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Con Purity, Jonathan Franzen cerca di raccontare la complessità di internet ma più che un grande romanzo realista finisce per scrivere la brutta copia di una serie TV.

C’è uno spettro che si aggira per la letteratura americana e non è quello del grande romanzo, ma quello di Julian Assange. Dopo il deludente The Circle di Dave Eggers, anche Jonathan Franzen cade nella trappola della rappresentazione moralista – e dunque immorale, almeno ai fini della letteratura – del totalitarismo della rete.

Nel suo ultimo romanzo Purity, Franzen fatica a prendere le misure e come Eggers riesce nella straordinaria impresa di rendere una figura come Assange, assurto a paradigma del conflitto tra trasparenza dell’informazione e il diritto inalienabile dell’uomo all’essere spregevole, ancora più grottesca di quanto sia in realtà.

Se l’australiano ossigenato non avesse già svariati problemi di suo, verrebbe da processarlo per crimini contro la fiction americana, ma intanto ha vinto lui e tutto quello che rappresenta: due scrittori hanno cercato di imbrigliare e ridurre la rete, la rete non si è fatta ridurre.  

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Purity raccontato da Franzen himself.

Purity è una ragazza poco più che ventenne che vive in uno squat a Oakland. Ha un debito universitario di 130.000 dollari, una madre che vive isolata, medita e oltre a darle un nome di cui si vergogna – Purity appunto – le ha instillato un senso della morale abbastanza manicheo a cui Purity detta Pip per gli amici (e per Dickens), sfugge nel modo in cui una ragazza carina e della sua età può fare: andando a letto con chiunque, desiderando gli uomini degli altri.

Pip non ha idea di chi sia suo padre, se non che si tratta di un uomo pericoloso da cui la madre ha preferito tenerla al riparo. Il caso vuole che entri in contatto con un’associazione denominata Sunlight, che dai tempi del crollo del Muro di Berlino fa della trasparenza d’informazione una missione etica in grado di far guadagnare molti soldi al suo fondatore, l’ambiguo e caricaturale Andreas Wolf.

Nelle intenzioni di Franzen, Wolf è l’anti-Assange, ma non basta scriverlo nel romanzo per far sì che sia riuscito. Di fatto, Wolf è una specie di Frankestein con il cuore di Snowden, il cervello del fondatore di Wikileaks e le intenzioni assassine di nemici russi di Rocky Balboa. Divertente, ma non esattamente sottile o indimenticabile.

Purity è un romanzo d’avventura su una ragazza alla ricerca del padre che attraverso incontri ravvicinati con personaggi come Wolf riesce a smascherare una serie bugie destinate a impedirle di diventare la donna autosufficiente, matura e possibilmente ricca che aspira a essere. Franzen non la ama particolarmente, ma dopo una serie di peripezie ed episodi prolissi, le regala un finale dickensiano in cui i buoni non sono proprio felici ma almeno trionfano.

Per i loro romanzi ideologici contro Google che ci rende stupidi, sia Franzen sia Eggers hanno scelto due ragazze appena uscite dal college: non amabili, non stupide ma neanche esattamente brillanti.

Ed è questo il problema del romanzo: non ci interessa il destino della protagonista o la bellezza che la sua vicenda può esprimere, ma solo la lezione che può impartire. Dopo cinquecento pagine è un po’ sconfortante realizzare che Pip, come tanti comprimari, è solo un simbolo. È difficile innamorarsi di un’allegoria: la famiglia Lambert de Le Correzioni non era la rappresentazione dell’indurimento spirituale di una famiglia del Midwest contro il capitalismo e la malattia; la famiglia Lambert era l’indurimento spirituale di una famiglia del Midwest contro il capitalismo e la malattia.

Per i loro romanzi ideologici contro Google che ci rende stupidi, sia Franzen sia Eggers hanno scelto due ragazze appena uscite dal college: non amabili, non stupide ma neanche esattamente brillanti. La misoginia insita in questa scelta è stata molto discussa sulla stampa americana, ma vale la pena concedere loro il beneficio del dubbio.

Per il lettore, il problema non è tanto che Pip e Mae di The Circle siano donne, così come non era un punto a favore che Winston di 1984 o Guy di Fahrenheit 451 fossero uomini: il fatto è che i protagonisti di Orwell e Bradbury erano innervati da una tensione che non solo aderiva alla distopia che si proponevano di raccontare, ma riuscivano a rivelarne gli aspetti più subdoli e pervasivi senza essere didascalici, trasferendone le proprietà in maniera quasi esoterica e ipnotica.

Per farla breve, erano personaggi ben scritti, non dei crociati ossessionati dal bene e dal male. È ovvio che la scelta di affidare la moral quest a una donna sembra trasmettere l’antipatico messaggio che le nuove tecnologie mietano più vittime e inneschino maggiore dipendenza nei soggetti di sesso femminile, ma il lettore accorto la prenderà per quella che è: una scelta un po’ paracula, che non si discosta molto da quella della Southern Reach Trilogy VanderMeer, in cui le scienziate in missione nel primo capitolo sono per l’appunto tutte donne. In fondo, Pip e Mae riescono a emanciparsi, e il femminismo ipocrita e un po’ pasticcione di Purity o The Circle è davvero il loro male minore.

