Domenica 4 dicembre gli italiani sono corsi in massa alle urne per il referendum costituzionale. Ma com’è potuto succedere che il dibattito sulla riforma degenerasse in psicosi collettiva?
La polemica dell’ultimo giorno sulle matite copiative che si cancellano, e dunque permetterebbero agli scrutatori di modificare il voto dei cittadini, è stata il degno coronamento di una campagna elettorale all’insegna del sospetto, o forse la sua perfetta metafora. La schiacciante vittoria del No al referendum costituzionale del 4 dicembre era prevedibile persino dall’interno delle nostre “bolle di filtraggio”, semplicemente ascoltando le conversazioni e leggendo i social network; ma negli ultimi mesi abbiamo visto in che modo il confronto attorno al quesito abbia assunto i caratteri di una vera e propria “emergenza democratica”.
Un panico inedito, inspiegabile, indomabile, ha contagiato il popolo italiano, e ciò persino di fronte alla promessa (senza dubbio demagogica) di una riduzione dei costi della politica. Attorno alla riforma, e accanto ad altri argomenti più solidi e ricevibili, hanno iniziato a fiorire le leggende più visionarie, dalle 500.000 schede precompilate con il Sì al famigerato “articolo segreto”. Dietro alla lettera del quesito referendario e dietro alle ragioni di Renzi si è iniziato a immaginare di tutto: tentazione autoritaria del caudillo fiorentino, grande svendita della sovranità alle istituzioni europee, favore ai poteri forti della finanza internazionale a cominciare dalla banca J.P. Morgan… Ma erano davvero così assurdi questi timori?
Le ragioni del No sono state tante e variegate, e molti elettori hanno votato contro la riforma perché l’hanno trovata “pasticciata”, “scritta male”, “brutta”, oppure semplicemente per mandare a casa il governo. Ma se dietro ci fosse anche il timore di quello che potrebbe accadere se si rendesse davvero efficace il funzionamento dello Stato?
Il paradosso sta tutto in questa frase di Luigi Ferrajoli, apparentemente paradossale: “I mercati ci chiedono l’involuzione autocratica”, ha scritto l’insigne giurista, “perché i nostri governi abdichino al loro ruolo di governo”. Insomma secondo Ferrajoli uno Stato forte sarebbe la condizione necessaria per… uno Stato debole. Christian Raimo ha espresso questo concetto in maniera diversa, citando Pierre Dardot e Christian Laval, secondo i quali le modifiche costituzionali sono soltanto degli strumenti nelle mani delle oligarchie neoliberiste. Portando all’estremo questo argomento, sembrerebbe che uno Stato disfunzionale sia in fondo auspicabile perché — pur non essendo in grado di offrire una solida politica di pianificazione o ridistribuzione — getta sabbia negli ingranaggi di un sistema economico percepito come ingiusto. Si tratta di un argomento così radicale e massimalista, così visceralmente post-politico, che si fatica a prenderlo sul serio: eppure è proprio qui che sta il nodo della questione.
Solo perché sei paranoico non significa che non ce l’hanno davvero con te
La post-politica si nutre di “post-verità”, per citare un termine di moda. L’impressione è che tanto le ragioni del Sì quanto quelle del No fossero scollegate dal proverbiale “merito della riforma”: da una parte si proponeva una poco probabile modernizzazione del paese, dall’altra una specie di colpo di Stato. Ma in fondo non è sempre stato così? La complessità del reale, figuriamoci quella della politica e dell’economia, entra sempre con molta fatica nelle maglie del linguaggio: siamo nella post-verità da quando è nata la società, perché l’animale politico è anche animale mentitore. Sono sempre stati i miti politici a muovere le masse.
Quello che è cambiato, semmai, è che oggi tutti dispongono degli strumenti necessari per fare “fact-checking”, per citare un altro termine alla moda, e confutare le verità degli altri. E così d’un tratto un numero crescente di persone si è accorta che le cose non vanno esattamente come le raccontano i politici, gli economisti, gli storici o gli scienziati. Si tratta di un processo di disintermediazione che permette ad ognuno di comporre la propria dieta informazionale su misura, rifiutando certe narrazioni a profitto di altre. Così da una parte abbiamo Buzzfeed che sbugiarda le bufale del web grillino e dall’altra TzeTze che rifiuta il discorso del potere svelando il presunto complotto americano dietro al traffico di migranti: ma essendo di fatto venuto a cadere il consenso collettivo sulla gerarchia delle fonti, mancano anche i criteri per mettersi d’accordo su cosa sia vero e cosa sia falso. La parola “fact-checking” è così diventata un lasciapassare per confutare le opinioni che non ci stanno a genio, e magari legittimare tentazioni di “filtraggio” dei social media.
