro. Come può un uomo vivere così. “Fa quello che vuole. È il mondo di Elon – e noi ci viviamo dentro”: citazione da cui possiamo capire perché a fornirla sia stata la sua ex moglie. Benvenuti nel lato oscuro della forza.

Raccogliendo le interviste per il suo libro, Vance riscontra una certa tendenza: più di un dipendente evidenzia una inquietante carenza di lealtà ed empatia. Per alcuni, la gente che lavora per Musk viene usata come un militare usa le munizioni: finalizzate a uno scopo, fino a quando vengono esaurite ed eliminate. L’esempio forse più tragico: la parabola di Mary Beth Brown. Per dodici anni è sostanzialmente l’ombra di Musk, lavora tutte le ore in cui tiene gli occhi aperti, come la trottola di Inception, la vedi solo girare. Un giorno chiede un adeguamento allo stipendio, considerati i sacrifici, e viene spedita due settimane in vacanza. Una volta tornata il Capo le dice che è perfettamente in grado di coprire le sue mansioni da solo: licenziata. Ovviamente le versioni sono molteplici, c’è chi parla di un conflitto con la moglie di Musk, chi (Musk) sostiene che le sia stata offerta un’altra posizione (non accettata), eccetera.

Rimane un rumore di fondo, un rumore spiacevole. Si ritorna alle diagnosi di Asperger ventilate già da quando era bambino.

1) Alla gente ormai piace diagnosticare l’Asperger appena una persona dimostra di essere più impacciata della media, uno sguardo vacuo sospetto, una camminata non oliata. Un fattore che mi fa vacillare, a dire il vero, è il suo ossessivo “ragionare per immagini”, più volte ripetuto nelle interviste, più volte ripetuto anche da Temple Grandin e spesso riscontrato nei soggetti autistici. Un sintomo, però, non fa una diagnosi.
2) Vance giustamente allude alla massima empatia e calore testimoniata direttamente dalle persone che colorano la vita privata di Musk: le feste pazze che organizza per gli amici, il suo senso di protezione per i figli.
3) Non confondiamo l’autismo con l’essere, semplicemente, un po’ stronzi.

Musk non sopporta l'esistenza di bug del software neurale: vale a dire le approssimazioni, le incertezze e gli errori tipici degli esseri umani.

Sicuramente un netto disinteresse per i sentimenti degli altri non è una cosiddetta soft skill desiderabile nel curriculum di chi come mestiere vuole salvare l’umanità. Un ufficiale americano, anonimo per scelta, dice che il più grande “enemy” di Musk è “himself and the way he treats people”. Musk non sopporta le approssimazioni, le incertezze, gli errori, i bug del nostro software neurale. Per nostro intendo di noi esseri umani, quelli che provano piacere nello sfamarsi, urinano con calma, non costruiscono dal nulla dei fottuti razzi nel giro di un paio d’anni. Ai suoi dipendenti domanda, su base quotidiana, l’impossibile. Letteralmente. Non rispetti una deadline qualsiasi? C’è un refuso in una mail importante? Vai ad assistere alla nascita di tuo figlio al posto di presenziare a un evento? Licenziato. (Il caffé è freddo? Lo sputo sulla scrivania. Sul serio: sono tutte informazioni sparse nel libro.) Le parole delle persone che gli stanno vicino sembrano spesso pronunciate da soggetti traumatizzati.

Musk è il cugino che ti batte a Trivial Pursuit e ti rinfaccia gli errori per il tuo bene; Musk è lo studente che ne sa più di te; Musk è quello che in pizzeria tira fuori l’app per pagare esattamente ognuno il suo, anzi, fa i calcoli a mente già dalle ordinazioni: e, come dice l’adagio, se non vedi un Musk intorno a te, vuol dire che Musk sei tu.

Musk buono, Musk cattivo. Politicamente, Elon è ermafrodita: è un consumatissimo lobbista, è vero. Ha oliato entrambi gli schieramenti, per anni: niente di nuovo sul fronte statunitense. È vero, le sue aziende sono in piedi anche grazie ai massicci sussidi governativi accumulati negli anni — si parla di quasi cinque miliardi di dollari. Ma non mi basta. E se il problema fosse un altro?

Marte, la terra promessa
Torniamo alla Mission: perché proprio Marte? Il fine ultimo di Space X risponde — né più né meno — all’angoscia apocalittica con un dispiegamento di mezzi tecnologici ed economici mai visti nella storia dell’umanità. Né più né meno. L’obiettivo di Space X, come semplifica magistralmente Tim Urban, è fare un backup della cartella “umanità” sull’hard disk: Marte. Non è una facezia che mi sono appena inventato. È la Mission di un’azienda da 12 miliardi di dollari. Più precisamente: l’obiettivo è imparare, su Marte, come costruire colonie nello spazio. Il fine ultimo è colonizzare l’universo.

