Scritture collettive, narrazioni combinatorie, e naturalmente le infinite potenzialità date dalla Rete, stanno sempre più erodendo l'aura romantica dell'individuo-scrittore. Una storia che parte da molto lontano...
Il copyright non è sempre esistito, questo si sa. Prima della fondazione della londinese Stationers Company nel XVI secolo, non c’era necessità di chiedere a un autore (men che meno all’editore!) la possibilità di riprodurre un’opera. È da tenere a mente che la cessione dei diritti di copia dall’autore alla casa editrice era garantita dal monopolio da parte dell’editoria degli unici mezzi di riproduzione delle opere, monopolio sul quale si reggeva il ricatto del diritto d’autore. Ma per buona parte della Storia, il naturale processo di creazione del sapere è stato il libero scambio, la condivisione senza regole né condizioni.
In una conferenza del 1969 poi compresa in Scritti letterari, Michel Foucault propose un’interpretazione della figura dell’autore come funzione, ipotizzandone la scomparsa in quanto figlia di una cultura e di un’era precise. “Si può immaginare una cultura dove i discorsi circolerebbero e sarebbero ricevuti senza che la funzione-autore apparisse mai”, scriveva (profetizzava?) il filosofo francese. “Tutti i discorsi, qualunque sia il loro statuto, la loro forma, il loro valore e qualunque sia il trattamento che si fa loro subire, si svolgerebbero nell’anonimato del mormorio. Non si ascolterebbero più le domande così a lungo proposte: ‘Chi ha realmente parlato? È veramente lui e nessun altro? Con quale autenticità o con quale originalità? E che cosa ha espresso dal più profondo di se stesso nel suo discorso?’. Ma altre come queste: ‘Quali sono i modi di esistenza di questo discorso? Da dove viene tenuto, come può circolare e chi può appropriarsene? Quali sono le ubicazione predisposte per dei soggetti possibili? Chi può riempire queste diverse funzioni del soggetto?’. E dietro a tutte queste domande non si capterebbe altro che il rumore di un’indifferenza: ‘Cosa importa chi parla?'”
Ora: tra i vantaggi delle nuove tecnologie c’è senz’altro quello della riproducibilità istantanea a basso costo e la possibilità di collaborazione a distanza, caratteristiche che hanno permesso l’insorgere di vari processi che sembrano riprendere (se non addirittura mettere in atto) la questione sollevata da Foucault quando parla di una cultura liberata dalla figura dell’autore. Certo, non ho gli strumenti per poter affermare che questo processo porterà, da qui a X anni, a un profondo mutamento della retorica autoriale. Quello che però mi sembra di poter constatare, è che negli ultimi anni vi sono stati vari esperimenti che hanno temporaneamente destabilizzato e messo in discussione il concetto di autore individuale, e di conseguenza creato contraddizioni nella retorica della proprietà intellettuale. Cosa fare di questi piccoli sussulti, è questione da affrontare.
La possibilità offerta dal web di ottimizzare la partecipazione di più individui a un'opera intellettuale non fa altro che palesare la natura collaborativa della produzione del sapere.
Scendendo nello specifico, sono tante le caratteristiche classicamente attribuibili a un testo che la riproducibilità telematica ha messo in crisi; basti pensare alla cosiddetta “inedicità” di un’opera: se al tempo della carta stampata la nascita di un libro sanciva una vera e propria spaccatura tra la fase di produzione e quella di distribuzione, oggi un ebook può essere editato in qualunque momento, oppure un articolo di giornale online aggiornato in tempo reale modificando quindi il prodotto stesso. O ancora: a un racconto può essere cambiato il finale – dall’autore originale così come da chiunque altro – per essere pubblicato su un portale differente: sarebbe ancora lo stesso testo? Sarebbe altro? Di chi sarebbe?
Queste domande risultano ancora più centrali considerando l’inadeguatezza dell’editoria cartacea e digitale di stare al passo con i tempi: molte testate online restano legate a pratiche (come la cessione o meno del consenso alla ripubblicazione su altri portali) oramai inadeguate dinanzi alle potenzialità fluide del Web. E poi c’è quel fenomeno che va sotto il nome di “scrittura collettiva”: nulla di nuovo, dirà qualcuno; ma intanto la possibilità offerta dal web di ottimizzare la partecipazione di più individui a un’opera intellettuale, non fa altro che palesare la natura collaborativa della produzione del sapere: la fruibilità dell’informazione virtuale, unita alla possibilità di creare in modo partecipato i contenuti, permette di bypassare il ricatto della proprietà dei mezzi di stampa, sottolineando che nella paternità autoriale di un bene intellettuale non c’è nulla di naturale. Chiaramente, a essere messa in crisi da fenomeni come la scrittura collettiva, è anche la figura romantica dello scrittore.