Manca una valida distopia morale nella fiction contemporanea. Non una distopia futura, ma presente, che non tratti internet come un pettegolezzo ma come una forza immanente, e soprattutto eviti di trasformare un romanzo in una conversazione tra Paul Virilio e Michel Foucault.

Il problema di Franzen con le madri dei suoi personaggi non riguarda la parità dei sessi né i pretestuosi dibattiti di genere all’interno della letteratura (che quando è di qualità si affranca da sola da queste polemiche): riguardano Freud.   

Una sera mi ritrovo in macchina con degli amici che scrivono di mestiere e lamentiamo l’assenza di una valida distopia morale nella fiction contemporanea. Non una distopia futura, ma presente, che non tratti internet come un pettegolezzo ma come una forza immanente, e soprattutto eviti di trasformare un romanzo in una conversazione tra Paul Virilio e Michel Foucault. Chi sa rappresentare la rete trascendendola, chi sa fare letteratura con internet? Cala il silenzio. Qualcuno dice Tom McCarthy. A me viene in mente Ben Lerner.

Credo che parte del mio stordimento rispetto a Nel Mondo a Venire derivi dalla consapevolezza che quel libro è quasi un testamento dei cambiamenti che ho subito, da lettrice e da trentenne che ha trascorso metà della sua vita tra i gangli di internet: la costante correzione di cuore e cervello in Lerner mi riporta alla rete che mi informa ma anche quella che mi ipnotizza con i gatti; la rete che mi rende più potente ma anche più ingenua di quanto sia mai stata. E questo lo fa attraverso metafore elettriche, e una scrittura che rimescola costantemente la sdolcinatezza di Walt Whitman con le informazioni tratte da Wikipedia, il mondo che era molto prima con il mondo che è già arrivato.

Un altro esempio è quello di Jenny Offill, che dopo dozzine di editoriali sul New York Times Magazine sul cascame sentimentale-digitale post Tinder e Snapchat, fa qualcosa su internet pur senza nominarlo, arrivando a concepire un amore rizomatico che neanche nei sogni più spinti di Deleuze. Certo, poi c’è l’ultimo capitolo de Il Tempo è un Bastardo di Jennifer Egan che anche in Guardami anticipa qualcosa, ma il rapporto tra letteratura e tecnologia non può essere solo una questione di profezia o di bastioni di Orione che verranno. Eppure, non può essere neanche l’oggetto di un atto di accusa come ha fatto Franzen: le alternative ci sono, e se il romanzo realista non è in grado di confrontarcisi, può anche abdicare.

Tutti gli attacchi a Franzen che parlano di scrittura piatta e di fenomeno bollito sono miopi, perché non affrontano il problema per quello che è. Più lo analizzo, e più il confronto tra letteratura e rete mi sembra un bagno di sangue, sia quando internet viene usato come strumento che come argomento: dopo anni di corteggiamento reciproco, siamo poco oltre il gioco metatestuale che fa “Ho messo un iMessage nel testo, guarda come sono moderno!” o la pura gemmazione del “questo testo è nato su Facebook ed è proseguito qui”. Escluse le felici eccezioni di Lerner e Offill, trovo pochi esempi in grado di rappresentare quello che siamo diventati senza urlarlo ad alta voce o senza farcene avere orrore. Che è, appunto, l’obiettivo di Franzen.

Il suo proposito può essere anche nobile, ma lo porta a termine con dei mezzi ontologicamente sbagliati. Franzen aggredisce internet con quello che crede sia il corazzato russo (non bolscevico, sia mai) del romanzo realista quando invece si ritrova tra le mani una consolle da videogioco anni Ottanta. All’eterna distrazione e violenza della rete non oppone un sistema operativo diverso, ma uno più vecchio e lento. Magari avesse usato gli strumenti di Tolstoj per ferire Google: quello che ha fatto, è stato cercare di impiegare gli stessi effetti di assuefazione e dipendenza innescati dalle serie televisive. In pratica, gli stessi trucchetti del sistema che dichiara di aborrire.

Che Franzen sia l’unico in grado di reggere la sfida della letteratura come intrattenimento contro la televisione poco importa. Io a un libro chiedo qualcosa di diverso di quello che chiedo a True Detective.

Di per sé il romanzone verso il quale Franzen è da sempre orientato, tutto affresco sociale e approfondimento psicologico, è destinato ad avere la peggio con la rappresentazione di internet, che non vuole il ritratto ma il frammento, non vuole l’enunciazione ma una specie di febbre fredda: tutto il resto purtroppo ci arriva già stanco. È chiaro che in mano a DeLillo un personaggio come Andreas Wolf non sarebbe stato così: forse non avrebbe aggiunto molto a quello che sappiamo del mondo degli Assange e degli Snodwen, ma non avrebbe neanche tolto loro quello spessore che nella configurazione degli eventi contemporanei hanno assunto, e che Franzen ignora a partire da un elitario disprezzo. Un Andreas Wolf scritto da DeLillo sarebbe stato più adatto per la soddisfazione del lettore che ho in mente? La risposta è sì.

