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Taurina, trance e capitalismo: a proposito di Persona, l'ultimo disco di Lorenzo Senni (che è anche il primo italiano a uscire su Warp).

Ho una mia teoria su Lorenzo Senni e in particolare su Persona, il suo ultimo EP da poco uscito per Warp. È una teoria che probabilmente lo stesso Senni rigetterebbe, ma intanto provo a illustrarla lo stesso e niente, sentite qua.

Come saprete se ci avete scambiato due chiacchiere o avete letto qualche sua intervista, Lorenzo non fa uso di droghe. È insomma quello che in altri ambienti chiameremmo uno straight edge, e suppongo che i suoi trascorsi nella scena hardcore-punk abbiano avuto un ruolo in tal senso. La sua musica quindi – piuttosto prevedibilmente – è priva di qualsiasi qualità propriamente psichedelica, almeno nell’accezione che siamo soliti applicare al termine.

Però.

Lorenzo Senni è anche un consumatore compulsivo di energy drink. Che rispetto ad altre sostanze hanno l’indubbio vantaggio di essere legali e tranquillamente acquistabili in un qualsiasi supermercato, ma che nondimeno degli effetti li producono. Le Scienze li riassume in un misto di “maggiore vigilanza, miglioramento dell’umore, e maggiore energia mentale e fisica”; ma quando si eccede con le dosi, è facile scivolare in uno stato di ultraveglia artificialmente alimentato. Qualcosa come un’euforia innaturale e iperattiva, sempre sotto la soglia dell’effetto psicotropo vero e proprio, ma pericolosamente prossima a un’iper-lucidità dai caratteri inequivocabilmente alterati.

Ecco, la musica di Persona è (o almeno mi sembra) la descrizione esatta di questo stato, e brani come “Win in the Flat World” e “One Life, One Chance” sono appiccicosi tour de force per arpeggiatori tachicardici che paiono davvero composti della stessa mistura di glucosio, taurina e caffeina riportata nella lista degli ingredienti di una qualsiasi Red Bull. Figuriamoci: può benissimo darsi che sia tutta un’elucubrazione personale, di una mia sovrainterpretazione che nulla ha a che vedere con i reali intenti di Senni in persona. Ma se è vero che, una volta fuori, qualsiasi musica vive di vita propria, travalicando e all’occorrenza tradendo persino le intenzioni del suo stesso autore, mi piace pensare che sia una lettura comunque legittima. Anche perché con l’accostamento tra Persona ed energy drink, non voglio minimizzare alcunché: al contrario, penso che stia proprio in questo (immaginario?) rapporto che risieda l’importanza del lavoro di Senni da almeno qualche anno a questa parte.

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Da Persona, Warp, 2016.

Persona è l’ultimo capitolo di un percorso inaugurato dal producer di Cesena nel 2012 con l’album Quantum Jelly, e proseguito due anni dopo con Superimpositions: sono i due lavori che, un po’ a sorpresa, hanno cominciato a far circolare il nome di Lorenzo anche presso ascoltatori (tipo che ne so, Thom Yorke) non per forza a conoscenza dei suoi trascorsi nella scena diciamo così elettroacustica-sperimentale, e che di fatto hanno preparato l’accasamento di Senni su un marchio prestigioso come Warp (un passo che non era mai riuscito a nessun italiano prima di lui). Ora: di entrambi i lavori ho scritto più volte in passato, e sempre cercando di restituire quella specie di attonita perplessità data dall’ascolto di una musica costruita su elementi semplicissimi eppure proprio per questo irriducibilmente alieni; senza farla troppo lunga, su un Blow Up di qualche tempo fa notavo per dire come in un album come Quantum Jelly “l’intervento umano sembra come abdicare a una sorta di primigenia intelligenza macchinica, coi sequencer che glaciali ruotano attorno a loro stessi accumulando una tensione che non porta ad alcun rilascio, e ogni ombra di desiderio, di carne, di sudore, di sangue, viene sacrificata sull’altare dell’edonismo digitale”.

