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Capitan America e Iron Man, archetipi di due diverse concezioni dell’America e del potere.

Non dovete sentirvi in colpa se non vi piacciono i film di supereroi. Io stesso, pure vecchio lettore di comics, ho ignorato a lungo il genere. Ancora oggi cerco di scansare le numerose porcherie che ci vengono da oltreoceano – poi ogni tanto ti fai fregare e finisci a vedere Deadpool, cioè una specie di Scary Movie 4 spacciato per brillantissimo meta-cinema. Non dovete sentirvi in colpa, sappiamo quello che avete passato, però anche voi fate uno sforzo e andate a vedere Capitan America: Civil War.  Se vi annoiano i combattimenti potete sempre approfittare dei tempi morti per rimuginare su quello che avete appena visto: ovvero una potente rappresentazione della crisi di legittimità delle democrazie occidentali. E ricordate che il costume alato di Falcon sarà kitsch ma anche Semiramide alla Scala non scherza.

Piuttosto, sapete chi ha davvero stufato? Quelli che i film di supereroi li amano eppure ci tengono a far sapere che vanno a vederli solo per godersi della “sane bastonate” e “staccare il cervello per un paio di ore”. Poi se la prendono se qualcuno tenta di prendere sul serio quelle megaproduzioni e spiegare che dietro alle bastonate c’è qualcosa di più. Ma se spegnete il cervello quando guardate Civil War – un film che parla di potere e di responsabilità, di geopolitica, di senso di colpa – che cos’è che vi fa riflettere, i film di Özpetek? Fatevene una ragione, la gente che ha scritto questo film (Christopher Markus e Stephen McFeely) è probabilmente molto più intelligente di voi. E di me. E sicuramente di Özpetek.

È vero che spesso questi film non reggono il peso delle loro ambizioni – Batman v Superman: Dawn of Justice ne è stato un esempio clamoroso –  e a interpretare e sovraintepretare il rischio è sempre di produrre una “meravigliosa supercazzola”. Ma è un rischio che vale la pena di correre perché i film di supereroi, per citare Slavoj Zizek ormai ridotto a meme di se stesso, sono “ideologia pura” (and so on and so on). Questo non significa che abbiano una morale chiara, che facciano propaganda, che siano totalmente coerenti o che si possa decifrarli a tavolino come dei rebus. E non significa nemmeno che hanno davvero bisogno di pensose interpretazioni per essere visti e capiti – davvero, nessuno vi impedisce di smettere di leggere questo articolo pieno di spoiler e correre al cinema. Ma se, una volta usciti dalla sala oscura e strafogati di pop corn volete ancora che vi spieghi perché credo che Civil War sia (malgrado i suoi difetti) un film illuminante, beh, sapete dove trovarmi: appuntamento al prossimo paragrafo.

Affinità e divergenze tra il compagno Superman e noi
Il pubblico aspettava Civil War come risposta della Marvel al Batman v Superman della DC, ma nessuno poteva immaginare che i due film si sarebbero assomigliati così tanto. Il risultato è quasi imbarazzante, ma anche molto rivelatore. Non soltanto entrambi i film contrappongono due supereroi iconici (nel caso della Marvel, si tratta di Capitan America e Iron Man) ma inoltre hanno lo stesso modo di problematizzare la questione del potere. Nell’anno delle elezioni presidenziali americane, il cinema superomistico ha deciso di contribuire al dibattito mettendo sul tavolo i massimi sistemi. La sorprendente somiglianza tra i due film vale forse come lapsus dell’inconscio collettivo.

Cominciamo dai personaggi. Da una parte ci sono Iron Man e Batman che si presentano come garanti delle regole e dell’equilibrio tra i poteri, prendendo il rischio concreto di lasciarsi “legare le mani” da politici incapaci. Dall’altra troviamo Superman e Capitan America, che incarnano invece la superiorità della morale sulla politica e rivendicano la libertà di esercitare il proprio potere senza alcun limite. Nei reciproci universi finzionali questa pretesa sembrerebbe relativamente logica perché non esiste alcun dubbio sul fatto che i due supereroi vogliano il bene dell’umanità o perlomeno degli Stati Uniti d’America. Ma come possiamo essere sicuri che sappiano davvero cos’è meglio? Questo terribile dubbio venne formulato per la prima volta in una storia di Superman del 1972, “Must there be a Superman?” nella quale l’uomo d’acciaio viene giudicato per “crimini contro l’umanità” da un tribunale alieno. La sua colpa? Un’eccessiva ingerenza negli affari dell’umanità, che ha provocato l’arresto del suo naturale sviluppo sociale.

