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Tra pessimismo e nuovi movimenti, l’Unione si trova a una svolta epocale: ne abbiamo parlato con l’attivista Alex Foti e il filosofo Lorenzo Marsili del movimento Diem25.

Ci sono date che hanno segnato un cambio di rotta traumatico nella storia occidentale. A volte sono escamotage giornalistici o letterari, più che il frutto del consesso degli esperti: nomi e date ci aiutano a controllare meglio gli eventi, a riorganizzare concetti e idee come libri su uno scaffale. Proviamoci: fu davvero il 1963 – assassinio di Kennedy, rallentamento del “miracolo” economico – l’anno in cui finì l’Età dell’oro di cui parlava Eric Hobsbawm? Fu il ’77 l’anno in cui gli Ottanta della Reaganomics e del “reflusso” iniziarono veramente? Certo pare assodato che i Novanta della Pax Americana siano cominciati nel 1989, con il crollo del Muro, e crollati nel 2001 insieme alle Torri gemelle. Ci avviciniamo al presente e le cose si fanno già più complicate: gli anni Zero sono finiti proprio nel 2008, con l’elezione di Obama e la crisi dei subprime? E infine: saranno l’incoronazione di Donald Trump e il collasso dell’Unione Europea a marcare il 2017 come il confine politico degli anni Dieci?

Fra due autunni
Sembra di rivedere la scena iniziale di Europa, un film di Lars Von Trier di venticinque anni fa. “Ora ascolterai la mia voce. La mia voce ti aiuterà e ti condurrà ancora più a fondo dentro l’Europa”: era il narratore, Max Von Sydow. Una rotaia, fotografata in un cupo bianconero, incede verso l’ignoto. La voce fuori campo è tetra, ipnotica: “Ora io conterò da uno a dieci, arrivati a dieci tu entrerai in Europa”. La trama racconta di un pacifista americano, arrivato in Germania alla fine della Seconda Guerra Mondiale per offrire il suo contributo alla ricostruzione del paese. L’Europa è raffigurata come un continente notturno, piovoso, putrido, fatto di alberghi malati e aria contaminata. Una distopia partorita da un intellettuale spaesato, forse, per la presunta “fine della Storia” di cui parlava Francis Fukuyama. Eppure oggi, un quarto di secolo dopo, qualunque narrazione sull’Europa sembra pervasa dal medesimo senso di smarrimento e pessimismo. È successo questo: nell’arco di tempo che va dall’autunno del 2015 a quello del 2016 si è raccolto l’apogeo della Reazione e l’inizio del baratro dell’Europa politica.

Due autunni, appunto: ma fra di essi c’è stata la più grande crisi migratoria che il continente abbia affrontato a partire dal secondo Dopoguerra. La conferma delle destre xenofobe come moda non passeggera ma destinata a perdurare. La sconfitta del moderatismo neoliberista in Italia (con il referendum costituzionale) e in Gran Bretagna (con la Brexit). E soprattutto, il trionfo da molti ritenuto impensabile di un autoritario isolazionista alla Casa Bianca.

I prodromi della crisi erano lontani nel tempo: mai, a partire dal Trattato di Maastricht (1992) l’Unione era cresciuta all’unisono in termini di prosperità e conquiste progressiste. La Terza Via era fallita miseramente. Ma è dal 2008 al 2016 che l’Ue ha visto accelerare brutalmente gli effetti della depressione economica e mescolarsi alle psicosi razziste preesistenti. Una leadership politica impreparata ha voluto vedere gli spettri del nichilismo come transitori (o “congiunturali”, si sarebbe detto al tempo di Aldo Moro); si sono incarnati invece in una stampa anglosassone sempre più aggressiva e patriottica, in accordi di Schengen sospesi o ristretti quasi ovunque; in intere capitali militarizzate, con polizia e telecamere in ogni centimetro di spazio pubblico, come la Los Angeles descritta in Città di quarzo di Mike Davis. La prospettiva che si apre è di una Internazionale Nazionalista che trionfi dalla Russia all’Arizona passando per il cuore dell’Europa, parlando una voce sola e dominando il dibattito economico e culturale: un sogno socialista realizzato, ma dalla destra.