“Ci hanno sempre insegnato che lo scrittore è una sorta di penna divina”, spiegava il collettivo di scrittori Kai Zen durante un laboratorio, “da lasciare in pace per far sì che trovi il flusso magico di ispirazione, seduto da solo là sul cucuzzolo del monte della Sapienza. Ci hanno sempre detto che ci sono autori immensi, […] che producono libri di 500 pagine ogni anno. Possiamo anche crederci, se ci fa comodo, ma in realtà la scrittura non è mai un processo puramente individuale. Ci sono editor, collaboratori, confidenti. Anche chi eventualmente scrive da solo ogni tanto scende a prendersi una birra, conosce gente, si confronta. Poi torna alla sua scrivania con una nuova idea, una nuova ispirazione. Questa è già scrittura collettiva, ovviamente in stato embrionale. Il punto è che una buona idea difficilmente arriva diretta da un singolo pensiero individuale. Molto più spesso è un’amalgama di punti di vista, un mix di immaginari, ispirazioni, trovate. Anche nella scrittura è così, per noi Kai Zen”.
In questo discorso sono vari i punti toccati: dal metodo collettivo come ambiente naturale di scrittura, alla rivendicazione di un processo costituito da editor, impaginatori, traduttori, spesso eclissato dalla figura individuale del singolo scrittore. La Rete ha consentito di facilitare gli incontri portando alla nascita di soggetti che, come band musicali, al loro interno discutono, condividono, suddividono i compiti, in barba al mito dell’autore elitario. E se un libro firmato da 4 o 5 persone poteva vedere la luce anche da prima dell’avvento del network, alcuni esperimenti sono talmente complessi da essere difficilmente immaginabili senza l’infrastruttura della Rete: basti l’esempio di SIC – Scrittura Industriale Collettiva, che ha portato alla pubblicazione di un romanzo firmato da ben 130 autori.
Del libro in questione, In territorio nemico, si è già parlato molto, tanto da portare gli ideatori del progetto, Gregorio Magini e Vanni Santoni, a formulare un vero e proprio “Metodo SIC”: un procedimento o meglio ancora un algoritmo, nel senso di successione di passaggi utili a produrre un romanzo collettivo in modo il più possibile efficace. E così, se da un lato il mito romantico dell’autore viene intaccato dalla natura collaborativa della produzione intellettuale, altrettanto avviene per via di un processo narrativo per sua natura combinatorio.
Sembra insomma esserci un denominatore comune che lega i 130 autori di SIC ai laboratori dei Kai Zen e al Foucault che ragiona sulla funzione dell’autore, ma anche al Calvino di Cibernetica e fantasmi, e ai Deleuze & Guattari dell’Anti-Edipo. E cioè il riconoscimento di un progressivo abbandono, nell’immaginario collettivo, di un’idea trascendente di “Io” e di identità, a favore di un’interpretazione dei processi cognitivi algoritmica, macchinica e, appunto, combinatoria. Sensazione ripresa in modo suggestivo anche nell’ultimo libro di Paolo Godani, Vita comune: “Un tempo l’esperienza della nostra finitezza, la consapevolezza di essere un granello di polvere nell’immensità delle galassie, ci era fornita dall’osservazione astronomica, oggi dalla capacità di calcolo di un sistema operativo o di una coscienza superiore”.
La produzione di un testo può avvenire a partire dal riconoscimento di alcuni frame narrativi, analizzati e discussi all'interno della comunità scrivente, lasciandosi alterare simbioticamente all'interno di essa.
Forse siamo solo agli albori di una possibile serie di analisi, forse è un vicolo cieco e ancora non lo sappiamo; quello che però si percepisce è che il progredire dei risultati nei campi della robotica e dell’intelligenza artificiale ci sta portando sempre più a valutare noi stessi in termini algoritmici; in questo senso, qualche suggerimento ce lo danno alcuni recenti esperimenti come il robot che in Giappone è diventato finalista ad un concorso letterario, o la prima melodia composta dalle reti neurali di Google, o ancora – in toni più ironici – il generatore casuale di vignette nosense di explosm (e il problema è che fanno ridere davvero!). Anche alcuni testi usciti negli ultimi anni sembrano insistere sulla questione: dal recente Anime Elettriche di Ippolita (sulla digitalizzazione social degli affetti), a lavori più centrati sulla narrazione come Mitocrazia di Yves Citton o il breve La salvezza di Euridice di Wu Ming 2, descritto dall’autore come un “manuale di termodinamica della fantasia”.
Il binomio scrittura collettiva-narrazione combinatoria, fornisce quindi un metodo: la produzione di un testo può avvenire a partire dal riconoscimento di alcuni frame narrativi, analizzati e discussi all’interno della comunità scrivente, senza che il singolo partecipante incappi nella paura di vedere alterato il proprio lavoro dalla comunità, ma anzi lasciandosi alterare simbioticamente all’interno di essa. È partendo da queste premesse che di recente abbiamo avviato il progetto di narrazioni collettive Maz, che presto darà alla luce la sua prima opera collettiva #RazzaMigrante, una raccolta di “oggetti narrativi non identificati” sul tema della migrazioni contemporanee.
