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Oggi finisce un’attesa durata quasi dieci anni: The Last Guardian, l’attesissima terza opera di Fumito Ueda, vede finalmente la luce. Ma da dove nascono simili aspettative? Rivediamo i motivi che hanno reso Ueda uno dei game designer più riveriti al mondo.

“L’arte non era qualcosa che apprezzavo nel silenzio della solitudine. Era la sua condivisione a piacermi: questo è il tipo di artista che sono”.
– Fumito Ueda, da un’intervista rilasciata a Shmupulations

Sembra ci sia una regola non scritta che impone l’uso del termine “poeta” in ogni articolo dedicato a Fumito Ueda, il game designer nato nel 1970 a Tatsuno City, autore di due videogiochi di culto come Ico e Shadow of Colossus, nonché di The Last Guardian, in uscita oggi. Il motivo per cui vi si ricorre è semplice: alle sue produzioni è sempre stata riconosciuta la capacità di trascendere dal proprio media originale, tanto da sconfinare nel regno dell’arte e assurgere così allo status di “quadri in movimento”.

Nonostante gli elogi, Ueda per primo ha sempre rimarcato quanto il suo intento, soprattutto agli esordi con Ico, fosse quello di dare vita a esperienze di gioco semplici. Talmente semplici da poter toccare, potenzialmente, anche i “non-giocatori di professione”: una concezione del game design quindi del tutto avulsa dall’ermetismo e l’elitarismo tradizionalmente associati alla poesia e, anzi, tesa a offrire esperienze di gioco il più possibile aperte e condivise, pur conservando una forte identità ludica ed estetica.

È possibile allora che la “poesia” di questo sviluppatore, cresciuto a pane, Dragon Quest e Smash Ping Pong, dipenda non dalla sua esplicita volontà creativa, bensì da uno sguardo semplicemente diverso dalla media, che coniuga una sensibilità e un palato oggettivamente rari a una metodologia di design in cui il gameplay viene scolpito lentamente, con l’acribia dell’artigiano.

Poeta, quindi, no, ma certamente nemmeno un semplice designer. Forse, allora, “designer semplice” è sufficiente.

Una fiaba silenziosa
Facciamo ora un passo indietro e cerchiamo di chiarire quest’ultimo concetto partendo dalle basi: siamo nel 2001 quando nei negozi giapponesi si avvista una strana copertina, singolarmente simile a Nostalgia dell’infinito di Giorgio de Chirico, in cui si scorgono le silhouette minute di un ragazzino e una ragazzina intenti a correre, mano nella mano, avvolte da uno scenario crepuscolare.

La copertina di Ico, dipinta da Ueda medesimo.

Ico è il primo gioco diretto da Ueda (precedentemente aveva lavorato come animatore per la WARP su Enemy Zero e D), su cui lavora assieme a un piccolo team composto prima da cinque, poi da quindici e infine da venti membri. La trama è essenziale: il personaggio da cui prende il nome il gioco è un bambino di dodici anni, nato con due piccole corna sulla testa, destinato a essere offerto in sacrificio propiziatorio dai membri del suo villaggio alla Regina delle ombre, sovrana di un imponente castello in cui viene rinchiuso. Sfuggito alle catene nelle prime battute di gioco, in seguito Ico incontrerà Yorda, la figlia della regina, imprigionata da una madre ossessionata dalla morte e intenzionata a usare il corpo della bambina come recipiente per la sua futura reincarnazione. Scopo del gioco sarà fuggire dal castello, quindi dal proprio destino, insieme a Yorda.

“Tutto ciò mi induce a trattare rapidamente di ciò che si può definire con l’ambivalenza della nozione di sacro. Questa rappresentazione – e i riti che ad essa corrispondono – ha precisamente la caratteristica di essere alternativa. Il sacro infatti non è un valore assoluto, ma un valore che indica situazioni correlative. Un individuo che viva a casa sua, nel suo clan, vive nella dimensione profana; vive invece nel sacro da quando se ne va e si ritrova, come uno straniero, in prossimità di un luogo abitato da sconosciuti”.
– A. Van Gennep, Riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino 2012, p. 12

Arnold Van Gennep, antropologo francese di fine Ottocento dedito allo studio del folklore, nel saggio Riti di passaggio mostra come la dimensione rituale non possa prescindere dal riconoscimento di una società. In ambito iniziatico, la stessa nozione di sacro attiene al superamento di una soglia: durante la pratica rituale l’iniziato passa dunque da una dimensione profana a una religiosa, in funzione di un cambiamento di status sociale all’interno della comunità.