Nell’arco di tempo che va dall’autunno del 2015 a quello del 2016 si è raccolto l’apogeo della Reazione e l’inizio del baratro dell’Europa politica.

Eppure l’ottimismo sembrava avere qualche algido fondamento: nel 2009, mentre entrava in vigore il Trattato di Lisbona, l’opinione pubblica pareva bonariamente rassegnata al consolidamento del diritto comunitario. Il “no” alla Costituzione europea dei referendum francese e olandese di quattro anni prima sembrava un piccolo capriccio. La destra estrema era ancora parzialmente “sommersa”, come un cane in gabbia. Che l’Unione andasse riformata e resa più efficace in politica estera era assodato. L’euroscetticismo in Inghilterra era già forte. Ma il sentimento prevalente sembrava chiedere una maggiore coesione, piuttosto che un ritorno ai nazionalismi.

Un sondaggio del Pew Institute del giugno scorso ha certificato il disfacimento generale: nei dieci principali paesi dell’Ue, favorevoli e contrari all’Unione si equivalgono quasi, 51 contro 47 percento, ma i cali sono vistosi in tutte le nazioni: in Germania i pro-Unione sono la metà; in Gran Bretagna il 44 percento, in Francia il 38 percento. In nessun paese c’è una maggioranza favorevole a più devolution di poteri verso l’Unione – semmai, il contrario. L’Ue paga dazio per la gestione dei profughi e dell’economia. Tra i più ottimisti – ma forse anche i meno attrezzati per incidere – ci sono i giovani, le donne e i partiti di sinistra. Persino nella tradizionalmente europeista Italia, i favorevoli all’Ue sono calati dal 78 al 58 percento negli ultimi dieci anni.

Molte altre cose in questa metà degli anni Dieci appaiono residuali, presenze marginali o in via di estinzione. La figura del migrante viene illustrata sempre più con principi utilitaristici, piuttosto che umanistici. Ormai persino nel Labour inglese tramortito dalla Brexit prevale l’idea di farsi strada con il manuale di conversazione “alla Trump”. L’allargamento delle frontiere della cittadinanza sembra un’utopia passatista: la parola d’ordine è “sovranismo”. Si avverte un senso di attesa per qualcosa di terribile,  quel “tempo penultimo” di cui scrive Marco Belpoliti in Crolli: “una fine che non finisce di finire”.

Quale Europa sta uscendo da questo tornante? Quanto è profonda la crisi degli assetti sociali, dei quadri mentali e dei modi di pensare che sono stati dominanti per tutta la seconda metà del XX secolo, e che si stavano ridefinendo già negli anni Zero? Se l’Unione così com’è non ci piace, quali ipotesi rimangono aperte prima che collassi in qualcosa di spaventevole?

Le rotaie della Storia
Entriamoci, in Europa. E parliamo del suo presente e del suo futuro con due tra gli esponenti più originali dello schieramento possibilista: Lorenzo Marsili, sociologo, filosofo, co-fondatore del think tank European Alternatives e animatore del movimento Diem25 (“che ha nel suo Dna la transnazionalità […] per costruire la nuova Europa”, si legge su L’Espresso); e Alex Foti, editor e scrittore per Il Saggiatore e Agenzia X, attivista, tra i fondatori dello storico Euro MayDay milanese e studioso dei movimenti antagonisti.

