Fantascienza in salsa new weird, con una spolverata di Saussure: su Embassytown, l'ennesimo capolavoro dell'unico e inimitabile China Miéville, da poco pubblicato in italiano.
Prima di cominciare a leggere fantascienza non pensavamo molto a certe cose. Abbiamo dovuto migliorare la nostra fantasia. Nell’arco della nostra storia abbiamo creato dei generi e abbiamo dato loro dei nomi. Ma prima di scoprire la fantascienza non pensavamo molto a certe cose. Era il mondo a pensare per noi. Le parole per designare gli intenti e le azioni, per costruire i personaggi e le trame, provenivano dal vocabolario e dall’uso collaudato che ne facevamo quotidianamente nel mondo.
Quando arrivarono i libri di China Miéville non avevano un’etichetta | avevano molte etichette, così inventammo delle parole nuove per permettergli di trovare posto sugli scaffali delle nostre librerie. I mondi di Miéville | della fantascienza non si comportavano come gli altri. Pensammo a loro attraverso gli schemi della Letteratura, finché questa non li assimilò. Prima di cominciare a leggere Embassytown non pensavamo molto perché eravamo come loro, gli Ospiti che vivevano nella città che offrì rifugio agli umani, per i quali inventarono parole nuove affinché trovassero un posto nel loro | nostro mondo. Eravamo come alieni. Decidete voi perché gli assomigliavamo e perché no. Siamo stati simili a ogni cosa.
Ora leggiamo fantascienza e pensiamo più di prima.
New Weird e altri mondi
Tra gli autori lì fuori, China Miéville dovrebbe essere uno dei pochi a non necessitare presentazioni. Stilista raffinato dall’inventiva esuberante, capace di coniugare con equilibrio e sensibilità la riflessione politica e la spinta dell’avventura, Miéville è la quintessenza dell’intellettuale a tutto tondo proveniente dall’esperienza della letteratura di genere, come prima di lui possono essere stati J. G. Ballard e Iain M. Banks, e come al giorno d’oggi possono essere ancora Ursula K. Le Guin e Neil Gaiman, volendoci limitare a una coppia di nomi.
Inglese, nato a Norwich nel 1972, dopo la separazione dei genitori si trasferisce, ancora bambino, con la madre e la sorella a Londra. Proprio la capitale britannica diventerà la presenza silenziosa incombente sulle sue opere, fin dall’esordio con Un regno in ombra nel 1998, per continuare con il monumentale ciclo del Bas-Lag che tra il 2000 e il 2004 gli guadagna una popolarità crescente. Perdido Street Station, La città delle navi e Il treno degli dei compongono un trittico ambizioso per tematiche e world-building, portando in scena la convivenza tra umani e creature fantastiche in un mondo alieno in cui coesistono magia (o meglio taumaturgia), scienza e tecnologia. I preparativi per questa serie hanno richiesto a Miéville dieci anni di lavoro, intrecciati con i suoi studi in antropologia sociale prima e filosofia del diritto poi, culminati in una tesi sul marxismo nelle relazioni internazionali.
Il suo impegno politico, declinato con la candidatura nelle liste dell’Alleanza Socialista nel 2001 e nella fondazione del partito di Left Unity nel 2013, di cui il regista Ken Loach è stato uno degli ispiratori, rivive nelle sue pagine, mentre nelle sontuose e sinistre architetture di New Crobuzon riverbera il fascino maestoso di Londra, meritandogli il paragone di Michael Moorcock con il Mervyn Peake di Gormenghast. “Sento che Londra ha preso posto in me fin da quando ero piccolo, tanto quanto io in lei” ha avuto a dichiarare Miéville al Guardian. Co-fondatore della rivista Salvage Quarterly, ha anche redatto una discussa – ma utilissima – lista di romanzi di fantasy e fantascienza raccomandati a un lettore socialista.
