Come si è evoluto e si evolverà un movimento dai contorni sempre meno definiti.
“Vogliamo contare negli affetti, nella famiglia, nella società e nella politica, e vogliamo farlo da donne. Vogliamo una classe dirigente femminile che ci rappresenti. E vogliamo sceglierla noi”.
Queste parole sono tratte dal manifesto dell’associazione “Di Nuovo” delle sorelle Comencini, nucleo da cui nacque la protesta Se Non Ora Quando. Il 13 febbraio 2011 uno o più milioni di donne scesero in piazza per rivendicare i propri diritti, anche se in gran parte la protesta si catalizzava contro l’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi, colpevole, tra le altre cose, di fornire un’immagine orribile del gentil sesso, date le sue numerose uscite sulle donne e le sue altrettanto numerose entrate in donne. “Di Nuovo” si proponeva di riprendere in mano strumenti di lotta dimenticati da troppo tempo e darsi da fare di nuovo, appunto, per la condizione femminile. Passano i mesi, Berlusconi inizia un rocambolesco iter processuale in cui paradossalmente sono le donne in cui entrava a farlo capitolare, più che quelle in piazza.
Il tempo ci ha dimostrato come la matrice di Se Non Ora Quando fosse intrinsecamente legata all’obiettivo particolare di quel momento, tanto che si spense più o meno in contemporanea alla conclusione dell’esperienza politica di Berlusconi. Recentemente è spuntato un articolo del New Yorker in cui la Comencini invitava le donne americane a imparare da quelle italiane come una manifestazione di quel genere possa avere il potere di catalizzare un disagio sociale e rovesciare un governo. Ora, io non biasimo il New Yorker e nemmeno vorrei sminuire il lavoro delle organizzatrici di quella manifestazione, ma permettetemi di ribaltare un secondo i piani concettuali di quel ragionamento: fu il corteo di quel 13 febbraio ad essere catalizzato da un uomo e dalle sue maniere, non il contrario. In un certo senso mancò la capacità di astrazione per cui invece, oggi, le donne di tutto il mondo si riuniscono non tanto contro il “pussy grabber” più potente del mondo, quanto contro ciò che la sua ascesa al potere rappresenta.
Nel manifesto del Women’s Strike si legge che la protesta è indirizzata “non solo contro Trump e le sue politiche misogine, ma anche contro le condizioni che hanno prodotto Trump, cioè decenni di disuguaglianza economica, violenze razziali e sessuali, e guerre imperialistiche all’estero”.
Personificare l’oggetto di una lotta può essere pericoloso tanto quanto lo è stato credere che la diretta competitor di Trump alle elezioni americane fosse penalizzata innanzitutto in quanto donna, senza tener conto di una miriade di mancanze strutturali della sinistra liberale che Clinton incarnava. “Un uomo la cui strategia politica consiste nell’urlare da un podio contro stupratori messicani e mussulmani è ancora, per milioni di americani, un’alternativa alla presidenza più plausibile del suo avversario mostruosamente normale, che incidentalmente è una donna” scriveva Laurie Penny in tempi di campagna elettorale.
Non è mia intenzione affermare che Penny avesse tutti i torti nella sua affermazione, ma nella pratica la catalizzazione della lotta femminista in battaglie “ad personam”, in Italia come in America, ha avuto come conseguenza lo sviluppo di una crescente impopolarità del termine femminismo, accompagnata dalla creazione di una contro-narrazione per cui questo movimento attenterebbe all’essenza stessa della mascolinità.
Un futuro distopico fatto di donne brutte e grasse
Le donne dominavano la società, numericamente con la scelta di avere delle figlie femmine, e socialmente. Dominavano anche valori e prospettive femministe estreme. La scienza del Ventesimo secolo veniva screditata come un’aggressiva arroganza epistemologica maschile errata. La Feminist Alternative Potash Corporation iniziò a lavorare nelle mine del sito WIPP. Nonostante le minatrici vedessero i segni, li ignorarono come un altro esempio di pensiero inferiore, inadeguato, maschile.