La faccenda delle matite è, anche qui, emblematica. Se da un lato presta a ironie la cocciutaggine con cui certi elettori hanno fatto mettere a verbale presunte irregolarità, dall’altra non si può escludere per principio che in certi casi le irregolarità vi siano. La relativa novità di queste preoccupazioni, tuttavia, segnala un livello di diffidenza abbastanza allarmante. Più interessante ancora la questione dell’influenza della banca J.P. Morgan, che tanto ha solleticato la vena sarcastica del Foglio. Eppure un dibattito sui rapporti tra finanza e politica resta legittimo.
La complessità del reale entra sempre con molta fatica nelle maglie del linguaggio: siamo nella post-verità da quando è nata la società, perché l’animale politico è anche animale mentitore.
La teoria secondo cui la banca J.P. Morgan accompagna e dirige l’attività dei governi nazionali risale nientemeno che a Karl Polanyi, che nella Grande Trasformazione (classico della storia economica scritto nel 1944 e pubblicato da Einaudi) descrive il ruolo dell’alta finanza nel coordinamento dell’ordine monetario e geopolitico ottocentesco. Questa influenza sotterranea, incarnata secondo Polanyi prima dai Rothschild e poi dai Morgan, è servita a garantire un secolo di prosperità (enorme sviluppo economico e il più lungo periodo di pace nella storia umana) sbloccando le resistenze dei singoli stati nazionali. Ma d’altra parte, sempre secondo lo storico ungherese, questo stesso fragilissimo equilibrio commerciale ha posto le condizioni per le grandi guerre del Novecento.
“Distintermediazione” significa anche che questa stessa lettura di Polanyi, che qui rimetto colpevolmente in circolo, potrà essere distorta e semplificata al punto di servire a qualche narrazione cospirazionista o persino antisemita. Ed è appunto questo meccanismo perverso che caratterizza la nostra Era del Sospetto: ovvero un accesso alla conoscenza che produce dei veri e propri “shock informazionali”. Questi shock risultano dall’assimilazione non-strutturata di un’enorme quantità di dati, frammenti di sapere che si organizzano secondo nuove logiche mostruose.
Così ad ognuno di noi, poveri diavoli ed emeriti costituzionalisti, pare d’intravedere dietro alle verità ufficiali i frammenti di altre verità più profonde: ed è da questa visione appannata, come in uno specchio, che sorge il sospetto generalizzato che ci mette gli uni contro gli altri. Possiamo salutare l’avvento della post-verità come una grandiosa rivoluzione che ha abbattuto l’oligopolio dell’informazione: ora non ci resta che da fare i conti con la crisi che ne consegue.
La crisi dell’ordine dominante
Non è escluso che persino dietro alle più ridicole teorie della cospirazione vi sia la traccia di qualche verità fattuale, né che al cuore delle più solide certezze vi sia un mito che merita di essere confutato. D’altronde se siamo arrivati a questo punto è perché, di tutta evidenza, i paradigmi “legittimi” hanno cessato di produrre risultati soddisfacenti. La crescente diffidenza verso le classi dirigenti sanziona la loro incapacità di mantenere promesse, azzeccare previsioni e prendere decisioni che non siano già state prese altrove, cioè dai mercati. Se ultimamente si parla tanto del problema della corruzione dei politici — a cui si oppone il feticcio dell’onestà — è perché i costi diretti e indiretti che queste classi fanno gravare sulla società non sono più compensati dalla produzione di un adeguato valore aggiunto. Il problema non è morale, bensì epistemologico ed economico. Oggi viviamo nel regno del Genio maligno di Cartesio, in cui la verità è semplicemente sospesa in attesa di nuovo ordine.
Sfortunatamente quella che sembra emergere dalle rovine dello storytelling dominante non è una comprensione del mondo più limpida, non-ideologica se questo mai fosse possibile, quanto una proliferazione di nuove finzioni paranoiche, forme moderne dello gnosticismo politico teorizzato da Eric Voegelin. Al sistema che li ha cresciuti con dosi esorbitanti di retorica iperdemocratica, antitotalitaria e turborivoluzionaria, gli attuali movimenti anti-sistema rispondono con narrazioni distopiche che sembrano uscite fuori da film come Matrix, V for Vendetta, Essi vivono o Hunger Games. Insomma restituiscono alla lettera ciò che gli è stato trasmesso in forma simbolica da quella stessa industria culturale che pretendono di combattere: di fatto, danno per scontato l’ordine finzionale dominante (“il sistema garantisce libertà e benessere”) e lo puntellano con ipotesi ad hoc aberranti (“se non lo fa, è perché c’è una dittatura o un complotto”) che permettono di eludere ogni presa di coscienza delle contraddizioni insanabili che minano il nostro modello di sviluppo. A forza di pretendere di avere “tutto sotto controllo” mentre invece ogni cosa cadeva a rotoli, il sistema ha creato il suo esercito di paranoici pronti a insorgere.