Miéville si è subito imposto tra i nomi di spicco del cosiddetto New Weird, quel genere ibrido che mescola elementi della tradizione fantascientifica con il fantasy e l’horror, proponendo la ricerca di un nuovo senso del meraviglioso attraverso l’elaborazione di creature e scenari stravaganti immersi in un contesto complesso e rigoroso, caratterizzato da una forte verosimiglianza. Sull’esempio di antesignani come M. John Harrison, Clive Barker e Stephen King, autori come lui, Jeff VanderMeer, Michael Swanwick e Paul Di Filippo hanno battuto sentieri che sarebbero stati seguiti, nel tempo, da un numero in continua crescita di scrittori fantasy desiderosi di sciogliere le pastoie della sterile emulazione tolkieniana.
Con la menzionata trilogia del Bas-Lag, Miéville ha raccolto una messe di riconoscimenti, imponendosi due volte all’Arthur C. Clarke Award e altrettante al British Fantasy Award e al Locus Award. Il successivo Il libro magico gli ha meritato il Locus Award nella categoria Young Adult. Nel 2010 è la volta de La città e la città, un poliziesco dal sapore esistenzialista ambientato in una città fantastica da qualche parte nei Balcani, in cui convivono, sovrapposte e interlacciate l’una all’altra, due città diverse, ma forse il gioco degli specchi e degli inganni potrebbe essere ancora più complesso di così. Per la terza volta Miéville centra il Clarke Award, e per la prima volta ottiene anche lo Hugo e il World Fantasy Award, una doppietta di tutto rispetto che per altro testimonia l’assoluta trasversalità dell’opera tra i generi del fantastico. Nella sua vetrina manca solo il Nebula Award, che continua a sfuggirgli tuttora.
Ma una simile pioggia di premi ha forse oscurato la sua produzione più recente: se Kraken e Railsea (i suoi unici romanzi ancora inediti in Italia, tutti gli altri sono invece stati pubblicati da Fanucci Editore) possono essere anche letti come intermezzi nella sua produzione più impegnata e riuscita, non si deve invece correre assolutamente il rischio di prendere sottogamba Embassytown, pubblicato nel 2011 e insignito del Locus Award, finalmente tradotto in italiano con grande bravura dal linguista Federico Pio Gentile (al suo esordio con un libro di genere) e dato alle stampe sempre da Fanucci a marzo.
Al di là dell’immer, dove non c’è altro che manchmal
Arieka è un avamposto periferico, sottosviluppato e mal collegato con il resto dei mondi colonizzati dall’umanità, abitato da una specie senziente ossequiosamente nota come “gli Ospiti”. Il pianeta avrebbe scarso interesse per le altre civiltà, se non fosse che gli Ospiti/Ariekei padroneggiano in maniera innata le biotecnologie, vivendo di fatto in un ecosistema che è esso stesso il prodotto di una “manipolazione della vita” che trascende le conoscenze degli umani. La loro città è una creatura vivente, così come le loro fabbriche e fattorie.
Gli Ospiti hanno anche una prerogativa che li rende una specie unica nell’universo conosciuto: provvisti di due bocche, sono incapaci di mentire. Parlano un linguaggio – la Lingua – che è il risultato della fusione di un inciso e un’eco, che danno un significato ai suoni solo in virtù della loro combinazione reciproca. Oltretutto la Lingua non ammette il minimo scarto dalla realtà. Nella Lingua, ogni espressione è la fusione di due voci, a partire dal saluto più comune: sunhaill | jarr. Essa presuppone inoltre l’esatta corrispondenza tra significante e referente, e questo rende impossibile la scrittura (che richiede necessariamente la mediazione simbolica), ma anche la menzogna (in quanto negazione della verità):
Gli Ariekei sono individui relativamente semplici. I loro discorsi sono un intreccio di due sole voci, troppo complesse e variegate per essere classificate come toni bassi o acuti. Sono due suoni inestricabili provocati dalla coevoluzione di una bocca finalizzata all’ingestione e all’articolazione di parole, e quello che un tempo, con tutta probabilità, era un organo di allarme specializzato. Questi esseri non sono capaci di scindere le voci e parlare utilizzandone una sola.