Questo è un reale scenario teorizzato un team di ricercatori incaricati di figurare possibili contesti pre-apocalittici che avrebbero portato a scavare in un impianto nucleare dismesso. La drammatizzazione che questa fantasia porta con sé è abbastanza ovvia, meno il fatto che questi stessi scenari sono ancora profondamente radicati nell’immaginazione di certe frange di popolazione, che si suppone siano le stesse che hanno portato all’elezione di Trump. L’attuale Presidente degli Stati Uniti ha concentrato una campagna elettorale su un ideale di “greatness” che è molto dipendente da una visione capitalistico-patriarcale nazionalista che in qualche modo sottende la potenza dell’uomo bianco americano lavoratore. Un uomo che, in questo momento storico, vede crescere attorno a sé una serie di minacce potenziali che attenterebbero al suo benessere: stranieri e femministe in primis. Quando dico che reificare un nemico non è il miglior modo per canalizzare una lotta, intendo che la prima reazione della categoria umana considerata antagonista sia ripagare con la stessa moneta, e così l’uomo bianco reazionario, incarnazione di uno status quo che il movimento delle donne mira a stravolgere, trasforma facilmente il termine femminismo in una parolaccia. Questo avviene anche senza bisogno di sforzi cognitivi su possibili futuri distopici, avviene ogni giorno con la stigmatizzazione di una lotta sulla base di elementi ben più frivoli. La prima è un’evidente demascolinizzazione che, secondo questi ragionamenti, è connaturata all’ascesa del potere femminile. La seconda è una caratterizzazione denigratoria della figura stereotipica della femminista, la donna, spesso brutta e sgraziata, che ambisce a distruggere gli uomini così come li conosciamo e a trasformarli tutti in maschi beta.
Da qui la distinzione di berlusconiana memoria tra le donne attraenti che si conformano a un modello non minaccioso e le donne mascoline, pelose, grasse, brutte che, sempre secondo i teorici di cui sopra, prendono il femminismo come una scusa per essere dei cessi rompicoglioni. Uno dei blog che sollevano più spunti di riflessione in questo momento è questo Return Of Kings, diretto, secondo quanto si legge nella sezione “about” agli “uomini eterosessuali e mascolini. È indirizzato a una piccola ma attiva comunità di uomini in America che credono che gli uomini debbano essere mascolini e le donne femminili.” Di questo sito, che ancora—perdonatemi—non sono riuscita a capire se sia un frutto estremo della post-ironia o una reale roccaforte teorica della supremazia del maschio bianco, è abbastanza famoso un post a tema “ragazze attraenti che sono diventate orrendi freak a causa del femminismo.”
Una caratterizzazione denigratoria della figura stereotipica della femminista: la donna, spesso brutta e sgraziata, che ambisce a distruggere gli uomini e a trasformarli tutti in maschi beta.
A prescindere dall’eventuale ironia di questo post, è evidente la facilità con cui il termine femminismo possa essere ridotto, travisato o rigirato contro un’intera categoria grazie alle mani sapienti degli stessi uomini che si sentono minacciati personalmente da un possibile sviluppo concreto del movimento. Il femminismo è personificato, quindi ridotto a precisi tratti fisici o caratteriali che l’uomo trova “non attraenti”, in questo modo il suo potere è confinato ed è molto più semplice creare divisioni interne alla lotta, a partire dalla parcellizzazione del termine femminismo e di ciò che comporta.
Mentre cercavo materiale per questo articolo, mi sono imbattuta in un post incredibile intitolato Dear Ugly, Fat Feminists: Admit it, You HATE That Men Don’t Find you Attractive di cui vi incollo il disclaimer: “Please note throughout this entire post I’ve labeled these feminists carefully: Ugly, fat, third wave SJW feminists. I know there are many women who consider themselves “feminists” in a more traditional sense, not of the modern blue armpit hair variety. So save yourself a lecture in the comment section. It’s totally possible to consider yourself an old school feminist, be pretty, and like men. This post isn’t targeted at you. Don’t get huffy at me.”
Al contrario di quanto si possa pensare, queste parole sono scritte da una donna, Courtney Kirchoff, che si definisce una “conservative feminist” e il cui argomento principale non si distanzia molto dal titolo del suo post. Qui è molto chiaro come una riduzione stereotipica, a volte addirittura alimentata da persone che si definiscono femministe, sia la via più rapida per la delegittimazione di un intero movimento.