“L’Europa oggi è una gigantesca Weimar”, dice Foti. “Le tre forze che hanno costruito l’Europa, cristianodemocratici, socialdemocratici e liberal – le stesse che furono al governo tra il 1919 e il 1933 in Germania – sono in difficoltà, sull’onda di trumpismo e putinismo. E l’Euro, l’equivalente del ritorno al gold standard fra le due guerre, impone una politica deflazionista che favorisce precarizzazione e disoccupazione di massa”. Già negli anni Quaranta l’antropologo ungherese Karl Polanyi aveva spiegato che il disastro delle guerre mondiali era stato prodotto da un sistema dove “il rimborso dei prestiti esteri e il mantenimento di monete stabili vengono considerati il perno della razionalità politica”. Una teoria che si è resa facile esca per complottisti e gentisti contemporanei, ma che ha una sua dignità di vedute.

L'Europa oggi è una gigantesca Weimar. Cristianodemocratici, socialdemocratici e liberal, le tre forze che hanno costruito l’Europa, sono in difficoltà sull’onda di trumpismo e putinismo.

“C’è più di una similitudine”, spiega Marsili. “Pensiamo alla storia della Spd, la socialdemocrazia tedesca: fra il 1919 e il 1933 vede il suo consenso dimezzarsi, il partito si sposta sempre più verso il centro, abbandonando la difesa delle classi impoverite e sostenendo apertamente le politiche deflazioniste – ossia austerity – del cancelliere Brüning”. Oggi le grandi coalizioni di centrodestra e centrosinistra diventano il simbolo della bancarotta della classe dirigente europea, l’ultimo fortino in cui barricarsi, l’ultima trincea prima della rotta. “Adesso come allora, mentre una Grande Deflazione attanaglia entrambe le sponde dell’Atlantico, la pulsione di morte delle élite al potere si scontra con una nuova internazionale reazionaria”. E la grande differenza è che un tempo il fervore anti-establishment sembrava appannaggio della sinistra. “Fra élite e fascismi, un secolo fa, esisteva il movimento operaio e l’esperienza socialista. Oggi un terzo spazio capace di tentare di rompere la tenaglia ancora ci sfugge”.

Se vogliamo che tutto cambi, bisogna che tutto rimanga come è?
Quest’anno l’Olanda, la Germania, la Francia e forse anche l’Italia andranno alle urne. “E in nessuno di questi paesi vediamo presentarsi con forza quel terzo spazio capace di salvare l’Europa da se stessa”, continua Lorenzo Marsili. “Fra i quattro, l’Italia mi sembra forse l’unico dove una nuova, ambiziosa proposta politica potrebbe forse emergere”. Il paradosso è che Angela Merkel, fino a due anni fa considerata dai movimenti di sinistra l’aguzzina della Grecia, ormai sembra il solo leader capace di difendere il liberalismo dall’assalto dei sovranisti. L’ultima telefonata di Obama è stata per lei: praticamente le ha affidato i destini dell’Occidente. Spiega Foti: “Nel contesto attuale, l’unica risposta veramente trans-nazionalista e rivoluzionaria sarebbe un movimento per fondare una repubblica comune europea a partire dall’eurozona”.

Sì, ma come? Facendo fronte comune con i cosiddetti “rossobruni” – tipo i sovranisti “No Euro” alla Alberto Bagnai o divulgatori del nazional-populismo alla Diego Fusaro? Sia Foti che Marsili non ci stanno. Dice Foti: “Al contrario di M5S e altri movimenti eurofobi, penso come Yanis Varoufakis (ex ministro delle finanze greco, ndr) che sarebbe errato uscire dall’euro, perché distruggerebbe l’Europa politica e ci riconsegnerebbe direttamente agli stati-nazione, oltre ad avere conseguenze macroeconomiche molto rischiose. Abbiamo bisogno di una politica fiscale espansiva per finanziare investimenti pubblici e trasferimenti diretti a precari e disoccupati tramite basic income o persino interventi di helicopter money  (come il bonus da 80 euro al mese per i neo-maggiorenni e i 500 euro per gli insegnanti stanziati dal governo Renzi, ndr).