Trova l'intruso.

Se scomponiamo l’intreccio dei due film ai suoi minimi termini otteniamo la stessa parabola o, per essere più precisi, la stessa tragedia. Già, perché entrambi finiscono malissimo: da una parte abbiamo lo scioglimento dei Vendicatori al termine di una guerra fratricida, dall’altra niente di meno che la morte-di-Superman. Soltanto gli epiloghi, per esigenze di marketing, lasciano sperare che le situazioni si risolveranno nei rispettivi sequel, previsti per il 2018 (Avengers: Infinity War) e il 2017 (Justice League). Se perlomeno nel caso di Batman vs Superman lo spettatore esce dalla sala commosso dal sacrificio dell’uomo d’acciaio, la cui dimensione cristologica è stata ampiamente commentata, nel caso di Civil War non c’è alcun riscatto perché appare evidente che Capitan America e Iron Man sono stati manipolati e sconfitti. Caso più unico che raro in un film del genere: gli eroi perdono. Niente lieto fine questa volta. Che cosa ha potuto scatenare una simile conseguenza?

Come ogni tragedia, anche queste due discendono in maniera quasi meccanica da un singolo nodo, un “elemento perturbatore” come dicono gli studiosi di narratologia. E questo nodo è sostanzialmente il medesimo in entrambi i film, ovvero l’azione di un antagonista (Helmut Zemo da una parte, Lex Luthor dall’altra) che crea le condizioni perché gli eroi entrino in conflitto. Piccola differenza: il ruolo di questo antagonista si chiarisce piuttosto presto in Batman vs Superman mentre costituisce un colpo di scena finale in Civil War. Ma il modus operandi è sorprendentemente simile. Nelle scene iniziali dei film, gli eroi si trovano a svolgere una “special operation” fuori dalla giurisdizione statunitense (Capitan America in Nigeria, Superman in un generico paese africano) ma entrambe finiscono male, causando numerose vittime civili. Si tratta naturalmente di un piano ordito dagli antagonisti ma l’effetto è lo stesso: una violentissima reazione dell’opinione pubblica contro i supereroi.

In seguito a questi gravi fatti, nel film della Marvel l’ONU propone una convenzione per regolare il loro operato, mentre nel film DC è il governo americano a interessarsi della faccenda. Saranno proprio queste misure, questi tentativi di sottomettere Capitan America e Superman al potere della politica, a scatenare la guerra intestina tra gli eroi. Nessuno mette Steve Rogers in un angolo! Il personaggio, d’altronde, nasceva nel marzo 1941 per combattere i nazisti, ma quando lo si vide sulla copertina del primo numero di Captain America prendere a pugni Adolf Hitler mancavano ancora nove mesi all’ingresso degli USA nella Seconda Guerra Mondiale: fin dall’inizio il supersoldato amava “portarsi avanti”. Qui sta, naturalmente, il nucleo ideologico dei due film; ma sarebbe un errore saltare troppo rapidamente alle conclusioni vedendovi semplicemente una rivendicazione del ruolo preminente degli Stati Uniti nel nuovo ordine mondiale. Siamo nel 2016 e questa non è più l’America di Bush.

Il pubblico aspettava Civil War come risposta della Marvel al Batman v Superman della DC, ma nessuno poteva immaginare che i due film si sarebbero assomigliati così tanto. Il risultato è quasi imbarazzante, ma anche molto rivelatore.

Di fatto, l’intervento di Zemo e Luthor non fa altro che manifestare una contraddizione già latente fin dalla situazione iniziale dei due film. Che i supereroi fossero una sorgente inesauribile di guai era già evidentissimo in Avengers: Age of Ultron, che raccontava gli sforzi dei Vendicatori per risolvere un problema creato dai Vendicatori stessi. Il film, come scrivevo all’epoca, riflette le preoccupazioni di una superpotenza che si considera chiamata a governare il mondo ma non riesce a evitare di combinare pasticci giganteschi. Oggi il loro Ultron si chiama ISIS: un tecno-organismo parassitario che si diffonde a colpi di kalashnikov e video su YouTube nel vuoto politico lasciato dalle “buone intenzioni” degli esportatori di democrazia. Nella scena finale del film Ultron viene sconfitto, ma a che prezzo: la distruzione della ridente nazione di Sokovia. In Civil War, le immagini del film precedente vengono ritrasmesse dalla televisione per corroborare la tesi della pericolosità dei supereroi.

