Quattro chiacchiere con La Buoncostume, i creatori di Età dell'Oro, la nostra serie comedy italiana preferita.
Qualche mese fa ho intervistato, sempre per le pagine di Prismo, Pier Mauro Tamburini, Simone Laudiero e Fabrizio Luisi, ossia tre-quarti de La Buoncostume, il collettivo creativo che, con Carlo Bassetti, scriveva, dirigeva e interpretava Klondike, la serie comedy che si trova sul loro canale YouTube e dalla quale è nata poi Età dell’Oro, che di Klondike è figlia, ma anche sorella, oppure genera. Non so bene. Per rispondere a questa domanda, ma anche per parlare di cosa vuol dire scrivere una serie tv oggi, di come si definisce una nuova comicità italiana, e anche di Jake La Furia, Boris e litchis, ho pensato di riconvocare i soliti tre per fare altre due chiacchiere.
Prima di lasciarvi all’intervista, un paio di cose da considerare su Età dell’Oro. 1. Fa molto, molto ridere. 2. È una serie che parla delle disavventure di due giovani creativi freelance a Milano ed è molto più vera di tutte le altre comedies italiane che io abbia mai visto. 3. Contiene Bebo Storti che interpreta un personaggio chiamato IL GRANDE MERDA che si rifiuta di dare a Carlo e Fabrizio i loro tremila euro, che è tipo la prima scena della serie e che già da subito mi ha fatto innamorare. 4. Finalmente si rivela uno dei migliori personaggi comedy italiani degli ultimi anni, Marcello di Roma, interpretato meravigliosamente da Luca Vecchi dei The Pills. Inoltre: cammei di Costantino Della Gherardesca, Sergio Rubini, Matilda De Angelis, Jake La Furia e tanti altri. 5. Penso che probabilmente tracci una nuova strada per la comedy fiction italiana, prendendo elementi della commedia tv americana e mischiandoli con elementi nostri (si parla perfino di Fantozzi, nell’intervista, pensate un po’!) ma anche elementi di dramedy estremamente moderni. 6. Alla fine della fiera è molto poco una commedia, nel senso che è vera, che colpisce duro, e che fa anche male.
Detto questo, sotto con l’intervista.
Tim: Allora, in poche parole, Età dell’oro è il sequel o il prequel di Klondike?
Fabri: Diciamo che è il figlio di Klondike: assomiglia al padre e ne condivide parte del patrimonio genetico.
Insomma, non vi siete fatti pippe di questo tipo. Voglio dire, è lo stesso concetto ma rifatto, non c’è una tagline specifica che connetta i due.
Simo: Esatto. Possiamo anche dire che Età dell’oro è un adattamento, perché Klondike era una web-serie, mentre questa è pensata per essere una serie tv – anche se in realtà è online su Dplay.
Fabri: È una serie che può andare dovunque. Se la rippi e la masterizzi su un DVD è un cofanetto.
Io l’ho vista in TV, connettendo il computer col cavetto. È polivalente. Quindi, se ho capito bene, il concetto è: passando dalla dinamica dell’autoproduzione radicale – di cui parlavamo nella precedente intervista – a una dinamica dove esistono orizzonti diversi di produzione, avete dovuto prendere quell’idea e portarla in questo nuovo spazio.
Pier: Sì, e di conseguenza la serie cambia. Klondike era antologica: ogni puntata aveva un proprio mondo, gli stessi personaggi da episodio a episodio cambiavano in base a ciò che volevamo raccontare. Invece Età dell’oro è una serie orizzontale, e ha molta più vita privata dei personaggi rispetto a Klondike. Ogni episodio ha una storia a sé, ma tutti insieme formano una storia più grande che cresce di puntata in puntata.
Simo: Diciamo che Klondike aveva dei personaggi un po’ più mitici che si piegavano di volta in volta alle esigenze della storia, mentre Età dell’oro scava in profondità e mette in comunicazione dei personaggi più complessi con un unico tema.