Con quell’album, Senni dava inizio a una curiosa ricerca personale tutta incentrata sullo studio dei build up, ovvero su quelle frasi ascendenti che nella musica dance (specie in quella più “commerciale”) servono a preparare l’ormai famigerato drop; detta altrimenti, il build up è quel momento in cui il ritmo viene come sospeso a mezz’aria, producendo quella sensazione di vuoto improvviso che in realtà prelude al ritorno della cassa: un trick dall’impatto emotivo molto forte, abbondantemente utilizzato negli anni ’90 dalla cosiddetta techno-trance che imperversava nelle discoteche sparse tra Rimini e Riccione (si pensi a quel classico che è la “Children” di Robert Miles, nome d’arte dello svizzero-italiano Roberto Concina).

Il lavoro di Senni nasce in effetti proprio dai suoi ricordi adolescenzial-romagnoli, ed è spesso presentato come un recupero decontestualizzato del vecchio verbo trance. La particolarità introdotta da Quantum Jelly in poi, è però che i build up si impuntano in una reiterazione ostinata senza che la cassa arrivi mai: è pointillistic trance, per dirla con le parole dello stesso Lorenzo. L’effetto, notavo sempre ai tempi, “è a suo modo violentissimo”, perché a venire frustrato è quel senso di liberazione dato dal ritmo che orgasmico detona dopo l’apparente quiete. Il momento del piacere viene cioè continuamente procrastinato, annunciato e poi rimandato, senza che in ultima analisi arrivi mai.  

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Da Quantum Jelly, Editions Mego, 2012.

Dischi come Quantum Jelly e Superimpositions, coi suoni degli arpeggiator che fanno pensare a una scarica di stalattiti e cristalli di ghiaccio, sono lavori di una freddezza quasi spietata; ma le citazioni trance anni ’90 e i riferimenti alla dance culture “da riviera” conservano anche una punta di kitsch, che è poi l’ingrediente che gli impedisce di precipitare nell’autismo assoluto. Ora: in Persona, quel kitsch non dico che prenda il sopravvento, ma senz’altro tinge i brani di colori palesemente più accesi che in passato. Detta in altri termini: Persona è il disco “melodico” di un autore che nelle precedenti prove aveva prosciugato quasi del tutto ogni appiglio emotivo-sentimentale.

In questo senso, Persona sembra dovere più di qualcosa a Stargate, il progetto “pop” dello stesso  Senni che da qualche tempo pare messo in ibernazione. Sarò sincero: non era un progetto che mi abbia mai convinto granché, e a posteriori mi sembra più la testimonianza di una fase interlocutoria, o forse un primo, maldestro tentativo di emanciparsi dall’austera seriosità dei lavori precedenti allo stesso Quantum Jelly. Va in effetti ricordato che prima di darsi alla pointillistic trance che poi l’avrebbe portato su Warp, Senni lo conoscevamo per la computer music rumorosa e astratta di cose come Dunno, il suo album del 2010.

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Un estratto di Dunno dal vivo, 2012.

Tempo fa, leggevo che Senni aveva intenzione di rimettere mano al progetto Stargate per dare finalmente libero sfogo a questo suo lato “emozionale”; ma quello che trovo interessante in Persona, è proprio come queste due anime – la luccicante vacuità delle melodie sintetiche da una parte, l’asciutto puntillismo trance dall’altra – confluiscano in una specie di strano, paradossale, isterico erotismo asessuato. Ed è qui che la faccenda comincia a farsi interessante, perché è da qui che derivano interpretazioni diverse e persino contrapposte di una ricetta in apparenza semplicissima e fin troppo “trasparente”.  