Questo rovesciamento di prospettiva è ancora più evidente in Batman v Superman, che iniziava mostrando la scena finale di Man of Steel dal punto di vista dell’uomo della strada proprio per attirare l’attenzione sui danni collaterali provocati dall’eroe. È qui che Bruce Wayne intuisce il pericolo rappresentato da Superman, e inizia a covare un desiderio di vendetta. Fondamentale è l’incontro con un dipendente delle Wayne Enterprises che in quel parapiglia ha perso l’uso delle gambe. Anche per questo momento drammatico Civil War ha una scena gemella: l’incontro tra Tony Stark e la madre di un soldato americano ucciso durante una battaglia dei Vendicatori. È nel suo ricordo che Stark deciderà di prendere posizione contro Capitan America. L’immaginario americano dell’era di Barack Obama e della dottrina militare del generale Petraeus è saturato dall’ossessione dei danni collaterali e soprattutto dal timore per le loro terribili conseguenze. L’intera serie Homeland è costruita sull’idea che il male che viene compiuto all’esterno si ritorce contro il corpo politico minandolo dall’interno.

Ma siamo sicuri che questi due film parlino davvero di politica internazionale? E cosa significa, per un film, “parlare” di qualcosa?

Capitan Antigone davanti alla legge
I più attenti lettori di fumetti lo avranno capito: se i due film si assomigliano così tanto è perché, in maniera più o meno evidente, entrambi hanno tratto ispirazione dall’innovativo crossover Marvel del 2006 che si chiamava appunto Civil War. La grande idea di Mark Millar, Ed Brubaker e degli altri sceneggiatori coinvolti fu di rinnovare l’esausto mito del supereroe trasformandolo in una metafora politica adatta all’epoca, in maniera molto diversa da ciò che negli stessi anni (come su queste pagine ricorda Birsa Alessandri) faceva il più visionario Grant Morrison. Ma nel corso di un decennio, e nel passaggio dalla pagina alla pellicola, molte cose sono cambiate.

Il fumetto Civil War era una critica piuttosto esplicita al Patriot Act di George W. Bush: Capitan America rifiutava di farsi registrare e controllare dalla politica perché la politica, all’epoca, era rappresentata da un presidente totalmente inaffidabile. Questa decisione ha diversi precedenti nella lunga storia del personaggio: negli anni Settanta, in pieno Watergate, Steve Rogers aveva abbandonato il suo costume ufficiale e iniziato a lavorare in incognito sotto il nome di Nomad, mentre nel decennio successivo aveva rifiutato di farsi comandare da una commissione governativa e preso temporaneamente l’identità di The Captain. Vi siete mai chiesti perché in sessant’anni di carriera Capitan America non è diventato Generale, Colonnello, o perlomeno Maggiore America? Bella forza: ogni due per tre pianta una grana perché non gli piace una legge, non lo convince un ordine, non gli va giù una certa commissione governativa…

Per citare le dirette parole di Rogers dal fumetto di Brubaker: “Amo il mio paese, ma non mi fido di molti politici. Non finché dipenderanno dai poteri economici. E non quando cercano di privarci della libertà in nome della sicurezza.” Nulla di strano, dunque, se dieci anni più tardi a molti verrà in mente di paragonarlo a Edward Snowden. È proprio per essere fedele alla sostanza dei principi costituenti degli Stati Uniti d’America che, secondo i suoi difensori, il celebre whistleblower ha infranto le regole formali che lo vincolavano al segreto di Stato. In maniera del tutto simile, nel fumetto, Capitan America – il primo vendicatore, il supersoldato, il veterano della Seconda Guerra Mondiale! –  sceglieva in coscienza di non obbedire agli ordini del suo “commander in chief” ritagliandosi un ruolo di Antigone nella tragedia post 11 settembre. Ricordate: nell’opera di Sofocle, la figlia di Edipo rivendica l’esistenza di leggi più alte di quelle scritte dagli uomini. A questo proposito, tra le pagine di Brubaker c’è anche il tempo per uno scambio filosofico tra Rogers e la sua ragazza Sharon:

–” Il rispetto della legge (“the rule of law”) è ciò su cui è fondato questo paese.”
– “No, questo paese è fondato sull’infrazione della legge, perché quella legge era sbagliata.