Vi racconto una storia. Non molto tempo fa STAI ZITTA, un sito con cui collaboro, ha pubblicato un racconto personale di una ragazza di nome Eva, che parlava delle sue terribili esperienze con i fotografi eterosessuali, da cui spesso, anzi, sempre, diceva, era stata molestata. L’articolo si chiudeva con una dichiarazione dai toni nettamente provocatori: “beware of men in general.” Non nascondo di essermi scontrata con la direttrice del sito su quella frase, che mi sembrava potesse mettere in ombra il resto dell’articolo. Come volevasi dimostrare, molti dei piacevolissimi commenti all’esperienza di Eva tendevano a sminuirne il racconto sulla base del thumbnail in cui Eva aveva i peli sotto le ascelle e, ovviamente, dell’accusa mossa alla categoria “men”.
In particolare, mi sono trovata a discutere pubblicamente con un ragazzo che si sentiva evidentemente attaccato sul personale dalle parole dell’articolo e ha commentato scrivendo “Da straight male white photographer sono un attimo prevenuto con le trendy hairy armpit models. Ma comunque grazie”. Chiaramente capivo il motivo per cui uno che si è visto accidentalmente includere in una classificazione così netta potesse irritarsi, ma ho ritenuto opportuno rispondergli che “probabilmente a volte è difficile rendersi conto che per certe cose, anche molto sottili, un uomo è in una posizione privilegiata. Parlo di un senso di sicurezza che per una ragazza certe volte è un lusso avere quando ci si espone. Raccontare quanto è raro avere questo lusso, quante volte e in quanti modi una ragazza può essere più soggetta a molestie di diverso tipo rispetto a un ragazzo è un dovere, al netto delle micro-offese di persone che vivono, volenti o nolenti, in tutt’altra condizione.”
In questa terza ondata si includono anche battaglie per diritti concreti, ma la vera matrice della lotta è molto più sottile e difficile da comunicare, soprattutto in mancanza di obiettivi definiti come in passato.
Da questo scambio, e da discorsi analoghi che ho intrattenuto nell’ultimo periodo, mi sono resa conto che la complessità dell’affermazione femminista è anche legata alla complessità delle istanze che oggi sono sottese a questa lotta. Stiamo vivendo nella “third wave” del femminismo, e definirne gli obiettivi non è più semplice come prima. Se le prime femministe scendevano in piazza per chiedere diritti fondamentali come lavoro, divorzio e suffragio, le richieste della “second wave” si dividevano fra eguaglianza sociale e morale: diritto all’aborto, alla paga egualitaria e, in generale, a un trattamento paritario della donna e dell’uomo, fuori e dentro il nucleo familiare. Poi per qualche tempo le acque si sono placate, nel mondo occidentale la donna gode più o meno degli stessi diritti dell’uomo ed è forse anche per questo che oggi è complicato definire il senso del femminismo attuale. Certo, in questa terza ondata si includono anche battaglie per diritti concreti, come il congedo per maternità o una maggiore tutela contro la violenza sulle donne, che, quella sì, non si è mai fermata, ma la vera matrice della lotta è molto più sottile e difficile da comunicare, soprattutto in mancanza di obiettivi definiti come in passato. “La caratteristica più distintiva di questa generazione di femministe è l’incapacità di essere dfinite da un singolo obiettivo politico, da una prospettiva ideologica o da un modo di essere femministe” scrive Astrid Henry in Feminism Unfinished: A Short, Surprising History of American Women’s Movements. In poche parole, in mancanza di un obiettivo concreto, a volte per screditare il movimento dall’interno è sufficiente opporvi obiezioni superficiali tipo i peli delle ascelle o aprire un dibattito sul femminismo ostentato da Beyoncé che poco prima sculettava mezza nuda cantando “if you like it then you should have put a ring on it”. Ma non è questo il punto.
