Florence, The Room e The Lady: tre film mostrano come ostinazione e mancanza di senso critico possano trasformare dei disastri artistici in dei cult.
Il 26 novembre 1944 Florence Foster Jenkins, dama di società di New York nonché fenomeno lirico del suo tempo, moriva nell’hotel dove aveva vissuto per oltre vent’anni. Era trascorso un solo mese dalla serata che l’aveva consacrata: un concerto tutto esaurito alla Carnegie Hall, lo stesso palco calcato da Duke Ellington e da George Gershwin. Aveva settantasei anni. Il mondo la ricordava, e l’avrebbe ricordata per sempre, come la peggiore cantante d’opera della storia.
Melomane, filantropa, facoltosa ed eccentrica, Florence era figlia di proprietari terrieri della Pennsylvania. Appassionata di musica dalla nascita, era riuscita a scatenare il suo potenziale solo molto tempo dopo, non più giovane, quando era entrata a contatto con il clima liberale di New York. La sua beneficenza era nota in tutta la città, almeno quanto lo era la sua dubbia estensione vocale. Le sue performance erano ambitissime dall’alta società, complice l’aura di mistero che le circondava: i biglietti erano venduti privatamente; l’intero successo si basava sul passaparola; i giornali ne erano tenuti perlopiù all’oscuro.
Sul palco, la cantante steccava, pronunciava malissimo. Sbagliava note più volte di quante non ne azzeccasse. Il pubblico reagiva con rituali fatti di colpi di tosse e applausi strategici, per nascondere le risate.
E così, Florence era diventata lo zimbello della capitale della cultura degli Stati Uniti, una delle “più bizzarre prese in giro di massa che New York abbia mai visto”, secondo un critico dell’epoca. Emersa dalla scena amatoriale, la cantante era riuscita a coronare il suo più grande sogno – la Carnegie Hall – grazie alla derisione delle masse. La ragione per cui Florence Foster Jenkins cantasse così male e, soprattutto, perché si ostinasse a farlo, viene studiata da decenni, e non si escludono anni e anni di danni causati dalla sifilide trasmessale dal marito, quel “Jenkins” dal quale lei si era allontanata appena contagiata, ma di cui avrebbe comunque mantenuto il cognome fino alla morte.
Il mito inaffondabile di Florence Foster Jenkins è un mito fondato sulla passione e la pertinacia di una donna che, pur non rendendosi conto dell’entità dello sfottò che la circondava, sapeva che le malelingue esistevano, ed era contenta di proseguire non curandosi delle voci dei pochi. “C’è chi dirà che non so cantare, ma nessuno può dire che non abbia cantato,” aveva confessato a una persona amica.
Il suo è un mito così attuale da essere sfociato in due lungometraggi nel giro di due anni. Il primo, Marguerite, è liberamente ispirato alla figura di Florence, in cui “Marguerite” è una ricca francese attorniata da approfittatori e da un marito infedele. È un film dominato da toni claustrofobici, dettati dall’isolamento in cui Marguerite si ritrova. Amata da tutti per ragioni opportunistiche, Marguerite paga per sentirsi elogiata, e inevitabilmente finisce per circondarsi di lacché, truffatori e dadaisti che la amano per quello che è. Il secondo film è un lavoro più strettamente biografico, anche se altrettanto romanzato, e si intitola (indovinate un po’) Florence, diretto dallo Stephen Frears di The Queen e in uscita il 22 dicembre. È la classica commedia dai toni pacati e dalle battute brillanti, quella col marchio “per tutta la famiglia” e le espressioni vagamente indisposte di Hugh Grant per far sorridere tua nonna (“guarda come si è mantenuto bene”). Eppure entrambi i film contengono una profonda riflessione sul peso morale della derisione.
*
E qui ci tocca attraversare un intero continente da una costa all’altra, perché Florence Foster Jenkins non è l’unica a figurare nell’intersezione di un Diagramma di Venn che incroci ostinazione, passione, una più che assoluta mancanza di talento, e un pubblico di fedelissimi. Fermiamoci un attimo a San Francisco, per esempio.