Sulla base di questa convinzione, nelle storie di Mark Millar il vendicatore si permette di rifiutare il “Registration Act” voluto dal governo degli Stati Uniti, scatenando di fatto la guerra civile – un gesto che mima quello mitico di Abramo Lincoln nel 1863. Steve Rogers è un fedele soldato ma la sua specialissima “catena di comando” è una corsia preferenziale che lo collega direttamente al cuore e alla pancia del popolo americano. Questo è evidente fin dalle prime storie degli anni Sessanta, ad esempio quando nel raccontare per la seconda volta le origini del personaggio Stan Lee e Jack Kirby (in Tales of Suspense #63) mostrano un Rogers che si finge imbranato davanti al suo diretto superiore al fine di celare la propria super-identità (e arriva a ferirlo lievemente con il calcio del suo fucile, cosa che un buon soldato sicuramente non farebbe).

Un giovane Steve Rogers già indifferente alla gerarchia.

Il supersoldato è tale anche perché non è tenuto a rispettare le gerarchie e le leggi positive quando ritiene che sono inutili o sbagliate. O per dirlo con le sue parole, da un episodio di Daredevil Born Again scritto da Frank Miller: “I’m loyal to nothing… except the Dream.” Ma questo significa che ogni atto di obbedienza o di libertà si presenta per lui come incessante dilemma da risolvere. Rogers è un vigoroso anti-normativista, nel senso che in un dibattito sulla teoria del diritto – ok, qui vi chiedo un po’ di sospensione dell’incredulità – parteggerebbe per Carl Schmitt piuttosto che per Hans Kelsen. In fin dei conti non è la forza sovrumana il suo vero potere, non è l’agilità, non è l’abilità con cui maneggia il suo scudo: ma il potere di decidere quello che è giusto. Nel film Captain America: The First Avenger, lo scienziato Abraham Erskine lo definiva così: “Not a perfect soldier, but a good man”. Nella teologia politica dell’universo Marvel, Capitan America è puro potere costituente, ovvero l’unico potere libero nel diritto costituzionale; è potere sovrano che decide dello Stato di Eccezione.

Nella Civil War dei fumetti, Capitan America è evidentemente, naturalmente, dalla parte della ragione e Iron Man dalla parte del torto, sebbene in totale buona fede. Nell’episodio “Rubicon” i due decidono una tregua e si ritrovano per discutere delle reciproche posizioni:  qui Stark rimprovera Rogers di non riuscire nemmeno ad ammettere di potersi sbagliare, ma in fin dei conti nemmeno Stark crede troppo nella fallibilità del supersoldato. Anzi è lui a essere continuamente scosso dal dubbio che il suo avversario abbia ragione:

– “So che sto facendo la cosa giusta. So che per garantire il nostro ruolo nella società bisogna garantire il controllo (“accountability”). Eppure ovunque mi giri trovo un politico opportunista che mi appoggia per le ragioni sbagliate…”

La disarticolazione del corpo politico
Rispetto al fumetto e alla sua morale liberal, il film di Anthony e Joe Russo è molto più ambiguo. Potremmo anche dire confuso: ma questa confusione è interessante. Il ricordo del Patriot Act è lontano ed è semplicemente impossibile stabilire se Captain America: Civil War sia da interpretare come metafora della resistenza dei cittadini al potere politico corrotto in nome di una legge più alta – nel qual caso, come nel fumetto, Capitan Antigone avrebbe ragione – oppure come allegoria dell’arroganza americana nei confronti delle istituzioni transnazionali – nel qual caso avrebbe ragione il più conciliante Tony Stark, ossessionato dai rischi di un potere fuori controllo. Di fatto, e contrariamente al fumetto, qui Capitan America e Iron Man si trovano sullo stesso piano: e, fateci caso, hanno entrambi torto.