Vi siete riferiti ad altre serie quando avete cominciato a scrivere Età dell’oro?
Pier: La prima che mi viene in mente è Master of None. Sia per i temi che tratta, sia per la forma: ogni episodio ha una sua vicenda tematica, ma tutte insieme formano un unico percorso.
Come un piccolo film.
Fabri: Come mondo, invece, direi da Louie in avanti: Love, Girls, Atlanta. Nel tentativo di fare una workplace comedy c’è anche un po’ di Silicon Valley.
Pier: Età dell’oro in questo senso è schizofrenica. Ha momenti che cercano di emulare quel tipo di serie, e altri che invece sono più “sit-com” per capirci, in cui tutto è molto semplificato, più orientato alla risata.
Fabri: Poi ormai solo in Italia il termine sit-com ha un’accezione negativa, devi chiedere scusa. “È un po’ sit-com, però…”, come se stessi dicendo “È un po’ merda”.
Rispetto a Klondike anche la questione dei rapporti d’amicizia e d’amore è più elaborata dal punto di vista emotivo, e quello in Master of None c’è tantissimo.
Pier: Questo nasce da due esigenze: la prima è che il lavoro è per forza di cose intrecciato alla vita privata, e in questo tipo di lavoro – il freelance, il creativo, eccetera – succede in modo particolare. La seconda esigenza era “allargarla”, renderla più leggibile e comprensibile a un pubblico più ampio.
Fabri: Anche perché, diciamoci la verità, il lavoro che descriviamo non è “il medico”, “il poliziotto”, che ti dà la possibilità di fare quei bei procedurali duri ma appassionantissimi. I creativi fanno roba super fredda, distante, quindi farla risuonare negli affetti, nell’amicizia, nelle relazioni, era un modo per renderla viva anche per chi non sia dentro a quel mondo. Intendiamoci, il problema non è essere dentro quel mondo: io non sono dentro al mondo medico o dentro il mondo poliziesco, ma quelli sono lavori tecnicamente appassionanti, con poste in gioco come la vita e la morte, il bene e il male, la giustizia e l’ingiustizia. Il nostro mondo non è appassionante in sé: le poste in gioco sono bassissime.
Sì, però in 30 Rock, Studio 60, e nello stesso The Office c’è gente che fa lavori abbastanza noiosi dal punto di vista narrativo: non ci sono inseguimenti, non sono armati, nessuno muore in modo violento, ma è comunque un filone. Guardando Età dell’oro ho visto l’influenza di quel tipo di comedy, ma comedy tra virgolette, perché tutti gli esempi che abbiamo fatto hanno i loro momenti tragici, e anche in Età dell’oro non è che si rida a crepapelle, o che ci sia la battuta demenziale ogni scena.
Pier: Anzi, in tanti ci hanno detto di averla trovata molto cupa.
Però quel tipo di registro è molto anglosassone, infatti mi chiedevo: voi come vi siete posti rispetto alla commedia italiana? Perché ci sono momenti che sembrano arrivare da lì: avete ragionato su questo aspetto o l’idea era proprio quella di portare quel tipo di commedia, più angloamericana, in un contesto italiano?
Pier: Banalmente non esiste serialità comedy italiana strutturata a parte Boris, quindi viene naturale associare Età dell’oro ai prodotti americani con cui siamo cresciuti.
Fabri: E allo stesso tempo c’è questo fatto curioso per cui un certo modo di fare commedia è comedy americana contemporanea e anche però “commedia all’italiana” di una volta: il tragicomico, il grottesco, la riflessione agrodolce: è Monicelli, è Moretti, tutta roba molto italiana, ma poi dimenticata. È un filone sopravvissuto parzialmente e solo al cinema.