‘Nel contesto attuale, l'unica risposta veramente trans-nazionalista e rivoluzionaria sarebbe un movimento per fondare una repubblica comune europea a partire dall'eurozona’, spiega Foti.

“Il discorso sull’Euro a sinistra rischia di divenire stucchevole e inutile quanto quello sull’alleanza con il Pd”, dice Marsili, che con Varoufakis sta organizzando innumerevoli conferenze in giro per le capitali europee, per cercare di immaginare un cambio radicale che non abbracci l’Apocalisse. “Uscire dall’euro non ci farà uscire dal neoliberismo. Il fondamentalismo di mercato dilaga a livello nazionale quanto e più che nelle istituzioni di Bruxelles. Prendiamo la Brexit, ad esempio”, spiega. “Non si tratta di difendere l’Unione Europea a spada tratta o di salvarla a ogni costo. Anzi, andrà approntato un piano di azione nel caso di una sua possibile disintegrazione. Si tratta invece di capire che il problema è più grande di una moneta. Che il problema non è uno spazio geografico o un confine. Basti pensare come sia proprio negli Stati Uniti – paese con piena sovranità monetaria se mai ce ne fu uno – che si è sviluppato lo slogan del 99% e in cui tutto ciò che rimproveriamo all’Unione è amplificato: un mercato finanziario ancora più rapace e diseguaglianze ancora più marcate, una classe politica ancora più succube delle grandi lobby e una democrazia così rotta da aver creato le condizioni per la vittoria di Donald Trump”.

Cartografie
Nel 2008 Alex Foti pubblicò per Agenzia X un saggio dal titolo Anarchy in the Eu, nel quale si divertiva a mappare i tre colori dell’antagonismo europeo che aveva frequentato per una vita: il rosa di queer e neofemministe, il nero dell’anarchia degli hacker e dei black bloc, l’attivismo green ambientalista. Un libro svelto, gustoso, elettrico, non facile da riassumere. Forse un po’ troppo carico di gergalità tipiche della militanza milanese (“figata”, “pula”, “antifa”) ma capace di dare davvero la sensazione che l’intera Europa fosse una polveriera pronta esplodere. Gli chiedo come sia cambiata la mappa degli antagonismi europei rispetto a dieci anni fa.

“Sulla mappatura dei movimenti contenuta in Anarchy in the Eu, direi che i temi del transgender, del cyber-libertarismo, dell’ecologia politica sono definitivamente esplosi”, spiega Foti. “Il movimento no-global era ancora un potente incubatore di idee e campagne, ma dopo la Grande Recessione e le rivoluzioni arabe del 2011, nonché le vittorie istituzionali del movimento queer in America ed Europa, si è dissolto in qualcos’altro. In retrospettiva, penso che i due episodi conclusivi dei no global siano stati la coraggiosa protesta di fronte alla Bank of England in parallelo con il tent-in del Climate Camp nella City londinese il primo aprile 2009, e l’audace e sfortunato assedio al summit sul clima di Copenaghen del Dicembre 2009, che finì con l’irruzione a Christiania della polizia (Naomi Klein fra i lacrimogeni) e l’arresto dei principali climattivisti.

“Io credo che abbiamo visto in questi anni l’emergere di movimenti europei”, aggiunge Lorenzo Marsili. “Movimenti che non vogliono semplicemente solidarietà, ma una lotta comune. Se i giovani greci sono schiacciati dalle politiche di austerità, questo non deve nascondere la realtà dei lavoretti precari in Germania: è un solo sistema, e bisogna affrontarlo insieme. Pensiamo allora alle straordinarie manifestazioni – soprattutto nell’Europa dell’Est – che hanno affossato il trattato ACTA, che criminalizzava il file-sharing e i commons digitali. O il movimento contro il Ttip (Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti), o ancora la risposta data con il movimento RefugeeWelcome. Sono azioni che hanno costituito, se non un demos europeo, senz’altro, usando il plurale, dei demoi, delle istanze di movimento capaci di prefigurare un’Europa come possibile spazio della cittadinanza e del conflitto”.