Allo sbarco dei primi coloni umani gli Ariekei vanificano i protocolli di Contatto Linguistico Accelerato che hanno consentito all’umanità di instaurare una comunicazione con tutte le altre specie intelligenti con cui è entrata in contatto. La loro voce, in quanto elaborata da una mente con cui gli Ospiti non riescono a entrare in sintonia, è percepita dagli alieni come rumore privo di contenuto. Per loro è come trovarsi davanti a un interlocutore che biascichi incapace di esprimere un concetto compiuto. Di più: mancando del tutto la corrispondenza tra i “rumori” emessi dagli umani e la realtà, gli alieni non riescono nemmeno a percepirli come esseri senzienti.
Gli Ariekei, pacifici e disinteressati all’immer, potrebbero essere abbandonati sul loro mondo. Ma le loro biotecnologie hanno un potenziale mercato che spinge la superpotenza interplanetaria di Bremen a instaurare e intrattenere con loro uno stretto sodalizio mercantile. Per aprire una crepa nel muro dell’incomunicabilità, gli umani escogitano una soluzione: ricorrono alla clonazione e alla connessione neurale per ingegnerizzare delle coppie di “gemelli” in grado di esprimersi nella modalità degli Ospiti, attraverso due voci che diano espressione ai pensieri delle loro menti sincronizzate. Nascono così gli Ambasciatori, a cui viene delegata la gestione delle trattative commerciali.
Arieka ha un’unica grande città, in cui vivono la maggior parte degli Ospiti, che sono insolitamente poco numerosi per una civiltà planetaria. In questa città senza nome gli umani insediano la loro colonia, per metà cittadella e per metà ghetto, che prende il nome di Embassytown. È qui che nasce e viene allevata Avice Benner Cho, in un sistema di turnazione parentale che ha ampliato a dismisura il concetto di famiglia. Lei stessa, da donna cresciuta in un milieu simile, rifugge inoltre ai ruoli convenzionali di genere, motivo ulteriore per dissuadere da subito dalla lettura i “custodi della famiglia tradizionale” e gli oltranzisti inseguiti dagli spauracchi della “teoria gender”. Per tutti gli altri, lettori curiosi e appassionati a prova di sovraccarico informativo, Embassytown è un tour-de-force letterario in grado di riservare soddisfazioni pressoché a ogni pagina.
Su un’idea che racconta di aver coltivato fin dall’età di 11 anni, Miéville costruisce un romanzo difficile da dimenticare, che condensa nelle sue pagine la quidditas della fantascienza. Diversamente dal profluvio di dettagli riversato nei romanzi del Bas-Lag, qui l’autore sembra tirare il freno alla sua passione per i particolari. Gli stessi Ariekei vengono descritti in maniera fin troppo vaga per i suoi standard, appena sufficiente a richiamare degli abbozzi di creature partorite da un incubo lovecraftiano: strani ibridi tra un insetto gigante e un cavallo, provvisti di ali prensili, un ventaglio acustico e occhi a stelo. E lo stesso vale per la cosmologia sottesa al mondo di Avice:
“È il terzo universo” dissi a Scile. “Prima di questo ce ne sono stati altri due. Giusto?” Non sapevo quanti civili fossero a conoscenza di queste cose; per me erano diventate pane quotidiano. “Tutti nati in maniera diversa e con le proprie leggi. Nel primo, per esempio, la luce viaggiava al doppio della velocità di quello attuale. Ognuno di loro si è generato, espanso, invecchiato e collassato. Tre diverse approssimazioni accomunate da un’unica, vera, costante: l’immer”.
L’umanità e le altre civiltà in possesso della tecnologia necessaria vivono nel manchmal (dalla parola tedesca che significa “in un certo momento”) e si muovono attraverso l’immer (dal tedesco “sempre”). Fari segnaletici posizionati da qualche antica civiltà di cui si sono perse le tracce aiutano i naviganti a evitare i tratti di immer più pericolosi. Gli scambi in cui sono coinvolti gli avamposti più remoti, come Embassytown, richiedono il ricorso a miab (forse un acronimo per message in a bottle), capsule automatiche contenenti beni materiali, corrispondenza e informazioni. Come risultato, per la maggior parte del tempo Embassytown è una colonia che per il sostentamento può fare affidamento solo sulle proprie forze e sui proficui rapporti d’amicizia instaurati con gli Ospiti.