In Italia, il nesso tra obsolescenza storica dell’individuo, abolizione della proprietà intellettuale e potenzialità offerte dal “virtuale” nella sperimentazione di nuove forme di identità, fu già un caposaldo del Luther Blissett Project, il collettivo di attivisti che negli anni ’90 si mosse principalmente tra Bologna e Roma. Recita il celebre manifesto La cospirazione: “Io sono Luther Blissett. Io mi rifiuto di essere limitato da qualunque nome. Io ho tutti i nomi e sono tutte le cose.[…] Io attacco il culto dell’individuo, gli egotisti, i tentativi di appropriarsi dei nomi e delle parole e farne un uso esclusivo. Io respingo il concetto di copyright. Prendi quello che puoi usare. Io respingo il concetto di genio. Gli artisti sono come tutti gli altri. L’individualità è l’ultimo e il più pericoloso mito dell’occidente”.
O ancora, dal pamphlet Per l’abolizione del nome proprio: “Se nel passato era ancora possibile l’IUI (identità unica imposta, NDR), ciò era dovuto al fatto che esisteva ancora uno spazio unico di comunicazione, la comunicazione era prevalentemente vis-à-vis, quella mediata era ancorata ad un supporto, la carta, terribilmente fisico, corporeo quasi, sulla carta delle lettere si poteva sentire il profumo di sudore delle mani dello scrivente. Due sono gli eventi che hanno oggi reso definitivamente obsoleta questa realtà: la digitalizzazione della comunicazione e la pervasione (siamo immersi in migliaia di flussi comunicativi che non possiamo più controllare). […] Si aprono possibilità nuove di comunicazione. [… ] Lascio a voi di sbizzarrirvi sulle potenzialità della realtà virtuale. [… ] Quello che vi sto dicendo è che se non decidiamo consapevolmente di rinunciare al nome proprio, ci precludiamo una parte consistente della nostra possibilità di comunicare. Rischiamo di subire, di essere comunicati da altri”.
In una recente intervista rilasciata a Prismo (che prima o poi vedrà la luce su queste pagine), un membro – ma sarebbe più corretto dire una personalità – del Luther Blissett Proejct di Roma ci spiega meglio il concetto di “condividualità”: “È un concetto-chiave che inventai nel 1995 e che Marco Deseriis utilizza anche per spiegare Anonymous […] permette di superare concetti obsoleti come identità, comunità, individualità, collettività, reciprocità. Io ero un ‘condividuo’ e chi diventava me sperimentava questo stato di coscienza, che era appunto la ‘condividualità’. Dapprima si rinunciava alla propria individualità per diventare quello che Nietzsche chiamava dividuum e poi una volta diventato un dividuum era possibile agganciarsi a me, per diventare un personaggio multi-dividuale. Era ed è anche uno stato euforico. Non c’è comunità, individualità, collettività, non devi aderire a regole, non devi fare un patto, devi solo giocare a cambiare nome, sperimentare di essere un altro per ritrovarti con altri che fanno lo stesso gioco con lo stesso nome. È un gioco molto più leggero e lieve di quello che sembra spiegandolo”.
Superare l’individuo è quindi anche un gioco, una pratica da assumere in svariate forme. Suonano profetiche le parole di questa personalità, che nel lontano 1995 aveva elaborato insieme ad altri sé una teoria che in tempi recenti sempre più si è vista riscontrare nei fatti. E non penso solo alle tante identità fittizie che si possono assumere sul web, ma anche all’acceso dibattito riguardo la decisione di Facebook di aprire la caccia ai nickname, dichiarando esplicitamente tra le policy di dover usare il proprio nome anagrafico sulla piattaforma virtuale: quando si parla di “essere comunicati da altri”…
Fuori dalla scrittura intesa in senso strettamente narrativo, vengono in mente altri progetti altrettanto sintomatici (il più lampante è senza dubbio Wikipedia, pur con tutte le sue polemiche e ombre). A questo punto, potremmo immaginare anche altri campi della produzione del sapere nel quale provare ad ampliare questo percorso, aprendo processi collettivi e costruendo spazi di aggregazione tra lavoratori dell’immateriale; o anche sperimentando, perché no, gruppi di giornalismo collettivo, di “conricerca scientifica” e così via. Certo, all’inizio non sarebbe facile: il mito dell’autore individuale è ancora radicatissimo nel mondo culturale e si lega a sua volta all’inadeguatezza, da parte di questo stesso mondo, di affrontare nodi sempre più sensibili come le licenze editoriali, i metodi di pagamento, le forme di collaborazione lavorativa imposte dal panorama giornalistico-editoriale, e così via. Si aprirebbero forse ulteriori brecce, spaccature, contraddizioni; ma perlomeno i casi più felici sperimentati in questi anni, dimostrano che il ricorso all’orizzontalità dei processi decisionali – coadiuvato da un solido lavoro di analisi e di condivisione dei frame narrativi – è un metodo non solo praticabile, ma che erode le fondamenta di qualsiasi mito di ispirazione trascendente.
Classe 1990, studia matematica, laureato fuoricorso perché gli piacciono troppe cose. Collaboratore di Fanpage, se possibile scrive dove capita. Membro del progetto di narrazioni collettive Maz.