Perché colonizzare Marte, l’universo? Perché stiamo rendendo la Terra invivibile. Negli ultimi due secoli abbiamo continuato a salire lungo una scala in fiamme. Questa è la defensive reason dietro alla moltiplicazione interplanetaria: poi c’è qualcos’altro. Musk la definisce la exciting reason: imbarcarsi nella più grande avventura di sempre. Musk la spiega così: la ragione per cui ti svegli la mattina non può essere soltanto la soluzione di una serie di problemi: ci deve essere qualcosa di più. Qualcosa in cui credere. Non so come dirlo meglio: non è interessante come, in un presente così sfornito di una dimensione spirituale, il gotha della Silicon Valley si rivolga al Cielo? Eppure. È questo il segreto ultimo. La Terra promessa. È questo il culto che tiene insieme migliaia di lavoratori iperattivi, esauriti, sfibrati. SpaceX ha portato al livello successivo il concetto di mission aziendale; ha portato al livello successivo la definizione di dipendenti.

Dal libro si apprende che il personale di SpaceX non riceve una busta paga esorbitante (almeno, rispetto al monte ore); il personale vorrebbe un po’ più di attenzione per salute e tempo libero; il personale vorrebbe che l’azienda entrasse in borsa, il capo no. Sa cosa fare, come ogni profeta. Mi chiedo però quanto possa durare l’efficacia di questo premio, di questo traguardo finale. E se dopo quarant’anni Mosè fosse morto lasciando il suo popolo in mezzo alla sabbia?

Ecco cosa potrebbe essere davvero malvagio: che la corsa per Marte, ripetuta ossessivamente da Musk alla stampa e ai suoi dipendenti, sia, in fondo, il più faraonico, enorme, megagalattico esempio di carota-legata-al-bastone di sempre.

Intendo dopo la promessa della vita dopo la morte, ovviamente. Promettere a quei ragazzi una passeggiata su Marte in cambio dell’annichilazione della loro vita privata, il totale sacrificio sull’altare del lavoro 24/7 per un’azienda guidata da una dirigenza schizofrenica, be’, mi sembra un’ottima idea. Non serve essere astronauti per capire che motivazione possa scaturire da una promessa del genere. Qui e ora, Terra 2016, è la promessa più forte, l’avventura più folle, il mistero più profondo; Elon Musk, il demiurgo. Può essere vista come un miraggio: ma cosa può essere sembrata, dopo mezzo secolo, la Terra Promessa?

Un retroscena altrettanto affascinante: così come Musk “guida” i suoi dipendenti, gli Stati Uniti “guidano” Musk. Ovvero: Musk vuole conquistare il sistema solare, e vabè: intanto gli Stati Uniti lo assecondano, lo aiutano, lo proteggono, visto che i sottoprodotti del suo fine ultimo, le auto elettriche, l’energia solare a basso costo, i lanci orbitali economici, sono più che sufficienti per ricambiare lo sforzo. Gli USA hanno visto di che pasta è fatto. Ashlee Vance non sembra notare l’evidente collegamento tra un virgolettato attribuito a Musk ai tempi della sua prima startup, “piuttosto di fallire ricorro al seppuku”, e la katana appesa nel suo ufficio di SpaceX: io sì.

Musk è unidimensionale. Non ha mai avuto dubbi che questo sia l’unico modo di agire nell’unico mondo possibile. In un certo senso, la sua visione è appiattita, espressione massima del turbocapitalismo.

La più grande spinta progressista su scala industriale di sempre, sembra nascondere la minaccia reazionaria più becera. Tesla e gli altri mostri della Valley stanno migliorando la vita della gente, sì, soprattutto della gente molto ricca. Chi lavora e produce è ancora tagliato fuori da certe promesse. Musk sostiene che Model 3 è l’esempio di un progetto destinato al pubblico di massa: un progetto tuo a partire da 35.000$. Ecco qualcosa che fatica ancora a cambiare.

“Già gli antichi pensatori, per esempio Platone e Aristotele, comprendevano benissimo come l’uomo venisse umiliato dal fatto che tutte le sue forze vitali erano inghiottite dalle preoccupazioni per la propria esistenza individuale. E lo capiscono anche gli attuali ideologi della borghesia. Anch’essi considerano indispensabile alleggerire l’uomo dal peso avvilente delle continue difficoltà economiche. Ma l’uomo di cui essi si occupano è quello che appartiene alla classe più ricca della società e che vive dello sfruttamento dei lavoratori. Essi vedono la soluzione del problema nello stesso modo in cui già la vedevano gli antichi pensatori: nell’asservimento dei produttori da parte di un piccolo gruppo di felici eletti che si avvicinino più o meno all’ideale del “superuomo”. Ma se una tale soluzione era conservatrice già all’epoca di Platone e Aristotele, all’epoca attuale è diventata ormai ultrareazionaria. E se i padroni di schiavi conservatori, contemporanei di Aristotele, potevano pensare di riuscire a conservare, la loro posizione dominante fondandosi sul proprio “valore” personale, oggi invece gli attuali predicatori dell’asservimento della grande massa del popolo sono molto scettici sul valore degli sfruttatori usciti dall’ambiente borghese. Per questo essi indulgono molto volentieri al sogno che si ponga a capo dello stato un geniale superuomo che con la forza della sua volontà d’acciaio sappia rinsaldare il vacillante edificio del dominio di classe”.

Zizek, 2016? No. Plechanov, 1912.

Nicolò Porcelluzzi
È nato a Mestre nel 1990. Dal 2015 scrive per Prismo e The Towner. Fa parte della redazione del Tascabile. Tra il 2010 e il 2016 è stato il redattore di inutile, rivista letteraria.

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