Quantomeno, sarebbe stato un personaggio letterario e non televisivo: in Purity, Franzen va a parare dalle parti di Aaron Sorkin con Zuckerberg in The Social Network. Non c’è nulla di male, ma per tutti questi anni ci ha ripetuto allo sfinimento che voleva fare l’esatto opposto.

Che Franzen sia l’unico in grado di reggere la sfida della letteratura come intrattenimento contro la televisione poco importa. Io a un libro chiedo qualcosa di diverso di quello che chiedo a True Detective: chiedo un bel giro di frase, un senso diverso della temporalità. Banalmente, chiedo una punteggiatura. Il Franzen di Purity è ben lontano dal trombone veterotestamentario descritto sui giornali e preso in giro sui social: qui siamo alle prese con uno scrittore dissoluto, libero e persino volgare. Non a caso la chiave di lettura di Purity non l’ho trovata nell’ambiguo Andreas Wolf o nella madre moralista di Purity, ma in uno dei personaggi più belli, la giornalista old school Leila Helou, quella che fa ricerca sul campo e disprezza Wikileaks.

Jonathan Franzen visto da Ashley Seil Smith (da The Oyster Review).

Leila si è sposata con uno scrittore dopo averlo sottratto a un’altra donna. Dopo alcuni anni di matrimonio, il marito finisce sulla sedia a rotelle e lei gli resta accanto nonostante sia innamorata del collega Tom, a sua volta devoto alla memoria della ex moglie sposata in gioventù. Bene, Leila e Tom sono reduci da due matrimoni che erano Vecchio Testamento, una questione di onore e reciproca correzione, mentre la loro relazione è simile al Nuovo Testamento, dove le uniche cose che contano sono l’amore e la libertà.

Franzen era un autore da Vecchio Testamento e tutto il suo rapporto con la letteratura era improntato su questo. In parte ne è ancora convinto. Sono questi i personaggi che gli piacciono, le Leila che vanno a lavare e masturbare i mariti disabili, i Tom che non riescono a scindere il proprio amore dall’ossessione e il senso di colpa; i monotematici che vivono all’insegna dell’ama ciò che ti fa vomitare di più. Quando resta in questo mondo, Franzen ha davvero pochi rivali, e scorgerne dei passaggi in Purity è l’unico motivo per cui non ho abbandonato la lettura. Ma il Franzen del Nuovo Testamento è uno scrittore immensamente più fragile, che si dice ostile a Twitter e alla deconcentrazione e poi scrive un libro che distrae ma non crea affezione, che droga ma non illumina. Chissà, magari è stato più furbo di noi ed è riuscito davvero a riprodurre il senso della rete come una corsa continua senza estasi, un amplesso infinito senza orgasmo.

Che è il vero blurb di Purity: una scopata di sei ore senza orgasmo.

Franzen sta diventando più simile a Voldemort che a Tolstoj, impegnato a scindere il suo talento in vari horcrux per sopravvivere a tempi in cui alla magia (nera) della letteratura non crede più nessuno.

Dire che uno scrittore deve attenersi al mondo che conosce e lavorare su quello è una frase che odio, ottusa e castrante. Anzi, addentrarsi in contesti vischiosi è in parte l’unico motivo che un autore riesce a dare a se stesso per continuare dopo anni di libri e di romanzi. Il problema è che nel suo avanzamento di carriera, Franzen sta diventando più simile a Voldemort che a Tolstoj,  impegnato a scindere il suo talento in vari horcrux per sopravvivere a tempi in cui alla magia (nera) della letteratura non crede più nessuno.

Una letteratura che ha bisogno di essere salvata è una letteratura già morta e nonostante tutto siamo ben lontani da quel momento. Questa formula è uno stunt pubblicitario, un complesso di inferiorità dello scrittore che sta creando più danni di quanti ne stiano facendo internet, le serie o videogiochi. Forse è nella serenità della propria irrilevanza che si compie la libertà (e la purezza), perché in questa furia del confronto con il plot e l’intrattenimento si stanno consumando scempi nel romanzo italiano come in quello americano.

Quando penso a Franzen, non lo immagino in una cabina nei boschi o immerso con gli stivali nell’erba umida per fare birdwatching, ma seduto sul divano del basement a guardare Tony Soprano o Rust Cohle a pensare: cosa stai facendo che io non sto facendo?

Ma se uno scrittore del suo calibro ha il diritto di stare nel mondo, non ne ha il dovere. Che la rinuncia sia un prodromo della libertà, Franzen lo fa dire ai suoi personaggi: purtroppo, non sembra ancora capace di dirlo a se stesso.

Claudia Durastanti
Claudia Durastanti è nata a Brooklyn nel 1984. Scrive su il Mucchio e per Marsilio ha pubblicato i romanzi "Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra" (2010) e "A Chloe, per le ragioni sbagliate" (2013).

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