Un concetto che si ritrova nell’esile traccia narrativa di Ico: fin dall’introduzione, in cui si assiste alla segregazione del protagonista in un sarcofago coperto da rune misteriose, si dichiara esplicitamente al giocatore che il regno di elezione della vicenda non è quello reale, bensì quello del mito. Coerentemente, nessun aspetto del gioco inciampa nell’autoreferenzialità o nei lirismi di maniera; al contrario, tutto si sviluppa in funzione di un discorso organico e coeso. Dal punto di vista grafico, il team opta per un “effetto pellicola sgranata”: l’ambientazione di gioco, come gli stessi personaggi, sembrano provenire da un’epoca remota; un mondo antico, primigenio.

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I contorni dei personaggi presentano sempre una leggera sfocatura e i colori scelti sono sbiaditi, con i bianchi esageratamente accesi, quasi soprannaturali, che fin da subito generano un’atmosfera onirica, surreale, fondata sul dualismo tra luce e ombra. Da questo punto di vista, la caratterizzazione estetica di Yorda è eccezionale e mostra una ragazza sinuosa, dai capelli corvini e la pelle lattea, quasi immateriale.  L’intento non è però quello di descrivere una scontata figura di debole principessa in difficoltà, quanto di esprimere graficamente il ruolo pensato per lei dalla madre: quello di vuoto contenitore, entità pensata solo in funzione di qualcosa e non come rispondente a una propria personalità.

Ueda si concentra in maniera maniacale sul rapporto tra i due ragazzini, sviluppandolo però mediante una scelta di design desueta: la coppia non può comunicare verbalmente, poiché i protagonisti non comprendono le rispettive lingue, e di conseguenza la comunicazione passa attraverso il linguaggio del corpo, delle azioni, dei gesti. Tradotto con una terminologia videoludica: attraverso le animazioni.

Ho amato l’animazione. Mi piaceva creare piccoli flipbook animati. Non ho mai compreso appieno la distinzione tra animazione completa e animazione parziale, ma pensavo fosse eccezionale che, nell’animazione, non ci si concentrasse solo sull’ottenere una singola bella immagine. Infatti, quando guardi un singolo fotogramma animato, questo potrebbe anche non essere disegnato molto bene, ma quando vengono assemblati tutti insieme e animati fluidamente, il risultato diventa eccezionale”.

Schizzi di alcune animazioni in Ico.

Per Ico il designer ha preferito rinunciare allo standard industriale del motion capture optando invece per animazioni disegnate a mano. Non persegue dunque la fedeltà fotorealistica della riproduzione, favorendo invece un approccio “emotivo”, capace di suscitare l’empatia del giocatore nei confronti dei protagonisti: tanto è irreale, misterioso e fantastico il mondo di gioco, quanto è credibile, ingenuo e naturale il rapporto che si instaura tra i protagonisti. Vedere come Yorda si spaventa ogni volta che Ico salta nel vuoto e agguanta all’ultimo un appiglio, o notare come i due corrano in modo sgraziato ma credibile per bambini della loro età, contribuisce ad aumentare l’immersività del giocatore, che con l’avanzare delle ore di gioco diventa sempre più propenso a credere alla “realtà” del loro rapporto.

Rispetto ad altri titoli incentrati sulla collaborazione tra i personaggi di gioco, come l’acclamato The Last of Us, Ico spicca ancora una volta per originalità: se nell’avventura post-apocalittica di Naughty Dog la giovane Ellie, mimando le dinamiche di un racconto di formazione, acquista uno spessore e una presenza crescenti quanto più si avanza nella trama (tanto da meritarsi un eccellente DLC interamente dedicato a lei), nella fiaba di Ueda non si arriva mai a toccare un tale livello di consistenza, e fino all’ultimo tutto resta precario, pericolante; Ico è un mondo di ombre, in cui si ha sempre il terrore di poter scomparire. La relazione tra il giovane dalle piccole corna e la principessa diafana è preziosa proprio perché appare così facilmente incrinabile, risultando al contempo lieve e fragile.

In questo sistema di rappresentazioni, il mondo di gioco rappresentato dal castello-fortezza assume un ruolo fondamentale. Effettivo quarto personaggio della storia, questo si caratterizza in opposizione ai due protagonisti: piccoli, giovani e smarriti loro, imponente, decadente e apparentemente inestricabile lui. Manifestazione diretta del desiderio vampiresco di sopravvivere della Regina, il maniero è un titanico e alienante agglomerato di rovine, torri e strutture che riportano alla mente sia le Carceri d’invenzione di Piranesi, sia le trappole labirintiche di Escher, al cui interno si muovono coloro che si oppongono ai tentativi di fuga del giocatore: le ombre.