Tommy Wiseau sostiene di essere cresciuto in Louisiana, anche se la sua pronuncia tradisce un forte accento est-europeo. I suoi anni di formazione sono avvolti nel mistero. Di lui si sa poco o niente fino al trasferimento a San Francisco, e al film che lo avrebbe reso celebre suo malgrado: The Room.
Nel film, Wiseau – il goth protagonista della scena sopralinkata – interpreta Johnny, un impiegato di banca innamoratissimo della fidanzata, che si ritrova invischiato in un triangolo amoroso. La sua vita precedente viene distrutta in una spirale di passione e tradimenti, tutti innescati da Lisa, quella maledetta Semiramide della futura moglie.
Wiseau non era solo lo sfortunato attore di un film riuscito malino, ma ne era anche sceneggiatore, regista, produttore e produttore esecutivo. The Room era il frutto della sua passione per il cinema statunitense: un progetto cui teneva così tanto da avervi investito sei milioni di dollari. Un budget da Fratelli Coen, denaro di cui è difficile tracciare la provenienza, ma per il quale tutti gli indizi portano all’auto-finanziamento. Non che l’investimento appaia mai, sullo schermo: sei milioni era un utilizzo di risorse à la James Cameron per un esordio registico ambientato in una stanza. Nonostante l’esito, però, The Room era un film ambiziosissimo, girato contemporaneamente con due macchine da presa, una digitale e una in 35mm (non si sa perché), con due troupe, set ricostruiti più e più volte per ovviare a errori commessi in precedenza, e un ricambio continuo di attori che continuavano a lasciare il progetto.
Avrebbe dovuto essere la creatura di Wiseau, maturata nel corso di diversi anni e sbocciata in un drammone dalle sfumature noir. Non è mai andata così. Gradualmente, una nicchia di pubblico ha iniziato ad accorgersi del film, e The Room è diventato un successo di cui ridere fino alle lacrime, per poi raggiungere lo status di film di culto. Vende quasi più merchandising di Guerre Stellari, e ha un seguito che ne conosce a memoria ogni battuta. È quasi unanimemente considerato il film più brutto della storia.
Oggi, Tommy Wiseau abbraccia l’assurdità del suo film. Abbandonata la naïveté iniziale, ha deciso di aderire al trionfo commerciale della comicità involontaria di The Room: al contrario di Florence Foster Jenkins, che è sempre stata convinta della sua versione, e che ha sempre pensato di essere osteggiata da pochi invidiosi, lui sostiene che la sua intenzione sia sempre stata quella di realizzare una fine commedia dagli intenti parodistici. È impossibile decodificare cosa ne pensi in realtà, se raggiungere il successo venendo sfottuto lo abbia distrutto internamente. Una possibile interpretazione la trova The Disaster Artist, libro scritto da Tom Bissell in collaborazione con Greg Sestero (“Mark” di The Room), che racconta i retroscena della realizzazione del film, e si conclude con una delle scene più struggenti della narrativa contemporanea: la prima di The Room, il suo creatore seduto nell’attesa che cominci.
Tra i tratti che Florence Foster Jenkins e Tommy Wiseau condividono non ci sono soltanto l’ostinazione e una dilagante passione per la propria arte, ma c’è anche una tendenza all’accentramento del controllo. Fare tutto è sinonimo di qualità. In questo senso, è impossibile non pensare a un esempio più vicino a noi, quello della sceneggiatrice, regista, operatrice di macchina, direttrice della fotografia, scenografa, costumista, montatrice di The Lady: Lory del Santo.
La webserie sugli intrighi di un gruppo di ricchi cretini con uno stile di vita bizzarro ha spopolato con un tipo di pubblico di una certa età proprio per quell’assioma esplicitato in BoJack Horseman per cui “[Quella serie] era così idiota che era il meglio – cioè era il peggio, ma era proprio quello che la rendeva grandiosa”.