Simo: E anche Fantozzi, con tutto il suo immaginario. Fantozzi era molto surreale e ce l’abbiamo tutti nel DNA. Quando in Klondike vanno nell’agenzia per cui lavorano ed è un manicomio abbandonato, quel modo di svicolare nel surreale non è né inglese né americano, e lo puoi fare e portarla a casa tranquillamente perché tutti quanto ci siamo beccati un’iniezione di Fantozzi.
In effetti non avevo pensato a Fantozzi, però c’è molto di quel tipo di tragicomicità surreale sul mondo del lavoro. Detto questo, in Età dell’oro avete un po’ abbandonato il surreale spinto che c’era in Klondike. Perché?
Pier:Il surreale per la Buoncostume è sempre stato uno strumento naturale per far esplodere un concetto. Invece qui abbiamo provato a fare qualcosa che non siamo abituati a fare: lavorare su azioni e conflitti veri, reali, cercando comunque di portarli là, a quel grado di tragicità e di comicità.
Da quello che ho capito, per esigenze di produzione avete dovuto scrivere la serie in tempi molto ristretti. Quando penso a Master of None penso ad Aziz Ansari che è lì a casa sua e si dice “vorrei scrivere una serie sui trentenni oggi”: immagino che si becchi con cinque scrittori, faccia delle sessioni con calma, veda cosa ne viene fuori, decida cosa tenere e cosa no, poi mesi dopo lo si finise, e quando è a posto, lo si manda a Netflix. Ho anche l’impressione che in una situazione più rilassata, come quella, a volte si ricada nell’overthinking: guardi la sceneggiatura, la cambi, la ricambi, penalizzando l’istintività delle scelte. Voi avendo avuto tre settimane. Tutt’altra situazione. Mi immagino che quindi siate andati molto di istinto.
Pier: Siamo riusciti a fare overthinking comunque, ma con più ansia. Abbiamo deciso la rotta e navigato a vista, così certe cose sono emerse in maniera incontrollata.
Ci sono delle cose che vi hanno sorpreso, in questo senso? Avendo fatto tutto così in fretta… Magari poi vedi una cosa dopo e dici “Ah, però! Non ci avevo pensato consciamente.”
Fabri: Alcune simmetrie, alcune risonanze, alcuni ingranaggi che magicamente alla fine andavano al loro posto ci hanno sorpresi, ma anche perché eravamo pronti a tutto il resto (a cose storte, a cose non funzionanti, a cose che ci esplodevano in faccia). Ci aspettavamo invece che alcune cose funzionassero bene insieme e le abbiamo tenute. Per dire, la simmetria fra il gruppo di creativo nell’agenzia, in cui sono tutte donne coordinate da un uomo, e la vicenda a Roma sul film al femminile col regista che però è un maschio: questa simmetria non era presente nel soggetto, è arrivata piano piano e abbiamo solo dovuto dire “se spostiamo questo di un millimetro, viene una cosa molto bella”. Posso dire che quando accade più volte non è solo culo?
Pier: Al solito, devi avere chiari in mente quali sono i temi di cui parlare. Poi chiaramente un film è fondato su un tema principale, mentre una serie su una costellazione di temi.
Simo: Diciamo che il tema della serie è il lavoro, mentre se dovessimo considerarla una singola stagione sarebbe la rappresentazione della donna e la sua condizione sul posto di lavoro.
Fabri: E poi ci sono dei temi che attraversano la stagione ma vengono più rappresentati in una singola puntata: ad esempio il quarto episodio si concentra sulla FOMO. È tutto un giro di gente che vuole altro, che pensa ad altro, che vuole essere altrove.
Ho notato che avete fatto un sacco di esterne: avete la puntata Liguria, la puntata in montagna, la puntata a Roma…
Fabri: Questa, come direbbe Jake La Furia, è un’affermazione. Non volevamo semplicemente smarcarci da Milano, ma anche dalla comedy a basso costo.