Da una parte, la musica di Persona restituisce l’idea di un desiderio che monta, monta e ancora monta senza mai sfociare in alcun appagamento reale. È cioè una specie di eccitazione fine a se stessa, di libido portata al limite ma insoddisfatta. In questo viene facile da pensare al lavoro di Senni come a un commento (presumo involontario) all’esasperata mercificazione della sfera privata tipica di un mondo che è riuscito a mettere a profitto persino skill affettive e qualità personali: pensate a come la knowledge economy insista sull’investimento emotivo dei suoi aspiranti impiegati, che devono immancabilmente risultare “brillanti”, “estroversi”, “capaci di fare squadra” e così via. Abbiamo già parlato di come, in questo mondo, ai lavoratori viene espressamente chiesto di portare con sé le proprie emozioni, personalità e individualità”, e abbiamo anche sottolineato come questo sia un mondo che letteralmente non dorme mai: tra sollecitazione estrema delle risorse psichiche dell’individuo, politiche 24/7 e conseguente fine della notte come momento di sospensione di gerarchie e ruoli costituiti, l’imperativo è restare SVEGLI, anche nel senso biologico del termine.

Ora, già in Testo Junkie – Sex, Drugs and Biopolitics, Paul B. Preciado notava come “oggi la vera posta del capitalismo è il controllo farmacopornografico delle soggettività”, ed è quindi in questa chiave che va letta “la produzione di stati mentali e psicosomatici di eccitazione […], onnipotenza e controllo totale”. Bene: se il recente consumo su larga scala di cocaina – che da droga di status per yuppies rampanti anni ’80 si è trasformata in droga performativa per la classe media del nuovo millennio – sembra rispondere esattamente alle dinamiche dell’imperante “economia dell’attenzione”, c’è un’altra sostanza esplosa in questi anni che dichiara di assolvere allo stesso compito senza peraltro gli sgradevoli contrattempi derivanti dallo spaccio di stupefacenti illegali. Indovinate quale?

Energy drink per tutti i gusti.

Con le loro lattine dal design balistico che da sole evocano un senso di scioltezza e velocità, i claim sugli effetti che “stimolano corpo e mente”, il sapore dolciastro-frizzante e l’enfasi morale sul “work hard and party harder”, gli energy drink sono gli eccitanti (legali) su cui regge una narrazione tutta rivolta al divertimento coatto, all’evasione imposta, e alle pratiche estreme sì ma controllate e di conseguenza socialmente innocue (si pensi al rapporto, anche sul piano dell’immagine, tra energy drink e sport estremi; anche se ok, ogni tanto lì qualche morto ci scappa). Già Will Self – uno che di sostanze se ne intende, diciamo – ha messo in relazione l’incontrollata diffusione di energy drink e la capitolazione dell’individuo dinanzi a un “mondo accelerato” in cui le decisioni vanno prese al nanosecondo e le esistenze vengono vissute in un continuo e ininterrotto stato di allerta. “Nuotiamo in una orangey brinelight, un campo energetico addizionato di anidride carbonica, una consapevolezza con bollicine”, ammetteva Self; “è un’esistenza da sogno, ma un sogno ad occhi aperti – e per questo dobbiamo ringraziare gli energy drink”.

Lo scivolamento di questa dreamlike experience – la stessa espressione che pure avremmo utilizzato per una sana e “improduttiva” esperienza psichedelica – nel dominio di una veglia economicamente quantificabile, farebbe pensare a una deriva allucinatoria del rapporto che storicamente lega capitalismo e caffeina (che in effetti degli energy drink è uno degli ingredienti base). Una specie insomma di “psichedelia antipsichedelica”, o se preferite di “trance con le bollicine”: che poi è un altro modo di descrivere la musica di Lorenzo Senni.