Con sconcerto degli intellettuali che puntavano sulla conversione delle masse ai valori liberali, libertari, concilianti, ottimistici della classe media, oggi possiamo osservare uno squarcio nel tessuto della grande narrazione progressista.
Questa paranoia è tutto sommato una reazione abbastanza ragionevole, dal momento che nulla di ciò che vediamo attorno a noi assomiglia a quello che ci era stato promesso. Il mio personalissimo shock informazionale l’ho avuto guardando le serie decennali di crescita del PIL, leggendo i marxisti ma anche gli austriaci. Per lungo tempo abbiamo vissuto felicemente dentro una finzione, sperperando le nostre risorse in prospettiva di una crescita illimitata e augurandoci l’improbabile avvento di una società senza conflitti. Quella che chiamiamo “crisi” — di fatto, una congiuntura che dura e si inasprisce da mezzo secolo — si presenta come cocente smentita di questa finzione.
Con buona pace degli esperti che ci avevano illuso di aver domato il drago dei cicli economici e con sconcerto degli intellettuali che puntavano sulla conversione delle masse ai valori liberali, libertari, concilianti, ottimistici della classe media, oggi possiamo osservare uno squarcio nel tessuto della grande narrazione progressista. Qualcuno dice che lo sviluppo capitalistico ha infine raggiunto le proprie colonne d’Ercole e qualcun altro profetizza che si sta aprendo un periodo di stagnazione secolare; quel che è sicuro è che la “socialdemocrazia reale” non assomiglia più a quel sistema che ci era sembrato tanto convincente sulla carta. E allora perché mai oggi dovremmo credere a un politico, a un giornalista o a uno scienziato?
Quando la gente smette di credere al Corriere della Sera
Via via che viene giù a pezzi l’ordine del discorso dominante, sono sempre più numerose le vittime degli effetti devastanti dello shock informazionale. Il nudo sospetto, il dubbio generalizzato, è ciò che rimane nel vuoto delle narrazioni. Il robusto No alla riforma costituzionale è figlio anche di questa narrazione paranoica, che i vecchi partiti hanno cavalcato con successo. Ma il loro è un calcolo a breve termine, perché con la radicale diffidenza che hanno alimentato — la mucca nel corridoio — dovranno presto fare i conti. È proprio nella spazio di verità condivisa lasciato vacante dal processo di disintermediazione che trovano spazio quei poteri “opachi”, non elettivi, che i movimenti populisti denunciano. Chesterton scriveva: “Quando la gente smette di credere in Dio, non è vero che non crede in niente, perché crede in tutto”. E qui potremmo parafrasare: “Quando la gente smette di credere al Corriere della Sera, non è vero che non crede in niente, perché crede in tutto”.
Il grande storico medievale Ibn Khaldūn, nella sua indagine sui cicli storici, aveva individuato il principio che tiene assieme in maniera efficace i gruppi sociali. Si tratta della cosiddetta “asabiyya”, ovvero la capacità del gruppo di coordinarsi in vista di un risultato comune. Oggi, nell’epoca della disintermediazione, vengono appunto a mancare i dispositivi sociali in grado di concatenare blocchi sociali e far convergere le volontà isolate entro un numero limitato di narrazioni condivise. Soltanto progetti politici estremamente vaghi caratterizzati dal generico rifiuto dello status quo (come può essere un No referendario) sono capaci di aggregare la coda lunga delle inquietudini individuali. Ma questo non basta. Come ricordava ancora Polanyi, la forza dell’economia deve essere inquadrata e accompagnata dal potere politico: ma per fare questo è necessario che un potere esista. E per esistere deve trarre da qualche parte la sua legittimità.
La democrazia, bisogna ricordarlo, è una finzione giuridica. Come ogni finzione, regge fintanto che non la si sottopone a un fact-checking troppo rude. Oggi, caricata di un peso di aspettative probabilmente eccessivo, rischia semplicemente di collassare. Nell’Era del Sospetto, ovvero nel momento in cui viene a mancare la fiducia come nesso fondativo della delega rappresentativa, questa finzione crolla e non può più operare. Abbiamo bisogno di fiducia proprio come Cartesio aveva bisogno della fede per uscire dalle secche del dubbio trascendentale. Perché il mondo della post-verità è il regno della post-politica, nel quale nessun argine esiste più tra gli uomini e il caos.
Raffaele Alberto Ventura vive a Parigi dove si occupa di marketing per un grande editore europeo. Editor-at-large di Prismo e fondatore del blog Eschaton, ha scritto per Studio, Internazionale e Minima & Moralia.