Gli Ariekei non conoscono la poesia né l’arte: la cosa che più si avvicina è il cosiddetto “Festival delle Bugie”, istituito dopo il contatto con i coloni umani.
Gli immergenti e i barcamenanti
La Lingua degli Ariekei manca completamente di arbitrarietà e presenta una corrispondenza “esatta” con la realtà. Tant’è vero che ogni Ospite conosce e parla una sola Lingua, senza la minima sfumatura dialettale. Gli Ariekei non conoscono la poesia né l’arte: la cosa che più si avvicina è il cosiddetto “Festival delle Bugie”, istituito dopo il contatto con i coloni umani. Periodicamente si riuniscono e assistono al sofisticato gioco degli Ambasciatori capaci di testimoniare il falso, che induce in loro uno stato di frenesia euforica. Sul modello dei residenti umani, si cimentano a loro volta cercando di congegnare scappatoie dalla Lingua che gli consentano di avvicinarsi il più possibile alla menzogna.
Bisognosi inoltre di estendere la loro esperienza per elaborare nuove espressioni inesistenti nella Lingua, una parte significativa delle relazioni tra Ospiti e umani si fonda sulla disponibilità degli abitanti di Embassytown a prestarsi nella rappresentazione di figure retoriche, quali esempi, argomenti e – le più prestigiose e rispettate di tutte – similitudini. Ci sono così “l’uomo che indossò attrezzi al posto dei gioielli”, “la ragazza che fu tenuta sveglia e al buio per tre notti”, “il ragazzo che fu aperto in due e poi richiuso”, “l’uomo che nuota coi pesci ogni settimana”. Ogni definizione implica una condizione di sfruttamento di qualche tipo, spaziando nello spettro che va dall’innocuo, all’impegno gravoso, al traumatico. Ed è quello che capita ad Avice, che ancora bambina viene coinvolta in una messinscena e trasformata a beneficio degli Ariekei nella “ragazza che fu ferita e mangiò ciò che le venne offerto”, entrando così a “far parte della Lingua”. È un’esperienza dolorosa, ma che le consente di guadagnarsi una via di fuga dal pianeta, diventando una immergente ed entrando nell’equipaggio di una nave commerciale.
Potrebbe essere l’inizio di un viaggio avventuroso alla scoperta dei misteri sepolti nella geografia sinistra dell’immer, ma Miéville ha altri programmi e liquida l’argomento in una manciata di pagine. Cariche di un surrealismo suggestivo, possiamo comunque annoverarle tra le più dense del romanzo (se avete in mente l’atmosfera che si respira nel mitico Viaggio nella Luna di Georges Méliès, avrete un’idea dell’effetto onirico di queste descrizioni). La penna di Miéville riesce a evocare con credibilità assoluta la rotta di questi vascelli spaziali che solcano le onde della notte cosmica:
Non è raro perdersi nei meandri caotici dell’universo conosciuto. Gli equipaggi delle navi esoterriane che hanno imparato a convivere con la pressione causata dai loro propulsori seguono traiettorie ancora più improbabili e fuorvianti, fatte di secche e insenature nascoste, un misto di tecnologia e stregoneria. È stato così per mega/ore, prima che l’umanità fosse partita alla scoperta dell’immer dando vita alla nostra nuova specie: l’Homo diaspora.