Uomini depotenziati
Un altro aspetto che l’articolo di Eva ha fatto affiorare è la facilità con cui alcuni uomini reagiscano negativamente ad accuse mosse nei confronti del genere maschile. Certo, il confine tra un femminismo determinato e la volontà di distruzione di tutti gli individui eterosessuali dotati di cazzo a volte è decisamente labile, e proprio per questo c’è bisogno di ragionare sulle nuove istanze che muovono la lotta e sulla necessità di ridefinire il punto di vista da cui nascono.
Not ALL men harass women. But ALL women have, at some point, been harassed by men. Food for thought. #YesAllWomen
— #YesAllWomen (@yesallwomen) 8 settembre 2014
Mi è capitato molto spesso di assistere, subire o che mi venissero raccontate micro-aggressioni da parte di uomini. Esperienze tristi di questo tipo sono all’ordine del giorno, a volte rientrano nella categoria oramai riconosciuta, ma ancora molto difficile da definire, di “mobbing” o avances sessuali sul lavoro e altre volte in quella ancora più difficile da definire di molestie o semplici fastidi reiterati tipo tortura della goccia cinese. Un uomo che ti fissa, uno che ti tocca accidentalmente il culo mentre stai ballando, uno che ti fischia per strada, uno che ti guarda le tette con troppa insistenza non è un criminale o un maniaco, le sue azioni non sono punibili dalla legge, ma esistono. Uomini così esistono eccome. Senza voler generalizzare, è evidente che una ragazza è potenzialmente esposta a discriminazioni e molestie in misura infinitamente maggiore rispetto a quanto lo sia un suo equivalente maschile, è questo che tentavo di spiegare al fotografo che si sentiva offeso dalle parole di Eva ed è questo il senso di #YesAllWomen.
“Spesso compio l’errore di pensare che qualcosa che per me è ovvio debba essere altrettanto ovvio a tutti gli altri” scrive Chimamanda Ngozi Adichie in We Should All Be Feminists, mentre racconta che in Nigeria, se lascia la mancia a un parcheggiatore, quello automaticamente ringrazia l’uomo che è con lei, dando per scontato che è da lui che provengono i soldi. Questo è un discorso che vale, traslato, anche in altri Paesi e in altre situazioni: ci sono parecchie abitudini con cui cresciamo, molte delle quali sono introiettate al punto da diventare automatismi, che hanno una matrice nell’impostazione patriarcale della nostra società. Un altro esempio che Adichie porta è il denaro: banalmente, in Nigeria i ragazzi sono costretti, per galanteria, ad offrire la cena o il pranzo alla donna quando ci escono, questo imposta la relazione uomo-donna su una base economica. L’uomo, di conseguenza, è ancora visto come la fonte principale di sostentamento di una famiglia in cui alla donna sono riservati compiti più casalinghi, passatemi il termine. Questo stesso ragionamento, ribaltato, porta l’uomo a sentirsi depotenziato dalle crescenti richieste di autonomia e uguaglianza dell’altro sesso, un fenomeno denominato “mancession”, termine nato durante la crisi economica del 2008-2009 in riferimento alla perdita di posti di lavoro da parte di uomini che svolgevano principalmente professioni manuali. “Secondo questa teoria della “mancession”, l’ascesa del femminismo combinata al collasso del mercato del lavoro ha portato gli uomini a non essere più sicuri del loro ruolo di mariti e di fonte di sostentamento, e quindi hanno iniziato a sentirsi irrilevanti” scrive Laurie Penny.
La sensazione di “irrilevanza” e la perdita di coordinate sociali da parte di una buona fetta di popolazione maschile di fronte ai cambiamenti strutturali sottesi alla lotta femminista non è un punto da sottovalutare: mentre, a ragione, rivendichiamo uno stravolgimento dei ruoli necessario per l’evoluzione culturale di entrambi i generi, dobbiamo tenere in conto, volenti o nolenti, anche dei probabili scompensi emotivi che potrebbero investire la mascolinità. Potrebbe sembrare una cazzata, ma questo è un punto molto delicato ed è da qui che si vede molto bene il nesso tra l’evoluzione culturale cui il femminismo ambisce e il sentimento conservatore che ha portato a fenomeni di importanza globale come l’ascesa al potere di Trump e delle destre popolari. In questo ragionamento ci viene incontro ancora una volta il blog Return Of Kings, nelle parole di Michael Sebastian, che in un articolo intitolato How Strong Men Were Transformed Into Beta Males scrive: “in ogni situazione, il lavoro manuale assicurava agli uomini dei corpi forti. Un contadino nel medioevo era in forma. Mangiava cibo fresco e sano e il suo esercizio consisteva nel lavoro. Rimuovendo gli uomini dai lavori fisici, abbiamo creato degli uomini fisicamente deboli. Corpi deboli creano menti deboli e timide, che sono più facili da controllare”.