“Purtroppo oggi i movimenti faticano a tradursi in soggettività politica, sia a livello europeo, sia a livello nazionale”, sostiene Foti. “Contro l’internazionale nazi-populista abbiamo bisogno di un fronte social-populista transnazionale. Certo, il 2016 è stato l’anno d’oro della controrivoluzione, l’anno in cui le forze della Santa Alleanza Trump-Putin hanno vinto. Ma l’eredità egualitarista e populista di piazza Tahrir, Puerta del Sol e Zuccotti Park (teatri di alcune delle più importanti manifestazioni politiche del 2011, ndr) non si è dispersa: parte degli indignados ha dato vita a un’organizzazione politica di tipo nuovo che ha conquistato i municipi di Barcellona e Madrid, parte di Occupy si è spesa per Sanders e vedremo come saprà resistere al nazi-populismo di Trump. Anche Black Lives Matter è un segnale dello spostamento a sinistra di una parte della società americana, ed è un lascito indubbio dei controversi otto anni di Obama”.

La Grande Illusione
La catastrofe della seconda guerra mondiale lasciò la maggioranza degli europei nauseati da ideologie messianiche e da mobilitazioni  di massa. Consumismo, “dollarizzazione” dell’economia indotta dal Piano Marshall e welfare state produssero una nuova razza di politica “leggera” e manageriale, perfettamente  incarnata dai democristiani italiani e tedeschi. Ovviamente i residui del totalitarismo nelle istituzioni, nella polizia, nel linguaggio, persino nel modo di pensare erano ancora forti; artisti come Alberto Burri e Lucio Fontana provarono a opporsi alla dittatura della petite-burgeoisie bucando e squarciando tele. Ma non c’è dubbio che il “corpo vivente” della prima Unione – fatto di un’economia miracolosa e una politica finalmente stabile – venne firmato da una classe di burocrati senza volto, e culturalmente smobilitati.

Ma l’aspetto messianico, pur non legato ad un’ideologia politica precisa o un partito di massa, è tornato prepotente col tempo nella costruzione dell’Eurozona. Secondo il celebre giurista Joseph H. H. Weiler, questo messianesimo politico è stato addirittura uno dei tre grandi pilastri su cui si è retta l’Unione negli ultimi venticinque anni: è l’idea di un’integrazione come “terra promessa che ci attende alla fine della strada”, un “destino da raggiungere”; un fine in sé. Ovviamente, la Pax Americana e il grigiore della classe politica europea post-Muro hanno contribuito a rendere questo richiamo decisamente poco attraente. E l’appello di Jürgen Habermas ad un pan-europeismo alternativo all’America non poteva che cadere nel vuoto, con la venuta di Obama e la contemporanea stagnazione della nostra economia.

Oggi corriamo il rischio che si arrivi alle elezioni per il Parlamento europeo del 2019 con uno schieramento di finti partiti europei pronti a utilizzare le elezioni soltanto come conta interna.

Gli altri due pilastri, secondo Weiler, sono stati la “legittimità” e il “ruolo della legge”. Ma il primo presentava una crepa evidente che è stata subito presa a picconate dalle destre, e cioè L’Ue era legittimata oggettivamente dalle norme non dalla società (e qui Weiler usa l’esempio della Germania nazional-socialista degli anni Trenta, che per quanto aberrante avrebbe superato il test di legittimizzazione sociale molto meglio della pseudo-democrazia di Weimer). Il “ruolo della Legge”, infine, è stato attaccato dalle sinistre, che vedono in un processo politico dominato dalle norme il rischio della finanziarizzazione malata (vedi il caso Grecia).