Simo: Capiamoci, Età dell’oro è una serie a basso costo, ma volevamo emanciparci dalle due persone a un tavolino. La maggior parte del minutaggio delle serie Buoncostume sono Fabri e Carlo seduti ad angolo a un tavolino, è il modulo base della nostra narrazione, quindi più riusciamo a spingerci lontano da questo cazzo di tavolino – al quale poi torniamo regolarmente – più siamo contenti.
La montagna poi merita un discorso a parte. Avremo voluto chiamare anche questa serie Klondike, solo che Discovery ha prodotto una serie che si chiama Klondike. Ci siamo detti: “Ok, la chiamiamo Alaska”. E Indiana ci dice, “Abbiamo appena fatto un film che si chiama Alaska“. Una ragione per la quale siamo andati in montagna è che avevamo questa benedetta metafora che ci piaceva molto, e ci dispiaceva perderci per strada la corsa all’oro. L’abbiamo ripetuto mille volte nelle interviste su Klondike: i freelance sono come i cercatori d’oro, vanno in montagna in cerca di fortuna, uno trova l’oro, 99 si ammalano. Tutto questo mondo ci sembrava che funzionasse, e ci dispiaceva rinunciare una volta che avevamo messo le mani su un’immagine che fosse più forte di tre ragazzi e tre ragazze che vivono sullo stesso pianerottolo.
Infatti c’è la scena dove cercano le pepite d’oro nel fiume, ma in realtà stanno cercando un iPhone pieno di contatti, che è proprio la metafora proprio-proprio.
Simo: Sì, quella scena è lì proprio per questo motivo. Per difendere territorialmente la nostra metafora e non farcela sottrarre. È la famosa “chiave interpretativa” da trovare quando cominci a fare l’analisi del testo.
Una cosa che mi ha colpito è che i personaggi di Età dell’oro chiedono i contatti alla gente. Io non ho mai visto una persona chiedere i contatti. È una cosa di una sfiga incredibile.
Pier: È una semplificazione di quello che hai visto succedere milioni di volte.
Quanta gente l’ha visto Età dell’oro?
Pier: Sta andando bene, però ecco, questo è un appello che vogliamo fare: è una serie complessa, delicata, che ha bisogno di fiducia. Ha valore soprattutto quando l’hai vista tutta, gli ultimi episodi danno senso anche ai primi, e non è su YouTube o Facebook, ma su Dplay, che è una piattaforma nuova.
In effetti DPlay è particolare per noi abituati a vedere le cose in streaming di Netflix o di Popcorn Time: con lo streaming pulito c’è una pubblicità di 20 secondi che però solitamente è su nero. Mentre su DPlay c’è il taglione grosso ad accetta e arriva la pubblicità. Però ho notato che, con questi due minuti di pubblicità, hai la possibilità di andare in bagno o di farti su una sigaretta, che è il valore della pubblicità di un tempo. Adesso con Netflix sei sempre in sbatti, metti in pausa ogni dieci minuti.
Simo: Sì, esiste anche il mal di schiena da Netflix, perché cerchi di stare 2, 3 ore magari, e non sei proprio comodo, sono 3 ore un po’ così. Poi ti alzi a fine stagione e sei tutto scassato.
È molto interessante questa cosa: fai una serie autoprodotta, e la metti su YouTube. Poi la fai con una network televisivo gigantesco tipo Discovery, e la mette su DPlay, che è tipo YouTube. C’è un’intervista che ho visto Trevor Noah che parla con questa tipa dell’Alt-Right che ha un canale da milioni di views su YouTube, e lui a un certo punto le dice: “Senti, tu continui a dire di essere dell’alt-right, di non fare parte dei mainstream media, però hai più views delle news vere e avete vinto le elezioni. Quindi sei tu il mainstream media.” C’è davvero stato, boh, un collasso totale. Prendi i soldi di Discovery per fare una serie di alto livello, sei in tv? No, però tecnicamente sì. Dov’è la distinzione? Boh, non lo so. Le prossime saranno su iPhone o, che cazzo ne so, solo su PlayStation 5.