Chiaramente, se c’è un gruppo di musicisti che più ha insistito sull’elevazione dell’energy drink a feticcio simbolico oltre che iconico, questo è il giro PC Music, che nel suo ambiguo programma di parodia/esaltazione dell’immaginario turbocapitalista è arrivato a concepire un progetto come QT, a tutt’oggi l’operazione meglio riuscita del collettivo orbitante attorno al produttore A.G. Cook. Come sappiamo, QT è sia una cantante la cui personalità è modellata sul calco delle idol giapponesi, sia una bevanda “fizzy & bouncy” contenuta in una lattina dall’inconfondibile design, ed è a tal proposito interessante notare le assonanze tra un EP come Persona e l’estetica iperglicemica messa a punto da A.G. Cook & co; ma c’è anche un ultimo dettaglio che arrivati a questo punto è impossibile eludere, anche per il peso che ha preso a esercitare nel campo delle musiche “pop” da qualche anno a questa parte: e cioè il coinvolgimento attivo del principale marchio di energy drink nel mondo della musica elettronica, nonché il significato che tale coinvolgimento riveste nelle recenti mutazioni di quella che una volta chiamavamo “club culture”.

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Lorenzo Senni alla Red Bull Music Academy, novembre 2016.

La Red Bull Music Academy è nata nel lontano 1998 allo scopo di supportare, promuovere e diffondere il lavoro di musicisti, producer, dj e non meglio precisati “sound artists”. Nel corso del tempo, questa strana istituzione a metà tra mecenatismo 2.0 e spudorata self-promotion, è riuscita a conquistarsi un’innegabile autorevolezza, al punto che persino un mensile serissimo e rigoroso come The Wire si è visto costretto a dedicargli (tra non poche polemiche, va detto) un corposo speciale. Per Red Bull Music Academy sono passati – in qualità di ospiti, borsisti o semplicemente lecturer – alcuni tra i nomi più interessanti della recente ricerca elettronica, compreso Lorenzo Senni in persona. Ma se la Academy, tra tutte le contraddizioni del caso, si è saputa conquistare un generalizzato alone di prestigio, lo status dell’energy drink che per primo battezzò la lattina a forma di proiettile resta controverso.

L’affermazione commerciale di Red Bull coincide non per caso col tentativo, da parte dell’industria beverage, di recuperare quella fetta di mercato andata persa negli anni ’90 con l’uso ricreativo di stupefacenti e droghe sintetiche da parte della generazione rave: in questo contesto, Red Bull ha saputo giocare in maniera spregiudicata sulle affinità tra esperienza clubber e un più vago lifestyle all’insegna del concetto di “energia” (da energy drink alla “Energy Flash” di Joey Beltram, il passo è breve), nonché sull’identità di uno stimolante perfettamente legale e a mezza strada tra ingredienti naturali (il guaranà contenuto nella Red Bull fu una delle smart drugs più in voga negli anni ’90) e appeal sintetico (il design futuribile, il sapore artificiale, i colori acidi delle campagne pubblicitarie).

Red Bull si è comportata insomma da autentica “Rave Voyeur”, per citare di nuovo uno dei brani contenuti in Persona. E comunque si voglia giudicare quest’operazione, tocca ammettere che alla fine Red Bull ha vinto: non tanto e non solo perché con la sua Academy il marchio-simbolo degli energy drink è riuscito a legittimarsi presso un pubblico di suo sospettoso nei confronti di ambigue campagne di branding; quanto perché la club culture nel suo complesso ha rinunciato a qualsiasi ethos contro(sotto?)culturale per retrocedere a inoffensiva e un po’ banale industria del leisure, perfettamente funzionale a quello stato di veglia imposta che vede nel “tempo libero” null’altro che l’ennesima, profittevole terra di conquista, con le bollicine che a malapena nascondono il sapore mellifluo dello sciroppo capitalista. Certo, esistono le eccezioni. Ma sono eccezioni che spesso tradiscono tante contraddizioni quante quelle che per comodità ascriveremmo a una multinazionale che tenta di accreditarsi come paladina del “facciamolo strano”.

Il rave voyeur Lorenzo Senni.

