Il segreto alla base del successo dei Fratelli Coen è semplice: basta saper lavorare con leggerezza, circondarsi di ottimi amici, ed esercitare un controllo assoluto.
Iniziamo con una nota personale: poche settimane fa parlavo con uno sceneggiatore, uno che ha lavorato per anni e anni alla BBC, un tipo dritto. L’argomento era “Che autori celebri citare ai finanziatori di film per farsi finanziare un film”. Uno di noi due aveva nominato i fratelli Coen, e io avevo aggiunto con compiacimento, “Perché sì, in fondo, a chi non piacciono i fratelli Coen?”. Lui, prontamente, aveva risposto “Ecco, è questo il punto. A me”. Di fronte alla mia espressione sgomenta, lo sceneggiatore aveva sentito il bisogno di giustificarsi. Fanno sempre quadrare il cerchio, diceva. Non c’è mai spazio per l’errore – i loro film sono perfetti, ammirevoli ma troppo puliti, senza nemmeno uno sbaffo. Poi, tendendomi un tovagliolo sporco, aveva aggiunto: “Asciugati le lacrime, groupie.”
Le conclusioni del mio interlocutore non sono errate – sono le stesse ragioni per cui ogni giorno un bocciolo di rosa si schiude e dà vita a un nuovo fan dei Coen. E sono accuse ampiamente comprensibili, se ci si mette nei panni di qualcuno che non condivide la pacata tirannia di Ethan e Joel Coen. I due registi, oggi completamente a proprio agio con Hollywood, ma completamente estranei al sistema-Hollywood, godono di uno status che la maggior parte degli indipendenti possono invidiar loro. Vediamo come ci sono arrivati.
Operazione Controllo Totale
Dal Minnesota dei filmini amatoriali in Super8 a quattro Oscar in un solo anno (due per fratello), i Coen hanno iniziato a condividere il loro modo di fare cinema più o meno quando hanno iniziato a condividere il DNA.
Per la maggior parte della loro carriera nei lungometraggi, Ethan è stato noto come il produttore, Joel come il regista. Entrambi scrivevano i film. Ma, a un’analisi più attenta, le distinzioni di ruolo sono sempre risultate più una strategia di detenzione del potere che un’effettiva divisione del lavoro. Solo, però, con Ladykillers (2004), a vent’anni dal loro esordio, il pubblico è stato sorpreso dalla prima co-regia della coppia. Ma Ethan non si era svegliato una mattina con la smania di fare il regista. Questo perché è dal 1984 che Ethan è un regista: sulla carta, però, conveniva che facesse il produttore.
Per due ragioni: innanzitutto, una ragione pratica – per fare film all’interno della maggior parte degli studi cinematografici statunitensi, bisogna essere iscritti alla Directors Guild of America. Dal 1978, la Directors Guild of America accetta co-registi soltanto in rare occasioni, e sempre in casi di team di registi “bona fide”. Se si fida del lavoro di un gruppo di co-registi, li ammette tra i suoi membri. Così è successo ai fratelli Farrelly, così è successo ai fratelli (al tempo) Wachowski, così non è successo per Robert Rodriguez e Frank Miller.
Ciò significa che, nel 1984, quando i Coen hanno esordito, i cavilli burocratici per accettare una loro co-regia sarebbero stati più di quanto i Coen stessi fossero disposti ad accettare. Ma non solo. I fratelli, da sempre riservati, con il passare degli anni si sono ammorbiditi nel condividere informazioni. A Variety, per esempio, hanno spiegato che, nel dividere i crediti, “Cercavamo di evitare che altre voci interferissero. Se uno di noi due era regista e l’altro era produttore, non ci avrebbero appioppato un produttore creativo. E infatti così è stato.”
Il “produttore creativo”, unicorno di Hollywood e dell’industria cinematografica mondiale, è in linea teorica un veicolo che agevola la visione creativa del regista e ne protegge il prodotto finale; una persona in più per condividere idee con il regista; una persona che abbia una visione d’insieme e sappia considerare i fattori economici in gioco. Il produttore creativo: un “confidente” per alcuni registi, una “spina nel fianco” per altri, o “Scusa, chi?” per Xavier Dolan.