Insomma, se vi aspettate la solita technobabble a base di wormhole, iperspazio, FTL e motori a curvatura, avete sbagliato indirizzo. Miéville costruisce un mondo in cui tutto deriva da un’unica visione al punto che, per quante sfaccettature vengano toccate e messe in mostra dalla vicenda, alla radice di tutto si avverte un’unità di ispirazione che potremmo definire addirittura radicale. Prendiamo per esempio questo passaggio paradigmatico:
I confini dell’immer non corrispondono affatto alle dimensioni del manchmal, lo spazio in cui viviamo. La miglior spiegazione possibile definisce l’immer come qualcosa che sovrasta o soggiace, che pervade; le fondamenta che reggono ogni cosa; la langue di cui la nostra realtà è parole, e così via. Qui, dove la quotidianità si estende in decenni/luce e peta/metri, Dagostin è molto più distante da Tarsk e da Hodgson’s che da Arieka. Ma nell’immer, tra Dagostin e Tarsk ci sono solo un centinaio di ore col vento a favore, Hodgson’s è al centro di abissi calmi e popolati, e Arieka molto lontano da ogni cosa.
Per descrivere le caratteristiche del suo universo Miéville ricorre a un paragone con la teoria linguistica di Ferdinand de Saussure, prendendo in prestito dallo strutturalismo la terminologia nella contrapposizione tra langue e parole: ovvero tra il sistema di segni che forma il codice di un idioma e l’atto linguistico individuale del parlante. L’universo fisico non è separato dalla lingua usata per descriverlo, ma diventa un tutt’uno con essa. Sotto questo aspetto, l’autore sembra compiere una sofisticata manovra mimetica con le sue creature, mostrando quanto la sua protagonista, un’umana (anzi, post-umana) che dovrebbe essere del tutto estranea alla visione del mondo degli Ariekei, sia in realtà inconsapevolmente condizionata dagli schemi di pensiero alieni.
Miéville ricorre a un paragone con la teoria linguistica di Ferdinand de Saussure, prendendo in prestito dallo strutturalismo la terminologia nella contrapposizione tra langue e parole.
Un’ulteriore caratteristica rende Avice un’irregolare nella civiltà da cui proviene: diversamente dai suoi colleghi immergenti, la sua esperienza nell’immer è temporanea e s’interrompe dopo soli pochi anni (o kilo/ore per dirla con il suo sistema di misura del tempo). Dopo avere incontrato durante i suoi viaggi Scile, un linguista che si mostra subito interessato alla Lingua, ed essersi unita a lui in matrimonio, per assecondarne gli interessi accademici si lascia convincere a tornare su Arieka. Rientrata a Embassytown, si scopre a vestire i panni della celebrità, fulcro dell’ammirazione e dell’invidia altrui. Diventa una barcamenante, in originale floaker, un’artista dell’adattamento, abile nel cavalcare l’onda del momento e riuscire a trovarsi sempre nel posto giusto al momento giusto.
Frammentata, episodica e quasi aneddotica, tutta la prima metà del romanzo è un mosaico di molteplici situazioni rievocate attraverso una sequenza di salti avanti e indietro nella memoria di Avice. In realtà, è un lento progredire su un’orbita discendente verso il vero punto di partenza della storia: mentre Scile si immerge con un trasporto ossessivo nello studio degli Ospiti e della loro lingua, man mano che progredisce nelle ricerche Avice lo sente allontanarsi da lei. Distratti dalla routine dell’Ambasciata, nessuno si accorge del complotto messo in atto dal nuovo Ambasciatore, frutto di una sofisticata manipolazione politica. Alla sua prima uscita pubblica la duplice voce di Ez | Ra sortisce un effetto imprevisto: le sue parole scatenano il caos tra gli Ariekei. Dal suo punto di vista privilegiato Avice assiste a tutto, impotente. È l’inizio della fine, che occupa la restante metà di Embassytown.