Naturalmente non sta a un film di supereroi prendere una posizione in questi dibattiti, e men che meno fornirci delle risposte. Per citare una battuta dall’episodio “Cap for President” scritto da Roger Stern nel 1980: “È vero che Capitan America è onesto, ma cosa ne sa di economia e di politica internazionale?” Tuttavia quello che l’ambiguità irriducibile di Civil War ci mostra è interessante: se la stessa metafora può funzionare per rappresentare sia il rapporto tra l’individuo e lo Stato che il rapporto tra lo Stato e la comunità internazionale, è perché questi due diversi rapporti tirano in ballo i medesimi interrogativi morali. Nel 2003 i neo-conservative usarono proprio la legge morale per giustificare la decisione di procedere a una guerra illegale sotto il profilo del diritto internazionale. Una delle loro motivazioni era che i rappresentanti di paesi non-democratici all’ONU, corrotti e fondamentalisti, non fossero titolati a produrre decisioni vincolanti. In pratica gli USA stavano teorizzando la “disobbedienza civile” su scala planetaria. E che dire del Patriot Act? Si trattava della sospensione di certi diritti in nome di un bene più alto, ovvero la sicurezza. Ma era a sua volta una legge dello Stato che secondo Edward Snowden meritava di essere infranta in nome di un bene diversamente alto: la libertà. Da questo punto di vista Capitan America rappresenta contemporaneamente Snowden e Bush, perché l’ideologia è quello spazio simbolico in cui le figure di Snowden e di Bush diventano intercambiabili, e le loro posizioni apparentemente antitetiche vengono giustificate per mezzo dei medesimi dispositivi retorici.

Contrariamente al fumetto, dunque, Captain America: Civil War non è costruito per farci prendere posizione per l’uno o per l’altro dei contendenti. I due eroi, si scoprirà alla fine, sono stati manipolati precisamente allo scopo di metterli l’uno contro l’altro. Il conflitto tra rispetto delle forme e fedeltà ai principi si rivela essere falso e pretestuoso. Il problema è, come indica il titolo del film, la guerra civile: ovvero la dissoluzione del corpo politico che sorge quando i due elementi fondamentali della Stato di Diritto – la sostanza e la forma – si disarticolano. Il culto della sostanza (Capitan America) porta all’abuso di potere e quindi alla tirannide. Ma il culto della forma (Iron Man) porta alla cieca sottomissione e quindi anch’esso alla tirannide. È un vecchio tema della teoria del diritto al quale abbiamo già accennato, con qualche risvolto storico interessante: tra il 1933 e il 1934 i due giuristi tedeschi Carl Schmitt e Hans Kelsen si erano affrontati sulla questione opponendo una Dottrina della Costituzione sostanzialista a una Dottrina pura del Diritto formalista; paradossalmente, sia Schmitt che Kelsen vennero poi accusati di avere posto le basi per la politica di Adolf Hitler. Il culto della sostanza aveva permesso ai nazisti d’infrangere le regole in nome della volontà popolare: con il “Decreto per la protezione del popolo e dello Stato”, nel 1933 vennero di fatto sospesi per tutta la durata del Reich molti articoli della Costituzione di Weimar. Ma da parte sua il culto della forma aveva fornito la giustificazione, poi invocata dagli stessi colpevoli processati a Norimberga, per obbedire alle nuove regole istituite dai nazisti.

carico il video...
Quando scopri che lo S.H.I.E.L.D. è infiltrato dall’Hydra...

Steve Rogers e Tony Stark hanno entrambi buonissime ragioni per prendere le proprie rispettive posizioni, ragioni che sono state approfondite nei film precedenti dell’universo Marvel ma che Civil War lascia un poco in ombra. In Avengers: Age of Ultron, gli eroi avevano misurato i rischi legati all’esercizio di un potere senza limiti. Verrebbe dunque da parteggiare per Stark e pretendere un maggiore controllo delle istituzioni sui supereroi, se non fosse che Captain America: Winter Soldier invece aveva mostrato che le istituzioni possono essere profondamente corrotte. Quando scopri che lo S.H.I.E.L.D. (l’organizzazione antiterroristica dell’universo Marvel) è di fatto la copertura per una banda di nazisti dell’Illinois che lo hanno infiltrato mezzo secolo fa, come fai a fidarti delle istituzioni?