Con l'assoluto controllo del processo cinematografico, dalla pre alla post-produzione, la coppia si assicura di dare vita precisamente a quello che aveva scritto in sceneggiatura, mesi, anni prima.
Il rapporto con il produttore creativo è un rapporto che, talvolta, non si risolve al meglio. Può costituire un rischio, di certo non uno che i giovani Coen avevano intenzione di sperimentare sulla propria pelle. Morale: Ethan produttore, Joel regista. Entra in scena Roderick Jaynes, il montatore storico dei Coen, un tipo che abita nel Sussex, in Inghilterra, nonché candidato a due Oscar, uno per Fargo e uno per Non è un paese per vecchi. Il problema è che Roderick Jaynes non esiste.
Ronald Bergan, biografo dei Coen, riconduce il nome a una crasi tra Roderick Usher, l’incestuoso protagonista de La caduta della casa degli Usher di Edgar Allan Poe, e Giano, il dio bifronte – perché Roderick Jaynes è in realtà due persone, e chi sarebbe più adatto a montare un film dei fratelli Coen, se non Joel ed Ethan Coen? Siamo già a quattro ruoli principali di una troupe ricoperti dai due fratelli. Con l’assoluto controllo del processo cinematografico, dalla pre alla post-produzione, la coppia si assicura di dare vita precisamente a quello che aveva scritto in sceneggiatura, mesi, anni prima.
“Gli attori possono improvvisare quanto vogliono” dice Joel. “Ma non è detto che lo giriamo”. Infatti, per contenere costi e dimensioni della produzione, ogni giorno di ripresa su un set dei Coen è meticolosamente studiato, ogni scena accompagnata da uno storyboard giornaliero che illustra cosa verrà ripreso e che battute verranno dette. Il margine di improvvisazione è, dunque, mantenuto al minimo. Ovviamente, per quanto economico sia il processo, fare un film da 20 milioni di dollari non è un lavoro da quattro persone, e quindi i due si circondano degli unici professionisti consumati di cui si possano fidare pienamente a parte loro stessi: cast ricorrenti (Frances McDormand, John Goodman, John Turturro, George Clooney e via discorrendo) nonché una troupe fedelissima (Roger Deakins, direttore della fotografia; Carter Burwell, compositore; Skip Lievsay, sound designer; Tricia Cooke, montatrice e moglie di Ethan; J. Todd Anderson, artista storyboard: tutta gente che sin dagli inizi ha fatto la carriera dei Coen, e viceversa).
Con Ethan e Joel Coen, però, la retorica facile del “tiranno accentratore” non regge, considerando che tutti i loro collaboratori tornano sempre a lavorare con loro. Questo perché il loro modus operandi si basa sulla rilassatezza e sulla fiducia assegnata (a poche persone). Sul delegare a persone sapienti. Insomma, dimostrano al mondo che si può fare quello che si vuole, basta saper lavorare con leggerezza, circondarsi di ottimi amici, e avere un contratto blindato.
Approfondiamo l’ultimo punto: la libertà di movimento dei fratelli Coen è da ricondurre ai loro primi film. Entra qui in gioco un produttore fidato: Ben Barenholtz, produttore indipendente, aveva preso i due fratelli sotto la sua ala protettiva a partire dal loro lungometraggio d’esordio, Blood Simple – Sangue facile (1984), che aveva accettato di distribuire. Era stato proprio Barenholtz, in cerca di finanziamenti, a presentarli alla Fox per il loro terzo film, Crocevia della morte. Soltanto che, alla Fox, i tre non avevano presentato altro che una sinossi di due righe.