Vecchi trucchi per nuove leve
La lezione che Avice, gli Ariekei e gli abitanti di Embassytown apprenderanno sulla loro pelle è che “il linguaggio è un virus”. Miéville spinge alle estreme conseguenze l’intuizione di William S. Burroughs e nel contagio che erode le fondamenta della società aliena, estendendosi all’intero ecosistema di Arieka, se ne colgono echi inconfondibili. Racconta Miéville a The Believer: “I mostri sono la cosa che più amo del fantastico. Purtroppo non si possono vendere libri di soli mostri agli editori. Quelli insistono per avere delle storie che li colleghino tra di loro”. Ci sono pagine in Embassytown che sembrano sviluppare le idee di Burroughs per riempire i vuoti tra i mostri, tra un’azione efferata e la successiva contromossa. E tra le pagine più drammatiche del romanzo, si annoverano quelle in cui l’infezione portata dagli agenti di Bremen viene dipinta con un’efficacia in grado di plasmare in immagini le parole del guru della beat generation. Miéville sembra prendere brani come questo (da Nova Express, 1964) e trasporli nella sua storia, scaturendo una narrativa di conseguenze non-lineari, di cui non è tuttavia difficile scorgere il ceppo originario:
Onde elettriche che falciavano attraverso gli schemi cerebrali della Terra – Il messaggio della Resistenza Totale sulle onde corte del mondo – Questa è guerra all’ultimo sangue – Scambiare le lingue – Tagliare le linee delle parole – Far vibrare i turisti – Lasciare libere le porte – Fotografie che cadono parole che cadono – Fare irruzione nella Stanza Grigia – Chiamata generale per i partigiani di tutte le nazioni – Torri aprite il fuoco!
Embassytown potrebbe di fatto essere una versione extraterrestre dell’Interzona, ai cui panorami allucinati e distorti finisce per assomigliare terribilmente. La crisi che minaccia di distruggere i rapporti tra umani e Ariekei dischiude uno spazio di possibilità per mettere in discussione certezze date ormai per scontate. L’ipotesi della relatività linguistica a cui si ispira Miéville è già stata in passato oggetto di lavori notevoli nell’ambito della fantascienza – basti citare I linguaggi di Pao di Jack Vance (1958) e Babel-17 di Samuel R. Delany (1966) – e in tempi recenti la linguistica in senso lato, quale indagine e pretesto per la comprensione del punto di vista alieno, è stata anche al centro dello splendido racconto Storia della tua vita di Ted Chiang (1998; a proposito, è in produzione l’adattamento cinematografico per la regia di Denis Villeneuve). Ma se Chiang si sforza di tenere confinato il focus della storia sulla dimensione intima e privata della protagonista, Miéville invece allarga l’inquadratura sulla scala globale degli effetti comportati dallo “scontro di civiltà”.
Quello di Miéville è anche un atto di critica contro le politiche coloniali di egemonia culturale, di cui l’assoggettamento mentale degli Ospiti alla nuova “droga verbale” è in qualche modo la più feroce rappresentazione.
Gli Ariekei che sviluppano una forma di dipendenza dalle parole di quello che finiscono per battezzare “Dio-Narcotico” sembrano offrire uno scenario di totale sconfitta per il dialogo. E se la reazione immediata da parte degli alieni è il cieco abbandono all’odio e alla rabbia, con la costituzione di bande spietate in preda a un fanatismo convulso e irrazionale, la risposta di Avice esprime un atto di fede laica nelle ragioni del prossimo, sia esso umano o alieno. Intrappolata in una situazione senza via d’uscita, mentre la maggior parte dei residenti di Embassytown si lascia precipitare nella spirale di un piacere disperato e nichilista, il suo rifiuto della resa è tutto ciò che separa la sopravvivenza della città e del pianeta dal collasso della civiltà ariekeiana.
Miéville indugia con un certo compiacimento nelle dinamiche della resistenza, barcamenandosi a sua volta tra società segrete e cospirazioni a più livelli, senza paura di mettere in scena i costi della rivoluzione. Il suo è anche un atto di critica contro le politiche coloniali di egemonia culturale, di cui l’assoggettamento mentale degli Ospiti alla nuova “droga verbale” è in qualche modo la più feroce rappresentazione. La rottura delle catene non può essere indolore e dovrà necessariamente passare per un sacrificio commisurato all’importanza della conquista.
Umani, mostri e oltre
Alcuni critici hanno lamentato la distanza della voce narrante dal lettore. Ma per non inciampare nelle maglie della sospensione dell’incredulità, è comunque meglio mettere in conto alla protagonista una certa dose di stranezza, sia come effetto della sua appartenenza a un’umanità molto diversa dalla nostra (trasformata dall’ingegneria genetica come dall’interazione con le intelligenze artificiali e l’impiantistica neurale), sia come creatura fortemente condizionata dalla prospettiva aliena.