Per un caso sfortunato o fortunato che dir si voglia, grazie a internet The Lady ha trasportato un’estetica da fotoromanzo/soap in una filter bubble che non è la sua, creando nel nuovo pubblico quella dissonanza cognitiva per cui “ho un diverso retroterra estetico + mi è capitata davanti questa soap sovraesposta e montata con criteri misteriosi” viene risolto con “rido di voi”. (Non è da escludere che, nella mente di Lory Del Santo, The Lady fosse un’operazione di realismo sociale kenloachiana – sopra una certa soglia di reddito, è difficile distinguere cosa sia specchio del reale e cosa sia espressionismo sguaiato).
Ho smesso di guardare The Lady a pochi episodi dall’inizio perché non vi trovavo alcuna gioia. Comprendere il perché abbia fatto ridere così tante persone, però, è un’operazione molto più complicata. Certo, in tutti e tre i casi può esserci una componente di rivalsa nei confronti di chi ha un sacco di soldi e sembra scialacquarli in un progetto triviale. Ma c’è dell’altro. I tre esempi sono interessanti perché ci obbligano a chiederci dove questi appassionati della propria arte abbiano sbagliato.
Ci sono errori qualificabili e quantificabili: lo scarso controllo di timbro e articolazione canora di Florence Foster Jenkins non era ammissibile all’interno dei parametri della lirica (la nostra arrivava, ahimè, troppo presto per il punk); in The Room ci sono sviste evidenti (cucchiai al posto di foto di innamorati nelle cornici del salotto, termini inesatti, tono recitativo incoerente, ripetizioni della stessa inquadratura in scene d’amore cronologicamente disparate), e lo stesso vale per The Lady.
Ci sono, poi, gli errori di giudizio, dettati spesso da una certa convinzione del proprio talento innato che permette di fare tutto al primo colpo. Nel 1963, il giornalista Paul Moor riportava una conversazione tenuta con Florence, in cui lei avrebbe detto, delle sue registrazioni, le prime della sua vita, condotte quando aveva settantatré anni: “All’inizio erano sorpresi che cantassi una canzone, o un’aria, soltanto una volta quando ero in studio di registrazione; ma se non la fai bene la prima volta, di certo non ti riuscirà meglio la seconda, e quindi perché spossarsi per niente? È per questo che, per me, le registrazioni non sono una tribolazione come lo sono per la maggior parte degli artisti.”
Ma, dove finiscono gli errori quantificabili, si apre una terra desolata di soggettività. Dove finisce il gusto personale e dove comincia un’opera “sbagliata”? Esiste una delimitazione certa? È un dubbio che perseguita chiunque lavori nel campo delle arti: convivere con il terrore di essere Florence Foster Jenkins. Se solamente io, creatore, sono convinto che la cosa che ho realizzato non sia una parodia, significa che è una parodia? O è forse proprio quel terrore a separare il “creativo” dalle varie Florence: l’ambizione, senza il terrore e la capacità critica (o con il sistema nervoso logorato da anni di sifilide), non si manifesta in creatività.
In un mondo fatto di persone competenti, i derisi di cui sopra fanno qualcosa cui non siamo abituati, occupando uno spazio in cui non siamo abituati a vederli.
Centootto anni fa, in uno dei testi più citati della letteratura italiana, Luigi Pirandello offriva la sua personale definizione di comicità e umorismo.
“Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario.”
The Disaster Artist, Florence e Marguerite sono tutte operazioni che ci portano a oltrepassare l’avvertimento del contrario. Proprio cavalcando questa indagine della derisione, The Disaster Artist è stato adattato per lo schermo e uscirà nei cinema, diretto da James Franco, nel 2017. Ci si augura lo faccia con la sensibilità per andare oltre alla strana visione di un tipo con un’acconciatura bizzarra e un accento dell’est. Che si sforzi di mostrare, come aveva fatto prima il libro, la parabola di una persona il cui vero talento era la propria ostinazione. Greg Sestero definisce Tommy Wiseau come “il più esagerato, e il più sincero sognatore che abbia mai conosciuto […] Tommy mi ha fatto comprendere che sei tu a decidere chi diventerai. E mi ha fatto comprendere quanto possa essere un’arma a doppio taglio.”
Nata a Bergamo, non è la sua omonima Google vittima del raggiro di una santona. Ha tradotto e collaborato per una serie di case editrici e riviste italiane, sulle quali ha scritto di cinema, videogiochi, e pistoleri memorabili.