In cambio, la Fox otteneva la prima opzione sulla futura sceneggiatura del film. Una volta letta, poteva accettare di finanziarla, o rifiutare e riprendersi il suo acconto. Accettando il finanziamento, riporta sempre Ronald Bergan, la Fox: “[…] non avrebbe potuto imporre alcuna scelta ai registi, né sul cast, né sul titolo. Il contratto prevedeva che la Fox avrebbe potuto esercitare una qualche influenza durante le riprese soltanto qualora i registi avessero deviato dalla sceneggiatura iniziale. […] A detta di Barenholtz ‘La Fox non ha potuto intervenire in alcun modo. Credete che Crocevia della morte avrebbe avuto quelle immagini, avrebbe avuto quel finale, se la Fox – o qualsiasi altra compagnia – avesse avuto voce in capitolo sul montaggio finale? Ovviamente no. Avrebbero standardizzato il film. La Circle [la compagnia di Barenholtz, ndR] ha un contratto con i fratelli Coen, ma io non ho controllo artistico su di loro’”.
Per gli stessi motivi – per reclamare indipendenza – i due registi avevano ai tempi rifiutato una redditizia offerta di Warner Bros per dirigere un film di Batman – probabilmente sarebbe stato un Batman pieno di sfighe e schiacciato dall’ineluttabilità degli eventi che lo circondano.
Il loro contratto, a oggi, rimane più o meno lo stesso. I Coen reclamano la propria libertà di final cut, una libertà estremamente rara anche per registi che lavorano a cavallo tra Hollywood e la totale indipendenza. Con 17 lungometraggi alle spalle, possono godere di una sana alternanza tra “film hollywoodiani” (Burn After Reading, Non è un paese per vecchi, True Grit) e “piccoli film indipendenti” (A Serious Man, A Proposito di Davis, L’uomo che non c’era) – in entrambe le categorie, però, hanno lo stesso, liberalissimo, contratto. L’indipendenza dei Coen, d’altra parte, era ritenuta sprecata da critici come Pauline Kael, che già nel 1985, di fronte a Blood Simple, si chiedeva “dove sta la gloria nel fare film al di fuori della macchina hollywoodiana, se si tratta di film dall’anima hollywoodiana o – ancor peggio – di sottoprodotti di Hollywood? Ethan e Joel Coen saranno pure eroi in fatto di mettere su un business ma non sono cineasti eroici.”
Se già allora i Coen facevano film hollywoodiani fuori da Hollywood, non si stupirebbe Pauline Kael, oggi, a vederli fare film hollywoodiani fuori da Hollywood e, soprattutto, su Hollywood. I due fratelli, proclamando la propria autonomia, si erano tenuti agli antipodi da Hollywood e dalla sua mentalità anche geograficamente, andando ad ambientare le proprie storie in tutti i possibili anfratti di una ideale mappa degli Stati Uniti. Ma a Hollywood sono tornati, come è di dovere, per un’incursione: Ave, Cesare!
Ave, Cesari!
Non è il primo caso in assoluto, nella loro filmografia. Nel 1991, Joel ed Ethan stravincevano a Cannes per quella satira sul commediografo comprato da Hollywood intitolata Barton Fink. Ave, Cesare!, però, è il primo film che va fisicamente a porsi nel cuore dello studio system hollywoodiano, seguendo le vicende di Eddie Mannix, un uomo perbene che sistema gli scandali degli studios. Starlette incinte, rapporti omosessuali, giovani attrici ritratte in scatti erotici: tutto passa attraverso di lui, e ne esce ripulito come solo la Hollywood puritana del 1951 potrebbe volere. La classica giornata di Mannix, però, cambia improvvisamente piega di fronte al rapimento della stella di punta del momento.
Ave, Cesare! nasce da un tira-e-molla tra George Clooney e i Coen. I due avevano parlato a grandi linee di un’idea su una troupe teatrale che cerca di mettere in piedi una pièce sull’antica Roma – Clooney, entusiasta, aveva preso la palla al balzo e aveva cominciato a parlarne in ogni intervista. Il prossimo film che faranno è Ave, Cesare. Ah, sì, stiamo lavorando a un film chiamato Ave, Cesare. Colto il messaggio, ecco i registi, più di dieci anni dopo, annunciare la pre-produzione di un film nato, letteralmente, da una battuta ricorrente. Ave, Cesare! si farà.