Il mondo dell’Homo diaspora richiede un vocabolario di neologismi atti a rimarcare la lontananza dalla nostra epoca e al contempo illuminare il lettore con la loro densità di significati: il software è solo un pallido progenitore del turingware che alimenta gli automi come Ehrsul, con cui Avice stringe amicizia prima che tutto vada in pezzi; la lingua franca è l’anglo-ubik, con una chiara reminescenza del Dick di Ubik; gli extraterrestri sono exot, con un tocco esotico che nella traduzione viene declinato nella dicitura di “esoterriani”. Federico Pio Gentile non deve aver avuto vita facile nel riprodurre l’esuberanza linguistica di Miéville, ma i suoi sforzi risultano ampiamente ripagati dai risultati. Allo stesso modo, da apprezzare anche la soluzione tipografica adottata per la trascrizione delle espressioni ariekeiane: mentre in originale Miéville sceglie la notazione frazionale, riportando a numeratore l’inciso e a denominatore l’eco delle loro parole, nell’edizione italiana si è optato per una più semplice concatenazione delle due voci, separate da una barra verticale che ricorda, oltre alla divisibilità del simbolo originale, anche il simbolo della probabilità condizionata nonché la notazione bra-ket introdotta in meccanica quantistica da Paul Dirac.
Inoltre è piuttosto sorprendente la connessione “emotiva” che si riesce a instaurare con gli Ariekei, in particolare con quelli che, con tutta la goffaggine e le difficoltà prevedibili, si battono per la stessa agenda sposata da Avice. A un certo punto si tocca il paradosso per cui si è più interessati alla sopravvivenza degli alieni, in lotta per assicurare un futuro alla loro progenie a costo di perdere tutto, piuttosto che per i residenti di Embassytown, quasi tutti apatici e indolenti. Gli umani trasformati in figure retoriche a beneficio delle risorse espressive degli Ospiti meritano un approfondimento, in quanto offrono una delle possibili chiavi di lettura del romanzo. Rappresentano una versione letterale dei vagabondi di Ray Bradbury che mandano i libri a memoria in Fahrenheit 451 per salvarli all’olocausto e trasmetterli alle generazioni future. In maniera analoga a questi volontari votati a veicolare la conoscenza attraverso gli anni bui della dittatura, le similitudini di Embassytown si prestano a compiere e subire azioni affinché con la loro esperienza si possa arricchire il vocabolario della Lingua. E se le similitudini fotografano la realtà in maniera “mimetica”, il passaggio successivo, da similitudine ad allegoria e metafora, sembra suggerire un’analoga espansione degli orizzonti verso la letteratura non-mimetica e quindi verso i territori del fantastico.
In definitiva, Embassytown è un libro di fantascienza che propone una riflessione carica di implicazioni sull’incontro con il diverso e sul costo reale della contaminazione, ma che può essere letto anche come un libro sulla fantascienza, sulle sue strutture narrative e sul contributo della sua specificità alle risorse della letteratura. Un gigantesco esperimento mentale che al suo interno racchiude un grappolo di altri rompicapi filosofici, morali e politici. Al pari di altri romanzi degli ultimi anni (Accelerando di Charles Stross, La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo di Audrey Niffenegger, Il sindacato dei poliziotti yiddish di Michael Chabon) è un’opera esemplare e ambiziosa, capace di esaltare le caratteristiche di inventiva, ricerca, avanguardia speculativa e complessità che rappresentano la quintessenza della fantascienza, qualità che lo rendono di fatto un’opera letteraria tout-court | un capolavoro del genere.
Giovanni De Matteo è uno degli iniziatori del connettivismo. Collabora con Fantascienza.com, Robot e Quaderni d'Altri Tempi e cura con Salvatore Proietti il webmagazine Next-Station.org. Ha co-curato l'antologia Next-Stream: oltre il confine dei generi e il suo ultimo romanzo è Corpi spenti (Urania Mondadori). Il suo blog è holonomikon.wordpress.com.