“Questo è il messaggio del femminismo, assicurarsi che ogni ragazzo cresca sentendosi inferiore alle ragazze. Il risultato è che diventano degli uomini deboli, insicuri delle loro abilità. In altre parole, crescono per diventare dei maschi beta, e a noi piace così” prosegue. Posizioni di questo genere sono in linea con la filosofia “Red Pill” nata da un thread di Reddit, alla cui base c’è la convinzione che il movimento femminista sia in realtà una maniera opportunistica per sminuire e depotenziare l’uomo, il quale a conti fatti si troverebbe spesso in posizioni molto meno privilegiate rispetto alla donna. Il femminismo, sostengono i redpillers, non tiene conto della grande quantità di “soft powers” che sono prerogativa del gentil sesso e si concentra in maniera capziosa e opportunistica solamente sugli “hard powers”, allo scopo di screditarli. Vi avevo detto che la mascolinità al giorno d’oggi è molto fragile.
Ridefinire i generi
Sottovalutare la matrice di questi punti di vista, però, è un errore, e lo è perché la natura del femminismo attuale è molto più variegata e inclusiva rispetto alle precedenti ondate. Oltretutto, è complicatissimo far passare il messaggio che il target della lotta non sia l’uomo in sé, ma l’intera impostazione patriarcale della società in cui viviamo, senza essere bollate come le “Ugly, fat, third wave SJW feminists” di cui sopra.
“Dire che un movimento incolpa un gruppo (uomini bianchi) e rinnega la resilienza di un altro gruppo (tutte le donne), lo renderà impopolare, anche se, a mio parere, il femminismo al suo stato migliore offre delle interpretazioni molto più complesse di genere, razza e potere” scrive Estelle Freedman in No Turning Back: The History of Feminism and the Future of Women. “Anche in nazioni con forti movimenti femminili, il femminismo forza tutte le donne e gli uomini a pensare alle disuguaglianze sociali e alla loro relazione con il sistema di potere. Per alcuni, rende evidente la paura di perdere privilegi dati per scontati; per altri, tira fuori il dolore nel rendersi conto della mancanza di privilegi. E non è una prospettiva particolarmente allettante, specialmente se il femminismo è presentato in termini ultrasemplificati di oppressione maschile e vittimizzazione femminile” continua.
Sotto il cappello vago e facilmente fraintendibile di ‘femminismo’ rientra oggi un’urgenza collettiva, non ancora universalmente riconosciuta, di riscrivere le regole generali della nostra società
La verità è che sotto il cappello vago e facilmente fraintendibile di “Femminismo” rientra oggi un’urgenza collettiva, non ancora universalmente riconosciuta, di riscrivere le regole generali della nostra società. Questa riscrittura passa in primo luogo per una ridefinizione dei generi. Di tutti i generi. Non a caso, la terza ondata di femminismo è un vero casino anche grazie alla sua componente inclusiva e alla varietà di obiettivi e attori sociali che coinvolge. Questo in apparenza potrebbe alimentare la confusione di intenti della lotta, mentre in realtà è la sua più grande ricchezza.