Incisione di Giovanni Battista Piranesi, Canopo, Villa Adriana.

Durante il gioco si scopre che le ombre, gli avversari incontrati da Ico, sono in realtà i predecessori del protagonista: l’assunzione della forma umbratile è infatti il destino dei sacrificati alla Regina delle ombre. Il Castello si definisce allora come una sconfinata prigione arcana, in cui si muovono esseri derelitti, privati non solo della vita ma anche dell’anima. Una condizione concettualmente simile – seppur declinata secondo un’estetica diversa – alla Yharnam di Bloodborne, la città dagli spaventosi edifici gotici in cui gli ultimi discendenti della “stirpe del cacciatore” organizzano le loro battute di caccia tra demoni e abominii lovecraftiani. Infatti, per quanto il titolo di FromSoftware presenti caratteristiche molto più crude, violente e macabre, rispetto all’opera di Ueda, in entrambi i casi ci troviamo di fronte ad abbacinanti “sacelli” oscuri, sospesi in una dimensione di cui non si riconoscono le coordinate spaziotemporali e in cui ci si sente continuamente braccati, prigionieri di un’entità più grande di noi.

La Yharnam di Bloodborne.

Nonostante la patina leggiadra e fiabesca, in Ico Ueda sviluppa un discorso personale sulla violenza e sulla crudeltà. Un argomento, questo, che però acquisterà un peso specifico superiore solo nel suo secondo lavoro, che uscirà a quattro anni di distanza dalla sua opera prima, nel 2005.

La crudeltà del rinascere
Shadow of the Colossus non muove da presupposti narrativi troppo dissimili da Ico: anche in questo caso ci si trova a controllare un giovane protagonista (Wander) deciso a salvare una ragazza (Mono). Stavolta, però, la situazione precipita fin da subito: Mono è morta, e nell’introduzione vediamo Wander portare il suo corpo in un santuario, adagiarlo su un altare, e supplicare un’entità soprannaturale di riportare in vita la sua amata. Dormin, questo il nome della divinità, rivelandosi solo attraverso la voce, gli risponde che assolverà alla sua richiesta a patto che lui distrugga le sedici statue presenti nella sala dell’altare; per farlo, il giovane dovrà setacciare le Terre dimenticate, in groppa al fido destriero Agro, alla ricerca di sedici Colossi che rappresentano l’incarnazione di ogni statua e che pertanto vanno uccisi.

Non sarà un’avventura

Ueda replica il consolidato scheletro narrativo esile, dalla chiara impronta mitica, ma stavolta calca ancora più la mano sul senso di straniamento comunicato al giocatore. Avanzando sulla pelle di un colosso dopo l’altro, di un assassino dopo l’altro, il giocatore è portato a riflettere sul suo effettivo operato di gioco: SoC infatti è fin da subito chiaro nel ripartire i ruoli, e noi, in quanto interpreti della volontà di Wander, siamo l’aggressore. Siamo noi che per interessi personali cerchiamo e uccidiamo altri esseri viventi.

In parallelo fa nuovamente la sua comparsa, in una versione ancora più accentuata, la dialettica tra luce e ombra: innanzitutto, per trovare i Colossi, Wander deve seguire la strada indicata dal raggio di luce emanato dalla sua spada; poi, una volta trovati, li deve colpire in punti deboli dai quali poi sgorgano copiosi fiotti di sangue nero, quasi dei grumi di ombre condensate; infine, una volta abbattuti, tentacoli oscuri fuoriescono dal corpo dei titani e si riversano nel protagonista, provocando in lui una corruzione estetica – che simboleggia quella morale – che si manifesta tramite l’impallidimento inesorabile del protagonista.

Ueda dissemina l’esperienza di gioco con i semi di una rivelazione finale che ribalta, di fatto, il valore delle precedenti azioni: Dormin non è una divinità benevola, bensì un demone le cui parti costituenti erano state smembrate e sigillate all’interno dei Colossi; uccidendoli, Wander gli permette dunque di ricomporsi e, una volta libero, di prendere possesso del protagonista. Nelle battute conclusive, sopraggiunge un compagno di Wander che aveva seguito il suo amico temendone le intenzioni e all’ultimo riesce a fermare la reincarnazione di Dormin, senonché per farlo è costretto a sacrificare il ragazzo, che finisce imprigionato in una vasca-bara appena prima che il ponte di collegamento tra il santuario e le Terre dimenticate crolli.

Non stai molto bene fra’, ti vedo bianco.