Allo stesso modo, “Rave Voyeur” è forse il brano dal titolo più significativo per comprendere l’operazione che Lorenzo Senni sta portando avanti da Quantum Jelly in poi: suggerisce una vicinanza-lontananza da un mondo di cui Lorenzo è assieme espressione (viene come detto da trascorsi di computer music e il suo coinvolgimento nella scena elettronica è innegabile) e spettatore passivo (non è mai stato veramente coinvolto dalla cultura rave, e il suo sguardo su quei suoni e quell’esperienza è inevitabilmente “a freddo”). La condizione di osservatore esterno di quell’orgia dionisiaca che fu la club culture nella sua fase eroica, potrebbe spiegare in parte proprio quella sensazione di “desiderio non appagato” da cui discendono i ragionamenti affrontati finora. Messa in questi termini insomma, la musica di Senni è l’espressione di un fallimento: in quegli arpeggi ostinati e appiccicosi, in quella parossistica e antiemotiva “psichedelia antipsichedelica” alimentata a forza dall’abuso di energy drink che a loro volta dettano tempi e modi di fruizione della musica elettronica, starebbe il senso di una parabola generazionale (e musicale) che partita da propositi di sfrenata emancipazione, si è infine impantanata in un build up che non conduce da nessuna parte.

Eppure, se c’è qualcosa che salva Persona da quella jouissance nichilista che accomuna tanta musica elettronica dei giorni nostri, è proprio questo suo rifiuto di piegarsi al godimento orgasmico del drop, questa negazione a prescindere del climax e di una teleologia chiaramente decifrabile. È un’interpretazione che ribalta quasi del tutto gli assunti mortiferi che pure sembrano innervare le gelide architetture delle varie “Rave Voyeur” e “Win in the Flat World”, e che viene ben riassunta da Alex Iadarola in un recente intervento su Arachne in cui il critico americano parte da un tweet di Ada O’Higgins di DIS Magazine. E be’, in quel tweet sibillino, O’Higgins portava avanti una proposta che, se condividete con me l’idea che la musica di Senni rimandi costantemente un piacere che non interviene mai, dovrebbe suonarvi familiare: let’s not come, let’s keep going.

Da quell’invito a non venire, Iadarola ragiona su come certa musica elettronica metta in discussione “l’inesorabile narrativa del tempo lineare, che è caratterizzata dalla sua logica normativa di progresso”. Il let’s not come sarebbe quindi un modo per “prevenire, distrarre, dirottare e far fruttare l’orgasmo”, e quindi rigettare “la strumentalizzazione dei nostri flussi libidinali e affettivi da parte del capitalismo farmacopornografico”. È dopotutto questa l’aspirazione di tutta la musica psichedelica sin dagli anni ’60, e già nel decennio successivo i critici si erano molto interrogati sul significato latente di musiche “antiteleologiche” e apparentemente distantissime tra loro come la discomusic da una parte e il minimalismo dall’altra. Iadarola non fa mai il nome di Lorenzo Senni, è vero; e va anche detto che su come le musiche antiteleologiche (dalla discomusic al minimalismo alla stessa techno) possano anche essere lette non come liberazione, ma come celebrazione di una realtà disumanizzante e prona ai ritmi del capitale macchinico, esiste una letteratura intera. Ma personalmente mi piace chiudere così: pensando che in un’era in cui a essere ricodificati sono lo stesso concetto di umano, di genere, di eros e be’, a questo punto anche di orgasmo, un’altra trance è possibile.

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Grazie a Riccardo Zanola, Enrico Petrilli, Chiara Catalisano e Vincenzo Santarcangelo per i suggerimenti e gli spunti.

Valerio Mattioli
Valerio Mattioli, caporedattore di PRISMO, ha scritto tanto in giro. Il suo libro "Superonda - Storia segreta della musica italiana" è uscito per Baldini & Castoldi nel 2016.

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