Nel contesto della filmografia più recente dei Coen, una filmografia fatta di vite che vanno di male in peggio, di destini ineluttabili, e di ridere-per-non-piangere, Ave, Cesare! è il film che fa più sbellicarsi apertamente, di pancia. Via, c’è George Clooney che si incastra nelle sedie sdraio, c’è Fred Melamed che serve aperitivi, c’è Channing Tatum che balla il tip-tap. Ma non è il potenziale slapstick del film a esserne il punto focale. Si potrebbe dire che Ave, Cesare! sia una critica del cinema mainstream statunitense, quel cinema “di un certo budget”, con gli studios che macinano film nati per servire il sistema: c’è una certa estetica di panem et circenses discussa apertamente nei minuti finali del film.
Esempi di Hollywood che critica se stessa ne abbiamo, e di illustri, proprio dagli inizi di Hollywood. Sono spesso i più concisi modelli di satira a tutto tondo di cui il cinema dispone, perché parlano dall’interno di un’industria che comprendono perfettamente. Da Maschere di celluloide di King Vidor (1928) a I protagonisti di Altman (1992) allo stesso Barton Fink, a Viale del tramonto (1950), una critica al sistema hollywoodiano così tagliente che – leggenda vuole – Billy Wilder venne insultato da Louis B. Meyer fuori dal cinema: “Dovrebbero prenderti, ricoprirti di piume e catrame, e cacciarti dal paese, pezzo di merda straniero.”
Ma non ci siamo ancora, non è questo il punto del film. Perché lo sguardo che Ave, Cesare! getta sulla Hollywood degli anni 50 non è soltanto satirico. Anzi. Se, di tanto in tanto, si prende gioco della naïveté della vecchia Hollywood, lo fa con adorazione, meraviglia, sincero affetto. Perdio, non che i Coen non nutrissero, già nei film precedenti, ammirazione per i generi che rimodellavano – nessuno farebbe mai niente, senza un filo di autentica ammirazione; qui, però, lo fanno con pochissima malizia, come se a scriverlo fosse stata la sincerissima Marge Gunderson di Fargo.
Ci presenta intere, lunghissime, sequenze dedicate a balli di tip-tap, ai “singing cowboys”, agli aqua-musical di Esther Williams. Sono talmente ben composte, e sono talmente distanti da noi negli anni, che nel guardarle ci si chiede che fine abbiano fatto, perché nessuno faccia più gli aqua-musical. Ci si chiede se qualcuno, tra le generazioni future, dedicherà ai film di supereroi lo stesso sguardo nostalgico che gettiamo noi su queste, pur pacchianissime, meraviglie tecniche del passato. Ave, Cesare! è una dedica innamorata al cinema di genere, e a quello che ha saputo offrire nella sua storia. In questo senso, con la sua ammirazione pura che abbandona – qua e là – l’ironia, l’ultimo film dei Coen è più The Artist che I protagonisti.
Nel dedicare intere sezioni a interi numeri cinematografici quasi estranei alla trama, Ave, Cesare! ricorda un insieme di cortometraggi piuttosto che un lungometraggio compatto. Non che sia una pecca: il film sembra replicare la struttura dei generi che omaggia, che dedicavano abbondanti a-parte ai virtuosismi tecnici, scordandosi della trama di partenza.
Completamente assorbito da ciò che celebra, il film si dimentica della sua struttura e di se stesso. Non cerca di essere pulito, è pieno degli sbaffi di cui il mio sceneggiatore della BBC lamentava la mancanza. I fratelli Coen hanno fatto uno dei loro film più imperfetti, ed è bello come tutti gli altri.*
*[Salvo eccezioni: è da notare che il duo ha realizzato film non belli].
Nata a Bergamo, non è la sua omonima Google vittima del raggiro di una santona. Ha tradotto e collaborato per una serie di case editrici e riviste italiane, sulle quali ha scritto di cinema, videogiochi, e pistoleri memorabili.