Fabri: Vorrei dire due cose: la prima, è che Discovery ha scelto un tipo di racconto che gli altri snobbavano con sufficienza. La costante era “fiction lunga sul web? Ah, poveri stronzi”, mentre invece Discovery ha agito al contrario, hanno detto: “Per distinguerci, facciamo fiction lunga di qualità sul web”. Bravi! Poi sì, stiamo parlando di una serie con budget bassissimo, ma è stato comunque un esperimento.
Simo: E poi, se tu sei l’Argentina degli anni ’60 e scopri che puoi organizzare la tua missione sulla luna ma con quattro soldi, arrivandoci malissimo, e piantare una bandierina da cocktail, non la organizzi comunque?
Sono rimasto sorpreso, anche perché non avevate il budget di Master of None o di Game of Thrones, e come in Klondike, non si percepisce la povertà dei mezzi: magari in Klondike avevate 1 e sembrava che aveste 2, magari qui avete avuto 10, ma sembra che abbiate avuto 30. Siete bravi ad arrangiarvi. Il problema di questo è che se, come diceva il mio amico, al primo appuntamento le fai una cena stellata e il giorno dopo le cucini un panino sei una delusione, se al primo appuntamento non le cucini un cazzo e al secondo le cucini un panino sei un grande.
Pier: Ma infatti, pensa quando ci daranno 100!
È comunque una serie con tanti pregi: la freschezza, la novità del linguaggio americano integrato al linguaggio italiano, e poi l’ho sentita come una cosa molto mia. È un mondo vicino, sia come riferimenti, sia come tipo di comicità: sembra rappresentare una generazione, non soltanto nei temi, ma anche nel tono, no? Mi ha fatto venire voglia di vedere quella cosa lì fatta con ancora più soldi. Mi sembra che Klondike sia stato un ottimo biglietto da visita per voi, per arrivare a fare questa: e questa mi ha fatto venire voglia di vedere una cosa fatta da voi, ma più grossa ancora.
Fabri: Speriamo! Discovery è stata molto coraggiosa, speriamo siano soddisfatti. Perché comunque hai ragione, Età dell’Oro è stato un passo intermedio: non ha ancora il budget della serie “fatta come si deve”.
Pier: Siccome sono una persona sana, ho calcolato che tutto il budget di Età dell’oro equivale a 1 minuto e 20 di The Young Pope.
“Età dell’oro: come Jude Law che si allaccia un camice al mattino”. Avete anche un sacco di cammei, un sacco di gente convinta dalla forza del materiale.
Pier: La cartella stampa dice “una chiamata a raccolta dei personaggi più rappresentativi della nostra generazione.”
Un’altra cosa che mi ha colpito è che fate un sacco di nomi e cognomi in questa serie: Matilda De Angelis, Jake La Furia, Sergio Rubini… Cioè, Master of None, realistico quanto volete, ma non è che quando poi incontra un regista è quel regista.
Simo: Bè in quello Boris ha un aperto la pista. Prima non avresti mai pensato di dire una battuta su Fabrizio Frizzi, ha anche un suo gusto comico. In un mondo in cui non puoi fare nomi di politici, non puoi nominare le marche, non puoi dire in che anno sei perché è meglio non datare, non puoi, non puoi, non puoi… Quando scopri che puoi fare il nome delle persone reali ti ci butti a pesce. Già un mondo senza brand, nel 2016…voglio dire, non è un mondo poco brandizzato, il nostro.
Pier: Soffro sempre quando nella serie Carlo dice: “ma un bel tavolo svedese?”
Fabri: Un altro piccolo momento di verità di cui siamo orgogliosi è quando nel sesto episodio i nostri dicono la loro età vera a Sergio Rubini. Cioè 34 anni, quasi 35. In un mondo in cui gli artisti si tolgono via i decenni, in cui si è sempre ventenni, lì, improvvisamente li guardi e realizzi: “Minchia, sono due vecchi”.