Scegliendo un finale così oscuro e pessimista, il designer giapponese recupera un’iconografia cara all’animazione nipponica, in cui alla corruzione spirituale si accompagna quella fisica: oltre alla celebre Principessa Mononoke (1997), per citare un esempio più recente si potrebbe nominare l’ultima pellicola di Mamoru Hosoda, The Boy and the Beast (2015), in cui Ichirouhiko, rivale nonché riflesso speculare del protagonista Kyuta, viene assimilato da una “sfera nera di vuoto”, che gli cresce in corpo come se fosse un tumore, in maniera direttamente proporzionale al suo abbandono animalesco a una violenza irrazionale.

Se il tema quindi è battuto dalle produzioni d’intrattenimento nipponiche, l’unicità di Shadow of the Colossus risiede nel modo in cui questo viene proposto: Ueda lavora per sottrazione e, anziché ostentare un messaggio seguendo forme didascaliche come dialoghi e recitazione, lo trasmette attraverso l’ambiente. La sofferenza dei Colossi feriti da Wander è visibile, così come lo è l’aridità di un mondo di gioco desolato e solitario; un fattore, questo, ulteriormente sottolineato dalla perdita, nelle battute finali, dell’unico compagno di viaggio avuto fino ad allora, il fedele cavallo Agro. La sessione di gioco si porta quindi appresso un carico di tristezza, angoscia e inquietudine, depauperando l’individuo dietro il joystick da ogni proposito bellicoso; la violenza, lungi dall’essere celebrata, viene fatta assaggiare insieme a tutto il suo gravoso carico di dolore.

L’unica concessione alla speranza è data nel finale, e giunge come un sollievo: Dormin, nonostante la natura maligna, ha comunque mantenuto la promessa e adesso Mono è viva, come anche Agro, rimasto sì ferito, ma non a morte. Inoltre, passeggiando in prossimità del luogo in cui Wander/Dormin è stato sigillato, Mono scopre un infante con due piccole corna sulla testa – proprio come Ico – e, dopo averlo preso in braccio, giunge insieme ad Agro in un simbolico giardino radioso, in cui il gioco si conclude.

Il ragazzo e Trico, i protagonisti di The Last Guardian

Cosa aspettarsi dall’Ultimo Guardiano?
Marco Belpoliti, nel tentativo di sintetizzare uno storico saggio di uno dei più rivoluzionari designer italiani del Novecento, Artista e designer di Bruno Munari, scrive su Doppiozero: “La fantasia altro non sarebbe che una ‘facoltà dello spirito di inventare immagini mentali diverse dalla realtà nei particolari e nell’insieme, immagini che possono anche essere irrealizzabili praticamente’. La creatività è invece ‘una capacità produttiva dove fantasia e ragione sono collegate per cui il risultato che si ottiene è sempre realizzabile praticamente’. Insomma, la prima è libera ma non concreta, la seconda invece concretissima. La fantasia vola nel cielo, la creatività si muove sulla terra. Di più: nella fantasia non c’è la ragione, così che l’artista vede quello che pensa – pagine prima ha parlato delle ‘visioni’ come effetto delle droghe tipico dell’artista romantico – mentre il designer non vede proprio niente: ‘non sa che forma avrà l’oggetto che sta progettando finché non avrà risolto e armonizzato creativamente tutte le componenti del problema’. Il risultato finale è sempre una sorpresa”.

Sia in Ico che in SoC, Ueda ha dato ampia prova di saper coniugare una direzione artistica ispirata a un game design concreto, coerente ed efficace. Se di poesia si vuol parlare, dunque, allore è giusto intenderla come una lirica dell’essenziale; del contenuto prima della forma, non viceversa. Dalle anteprime viste finora The Last Guardian sembra muoversi nel medesimo solco, puntando fortemente sull’aspetto emotivo del gioco e mostrando un’attenzione certosina per la caratterizzazione materica, ancor prima che narrativa, dei suoi protagonisti: di nuovo due, anche se stavolta la coppia è composta da un bambino e da una gigantesca bestia a metà tra un gatto e un uccello, e di nuovo – a quanto pare – soli in un mondo caratterizzato da strutture tanto maestose quanto alienanti.

Il risultato finale, per dirla alla Munari, sarà una sorpresa, ma da questo designer semplice non ci aspettiamo niente di meno di una bellissima sorpresa.

Iago Menichetti
Iago Menichetti è nato a Pisa nel 1989. Redattore freelance, collabora con Altri Animali ed è membro del collettivo di scrittori “Spaghetti Writers”. Nonostante i numerosi tentativi, non è mai riuscito a disintossicarsi realmente dai videogiochi.

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