“Il mio orizzonte politico è la proclamazione di una European Common Republic sul territorio presente e futuro dell’Eurozona”, dice Alex Foti. “È inconcepibile una opposizione al neoliberismo che non offra alternative. Ma è più probabile che sarà la bandiera viola del femminismo incazzato e del precariato indignato a sventolare sulle barricate, piuttosto che la bandiera rossa novecentesca. Dobbiamo pensare e agire tenendo a mente che questo mondo è cominciato nel 2011, non nel 1917”.

Racconta Lorenzo Marsili: “Quando Alexis Tsipras venne costretto firmare la resa e l’ennesimo memorandum con la Troika,  i partiti e sindacati europei lo lasciarono solo. Oggi corriamo il rischio che si arrivi alle elezioni per il Parlamento europeo del 2019 come se il calendario si fosse fermato al 2009, con uno schieramento di finti partiti europei pronti, come l’orchestrina sul ponte del Titanic, a utilizzare le elezioni soltanto come conta interna. Abbiamo bisogno di una forza multilivello: forze nazionali in grado di agire a livello europeo e un nuovo movimento politico direttamente, pienamente europeo. Una forza capace di pensare e agire come soggetto unitario là dove sia necessario, su un numero limitato e ben definito di politiche di scala continentale. E di saper rispettare e valorizzare l’autonoma capacità d’azione di ogni sua componente sul livello nazionale e municipale. È una sfida per cui rimane veramente poco tempo”.

Dunque cosa resta, a noi europei idealisti ma non più romantici, per aggrapparci all’Europa in quanto katechon – il “potere che frena” di cui parlava Paolo di Tarso rispetto all’Anticristo, e nel nostro caso frenante la barbarie identitaria? Una risposta ce la può fornire forse un vecchio capolavoro di Jean Renoir, La grande illusione, girato esattamente ottant’anni fa e ambientato durante la Grande Guerra. Se il tema centrale dell’opera sembra essere il pacifismo, o l’utopia di un’Europa senza massacri (da qui “l’illusione” del titolo, e che illusione, due anni prima del 1939) l’autentico nucleo è il conflitto tra l’individuo e il ruolo che la sua classe e/o nazionalità gli impone (le famose “regole del gioco” presenti in ogni film di Renoir). Qui i protagonisti sono due soldati francesi, sono tenuti prigionieri in una fortezza tedesca dove si intrecciano le storie di aristocratici e nobili, uniti (ma non troppo) dalla promiscuità della guerra. Tentano la fuga. La tesi di fondo è che le differenze linguistiche contano poco rispetto alla comune appartenenza a una data classe: sia essa l’élite oppure “gli ultimi”. Certo a Renoir sta a cuore la fine dell’alta borghesia illuminata – rappresentata dal vecchio capitano von Rauffenstein, oppresso in un busto metallico – ed è sincero quando gli offre la sua solidarietà; ma a distanza di quasi un secolo sembra fuori tempo massimo la grandeur umanista del regista, la fiducia giacobina che “tutti gli altri”, nel frattempo, possano fraternizzare e organizzare una fuga dall’Apocalisse. Quello che ci torna utile è invece questo: il suggerimento che le “regole del gioco” rischiano di essere una trappola, che un’adesione troppo rigida alle norme sociali non può che condurre all’estinzione.

E quale migliore cavia per sperimentare l’avventura ci può essere oggi della giovane classe media europea, già consapevole del proprio declino? Se da un lato dichiariamo ad alta voce, come Renoir, che le barriere nazionali sono solo artifici (“Le frontiere sono un’invenzione degli uomini, la natura se ne infischia”) allora dobbiamo ammettere che la salvezza dell’Europa nata grigia e senza volto è, ab absurdo, un enorme, irrazionale atto di fede.

Paolo Mossetti
Paolo Mossetti è nato a Napoli nel 1983 e ha lavorato a Londra e New York, dove si è occupato soprattutto di anarchismo, antropologia urbana e conflitti. Ha scritto per Domus, Lo Straniero, Rolling Stone e Il Manifesto. Ha un blog: kaosreport.com.

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