Pier: Per i personaggi è il punto più basso di tutta la serie, è la morte.
Io ho amato molto la battuta “Stay litchis”, personalmente. Lo sto usando.
Fabri: Sempre onorati di spingere nuovo gergo ignorante.
Pier: Anche perché sui tormentoni di solito siamo parecchio scarsi.
Simo: Comunque riguardo al problema dell’età: quando hai 34 o 35 anni e te ne va una buona ti sembra che tutto abbia un senso; te ne va una di merda e dici, “minchia ho 35 anni e sono ancora a questo punto”. E poi sono arrivati questi due, da una parte Rubini e dall’altra Matilda De Angelis, e una volta che abbiamo capito come collocarli nella puntata erano perfetti. Perché da una parte c’era uno della vecchia generazione: a 34 anni Rubini era già Rubini. Per quelli della sua generazione è inconcepibile dire “a 30 anni voglio fare il freelance”. E dall’altra, invece, Matilda De Angelis, che a 17 anni era già brava in tutto quello che faceva. A proposito di ingranaggi che vanno magicamente al loro posto.
Sì, sembrano proprio due falliti. Tra l’altro, nella primissima scena, in cui vi si dice che i 3000 euro non ve li daranno mai, mi viene proprio da alzarmi e fare un applauso, perché è una cosa vera e di cui non si parla mai, mai. Cioè con tutti i problemi dei contratti di lavoro, del precariato, tutto quel cazzo che vuoi, non si dice mai questa cosa che è fondamentale. Cioè che la gente non ti paga, e quando gli chiedi i soldi ti dice “beh, fammi causa e sappi che sarà la tua rovina per sempre”. A me è successo più volte che mi dicessero apertamente: “hai già pagato le tasse in anticipo sulla fattura che hai emesso? Cazzi tuoi.”
Fabri: Verissimo. Allo stesso tempo Il Grande Merda – che si chiama così per un motivo – quando dice ai nostri “voi siete poveri dentro”… C’è della verità anche in quello. È chiaro che quei soldi spettino ai nostri, però è anche vero che facciamo tanto gli artisti ma poi ci lamentiamo sempre dei soldi, e a volte è un modo per assolverci.
Simo: Bè, c’è il momento in cui Sofia Viscardi li attacca di punta e dice “Fate un lavoro di merda, lo fate anche male, ma siete felici?”: è una delle 4 o 5 volte in cui vengono uccisi simbolicamente.
Durante quella scena una persona dietro di me ha detto al tipo che aveva vicino “dai no, così è troppo, così mi ammazzano”. [ridono]
Fabri: Comunque, senza spoilerare il finale, non volevamo che la morale fosse “ah, allora la soluzione è elevarsi da questo degrado e inseguire i propri sogni”. Non perché sia un messaggio sbagliato, ma perché è stato manipolato a tal punto che ormai è dannoso, crea solo ansia.
E allora qual è la morale?
Pier: Ah boh.
Simo: Basta lavoro?
Pier: Reddito minimo universale e gran passeggiate in campagna.
Fabri: Lasciamo lavorare le macchine e facciamo quello che ci piace.
Età dell’Oro è disponibile su Dplay.
Timothy Small nasce a Milano nel 1982. Già direttore di VICE Italia dal 2005 al 2012, è Head of Content di Alkemy, dove guida la divisione Alkemy Content. Co-fondatore e direttore editoriale de l'Ultimo Uomo nonché fondatore e direttore di Prismo, ha scritto per riviste come GQ, IL, Rolling Stone, L'Uomo Vogue, Kaleidoscope, NERO, The Paris Review, ha diretto video e documentari per VICE, Studio, Missoni, V Magazine e I Cani e, per un breve periodo, ha diretto una casa editrice chiamata The Milan Review.