Insomma Stark e Rogers partono da preoccupazioni corrette, ma il loro errore tragico è di non cercare nessun compromesso tra le due esigenze di rispetto delle regole e fedeltà ai principi. In Civil War Iron Man scopre che i limiti che si è lasciato imporre lo hanno trasformato in un burattino  manovrato da politici incapaci. Da parte sua Capitan America scopre di non essere infallibile come credevano tutti: le sue ripetute infrazioni della legge in nome di un bene superiore servono solo a realizzare il piano di Zemo. Ed è per questo che il supersoldato fallisce nell’incarnare il proprio ruolo, ovvero sbaglia nel replicare il modello lincolniano al quale evidentemente s’ispira. Capitan America fallisce per eccesso di slancio morale e difetto d’intelligenza politica. E questo è il vero nodo della tragedia, che culmina in uno scontro selvaggio che non ha più nulla di cavalleresco: nella scena finale Stark è ormai deciso a uccidere Winter Soldier, e Rogers non si fa scrupoli a difenderlo mettendosi in due contro uno.

I termini del problema sono posti in maniera chiara e nitida, e sembra emergere persino un abbozzo di morale (per quanto astratta): non possiamo rinunciare alle regole, non possiamo rinunciare ai principi, ma soprattutto non possiamo assolutamente – né in nome delle regole, né in nome dei principi – rinunciare all’unità del corpo politico. Perché questa cosa, che si chiama guerra civile, è per citare Pascal “il più grande dei mali”. Gli americani la conoscono bene.

La morte del sogno
Se in una grande baracconata hollywoodiana finiscono per depositarsi tanti livelli di significato non è necessariamente perché i suoi autori avevano in mente l’intera storia della filosofia politica occidentale; bensì perché una storia imita necessariamente altre storie, nelle quali i livelli di significato si sono depositati nel corso degli anni. Talvolta dei secoli. Di fatto è lo stesso genere della tragedia, del quale il film rispetta le forme, a prestarsi alla diagnosi delle malattie che affliggono il corpo politico. Per dirla con il linguaggio della termodinamica, ogni tragedia descrive l’aumento dell’entropia all’interno di un sistema chiuso che passa da uno stato di ordine al caos. Questo caos, nel film, coincide con la condizione del mondo dopo la dissoluzione dei Vendicatori – in balia di tutte le potenziali minacce che popolano l’universo Marvel. Un nuovo stato di natura, una guerra di tutti contro tutti.

Bravi, e adesso?

Presentando il conflitto tra due supereroi come una metafora della guerra civile, gli autori di Captain America: Civil War finiscono per realizzare un calco di quella che fu la prima grande tragedia dei tempi moderni, il modello a cui s’ispirarono Christopher Marlowe e William Shakespeare: il Ferrex and Porrex (o Gorboduc) di Thomas Norton e Thomas Sackville, rappresentato per la prima volta nel 1561. Anche in questo caso bisogna guardare alla struttura drammatica per cogliere la somiglianza tra le opere: la situazione iniziale presenta un regno governato da un potere indivisibile per mezzo del quale viene garantita la sicurezza dei sudditi; tuttavia a causa dell’influenza dei cattivi consiglieri (precursori di Zemo) re Gorboduc decide – contro natura, contro il diritto, contro la consuetudine – la separazione del regno, che era poi la Britannia, tra i suoi due figli: una parte a Porrex e l’altra a Ferrex. Ma come può un solo corpo obbedire a due teste? Dal tragico errore s’innesca il meccanismo tragico. Porrex e Ferrex, temendo ciascuno che l’altro lo aggredisca per primo, finiscono per farsi la guerra; poi Ferrex viene ucciso da Porrex, e Porrex dalla madre, e così in un baleno l’intero regno cade nella guerra civile: infine il popolo uccide re Gorboduc e la regina.

Cinque secoli più tardi, Capitan America e Iron Man rivivono la tragedia fratricida di Ferrex e Porrex – a immagine di un paese che s’interroga sulla solidità delle proprie istituzioni e sul proprio ruolo internazionale, lacerato tra il senso di colpa e le ambizioni imperiali, tra la fedeltà al “sogno americano” e le tentazioni dell’antipolitica. Come trovare la forza per restare ancora uniti? Dove trovare un nuovo principio di legittimità che tenga assieme il rispetto delle forme e la fedeltà ai principi? Come impedire che l’arbitrio prenda il sopravvento sulla politica e nello stesso tempo evitare che i giochi della politica soffochino le aspirazioni ideali? Civil War non fornisce delle risposte a queste domande: ci ha dato nuove metafore per parlarne.

Raffaele Alberto Ventura
Raffaele Alberto Ventura vive a Parigi dove si occupa di marketing per un grande editore europeo. Editor-at-large di Prismo e fondatore del blog Eschaton, ha scritto per Studio, Internazionale e Minima & Moralia.

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