“La nascita politica del femminismo negli Stati Uniti è stato il movimento anti-schiavitù”, scrive Freedman, e ancora adesso nella matrice politica del femminismo il principio di inclusione e parità è fondamentale. In questa prospettiva, gli ingranaggi del movimento spingono a una ridefinizione dei generi e, di conseguenza, dei ruoli prescritti e delle posizioni di potere all’interno della società, ed è per questo che l’inclusione della lotta per i diritti di altre minoranze è connaturata al femminismo. Oltretutto, in un momento storico in cui le destre popolari, che incarnano in un certo senso un ideale conservatore del patriarcato, attentano a diritti fondamentali come l’accoglienza, il diritto al voto, il diritto a pari condizioni civili, la protesta delle donne riesce in questo caso sì a canalizzare una contro-potenza che si propone di sovvertire un sistema che sta tirando fuori i muscoli per mantenere lo status quo.
“Facciamo un grande disservizio ai ragazzi nel modo in cui li cresciamo. Stiamo soffocando l’umanità dei ragazzi. Definiamo la mascolinità in modo molto limitato. La mascolinità è una gabbia molto piccola e dura, e mettiamo i ragazzi dentro questa gabbia” sostiene Adichie. “E poi facciamo un disservizio ancora più grande alle ragazze, perché le cresciamo per provvedere ai fragili ego dei maschi”.
La ridefinizione dei generi, l’apertura a nuove frontiere di mascolinità e femminilità, dovrebbe essere il reale obiettivo del femminismo contemporaneo. Un obiettivo che richiede innanzitutto una presa di coscienza dei meccanismi invisibili che vanno aggiustati e in secondo luogo la volontà di attuare una profonda riforma culturale, una rieducazione, a partire dall’interno della famiglia, della scuola e del lavoro. Il cambiamento di paradigma implicato da una lotta, condotta da donne, che trascende la lotta per la condizione femminile e diventa una lotta contro un modello istituzionalizzato e apparentemente funzionante può far paura, dal momento che il bersaglio non è più semplicemente un Berlusconi o un Trump, ma un sistema di riflessi involontari e atteggiamenti introiettati che potenzialmente può risiedere in ognuno di noi.
Il ruolo della tecnologia e dei media
La possibilità concreta di emancipazione femminile è passata per la tecnologia: le macchine hanno reso possibile il passaggio dal lavoro manuale a quello prettamente intellettuale, le evoluzioni di medicina e chirurgia hanno permesso alle donne di avere una vita sessuale indipendente da quella riproduttiva e hanno dato a tutti una chance di cambiare sesso, dando una bella scossa alla supremazia del maschio eterosessuale cisgender. Dall’altro lato, insieme a Internet sta crescendo una generazione che, anche grazie alla rete, è esposta a modelli estremamente variegati di famiglia, società e individuo. È evidente che, col passare del tempo, sempre meno ragazzi si riconosceranno nell’ideale di mascolinità o femminilità che i redpillers pretendono di conservare con i loro possenti muscoli. La speranza è che le nuove generazioni crescano con una consapevolezza diversa e di conseguenza non solo si ridefinisca il ruolo della donna all’interno della società, ma si ridefinisca la società sulla base di caratteristiche e meriti totalmente scollegati a genere o etnia di appartenenza.
In questo risiede il senso di quello che finora ho definito femminismo, nella necessità impellente che i media, la scuola e la famiglia, prima ancora che lo Stato, lavorino per assecondare questo processo di riscrittura delle regole e forniscano ai ragazzini modelli diversificati e lontani dalle logiche che hanno portato alle condizioni di disparità di cui vogliamo liberarci. Perciò è compito di tutti, è nostra responsabilità che ciò avvenga, ed è per questo che dobbiamo lottare.
“La cultura nei media per adulti, a sua volta, influenza la cultura di ragazze e giovani donne. Togliere enfasi sulla sessualità come misura del valore di una donna e fare focus sui suoi meriti diminuirà l’ansia delle ragazzine per il loro aspetto e le incoraggerà a prestare maggiore attenzione alla loro creatività, ai loro talenti e obiettivi. Una maggiore varietà di eroine e modelli complessi espanderà la loro percezione dei diversi modi in cui è possibile “esistere”. Ragazzine affascinate dall’idea di diventare adulte e “cool” scopriranno fiducia, auto-accettazione e intelligenza in televisione al posto di cat-fight, materialismo e scandali.”
Editor STAIZITTAMAG. Ha scritto cose per VICE, Noisey, Rolling Stone e fatto altre cose per la TV.