Da una parte c'è la morsa della crisi economica, dall'altra il boom dei guru digitali che sembrano avere una risposta a tutto. Nel mezzo arriva al cinema il primo film italiano sul mondo delle startup.
È stato un cambiamento di paradigma lento e strisciante ma finalmente possiamo annunciarlo senza paura di essere smentiti. Il giovane imprenditore tecnologico (capitano d’azienda, startupper, team leader: chiamatelo come preferite) è ufficialmente la nuova incarnazione del successo a livello mondiale. Nel corso degli anni ha saputo sconfiggere la concorrenza degli stereotipi rivali come quello dell’attore (bello ma stupido), o dello sportivo (ricco ma stupido). Grazie al lobbying di pellicole agiografiche come The Social Network o alla più recente parabola del fondatore di Snap, Evan Spiegel, lo startupper si è saldamente piazzato in cima al podio dell’immaginario collettivo. Proprio Spiegel con i suoi 26 anni, un patrimonio di circa 4 miliardi di dollari e la top model Miranda Kerr come fidanzata è l’incarnazione stessa del concetto di successo capitalista contemporaneo.
I social network e la tecnologia facilitano e velocizzano la diffusione di stereotipi e valori, così oggi anche l’Italia è pronta a presentare ad un pubblico mainstream la figura dell’imprenditore tecnologico come nuovo modello di riferimento. La palla è già passata dalla stampa specializzata direttamente al grande schermo cinematografico. La notizia di questi giorni è l’arrivo nelle sale italiane per il 6 aprile di un film minacciosamente intitolato The Startup. La sceneggiatura è basata sulla vera storia di Matteo Achilli, giovanissimo imprenditore italiano fondatore di Egomnia, piattaforma che promette di rivoluzionare il concetto di recruiting online. In molti avevano parlato di Achilli come dello “Zuckerberg italiano” sottolineando il suo coraggio nel “rimanere in Italia mentre gli altri scappano”. Più di così potrebbe solo accadere che una velina televisiva si sposi con un programmatore brufoloso ma forse per questo passo estremo ci vorrà ancora qualche stagione.
Come sempre la creazione di un nuovo pantheon porta con se la nascita di una florida letteratura in grado di supportarlo. Sia in Italia che negli Usa gli scaffali delle librerie sono invasi da una moltitudine di volumi dedicati al “miglioramento personale” per raggiungere risultati che – a ben vedere – sono a portata di mano perché tutto quello che serve è “avere la giusta mentalità”. Il più interessante tra gli autori americani si chiama James Altucher: 49 anni, imprenditore seriale, da qualche anno ha creato la sua fortuna attraverso una fitta produzione di podcast e una lunga serie di libri che insegnano appunto a diventare “imprenditori di se stessi”. Il suo ultimo Reinvent Yourself è uscito questo gennaio ed è il sequel del suo bestseller Choose Yourself pubblicato invece nel 2013. Basta dare un’occhiata ai titoli dei capitoli del libro per capire il tono e il target commerciale: “Come scegliere se stessi”, “Trovare il proprio scopo nella vita”, “Fallo e basta”, “Come diventare una macchina sforna-idee”, “Ghandi ha scelto se stesso e ha liberato un’intera nazione”. Giuro: quest’ultimo non me lo sono inventato. A parte questo il lavoro di Altucher come scrittore riesce nel difficile obiettivo di rimanere in bilico sulla soglia della credibilità. I suoi testi vantano la prefazione di Dick Costolo, fondatore di Twitter, e in molti riconoscono l’energia e l’intraprendenza del personaggio che di recente è tornato all’onore delle cronache per aver scelto di vivere possedendo solo 15 oggetti.
Sia in Italia che negli Usa gli scaffali delle librerie sono invasi da una moltitudine di volumi dedicati al ‘miglioramento personale’.
Per quanto riguarda l’Italia è difficile che negli ultimi mesi non vi siate imbattuti in uno dei video di Marco Montemagno. Il suo Codice Montemagno pubblicato da Mondadori sempre a gennaio è andato esaurito ancora prima dell’uscita in libreria. Successo spettacolare o trovata di marketing poco importa: Montemagno con i suoi brevi video giornalieri è riuscito ad ammassare un’imponente community online (più di 300mila fan su Facebook) che ogni giorno segue i suoi consigli video su come “Convincere chiunque a fare qualsiasi cosa”, “Comunicare in modo autorevole” o addirittura “Essere felici”. Come spesso accade nel nostro Paese davanti al successo di un’idea in molti si sono affrettati a criticare i modi da imbonitore televisivo o il contenuto del libro che si limita quasi totalmente a riportare i testi delle clip già pubblicate online. Lasciando da parte i giudizi di merito rimane certo l’enorme bisogno che accomuna l’Italia con l’America per prodotti di questo tipo, percepiti da tanti come gli unici antidoti possibili al nuovo confuso scenario lavorativo e ideologico.
Ovviamente la realtà dello sviluppo tecnologico e imprenditoriale nazionale è ben diversa dalla rappresentazione spettacolare ricreata all’interno dei panel nelle convention, nei folgoranti “webinar” online o nei trailer cinematografici. Solo l’altro giorno il “Digital economy e society index” (Desi) ha collocato l’Italia terzultima tra le nazioni europee ricordandoci che il nostro è un paese in cui un terzo delle persone sostanzialmente non usa internet. Indugiare ora sul nostro spaventoso tasso di disoccupazione e sulle sinistre congiunture economiche internazionali servirebbe soltanto a rigirare il coltello nella piaga di un corpo già morente: il nostro. Quello che interessa è invece mettere in correlazione il fiorire del mercato della formazione online di stampo “soluzionista” (mutuando la definizione del giornalista Evgeny Morozov) con il progressivo stagnamento della situazione economica internazionale. Banalmente più siamo confusi e spaventati e più abbiamo bisogno che qualcuno ci indichi la via d’uscita che, contro ogni logica, pare sia quella di fondare un’improbabile startup.
No pain no gain, dicono i personal trainer in palestra. Ma anche tanti esperti del digitale coltivano una morbosa attrazione per il dolore e il fallimento. Sia Altucher che Montemagno vengono da una lunga serie di disfatte imprenditoriali e lavorative da cui – insistono – hanno tratto infiniti insegnamenti che ora sono pronti a condividere con noi. “Stavo per morire. Il mercato era scoppiato. Internet era scoppiata. Nessuno rispondeva alle mie chiamate, non avevo amici. Non sapevo se stavo per aver un attacco di cuore o mi sarei dovuto uccidere”. È con queste parole che inizia Choose Yourself di James Altucher che racconta dettagliatamente il modo in cui è riuscito a dilapidare le fortune accumulate. “Sto parlando del 2002 ma sarebbe potuto essere anche il 2008: l’anno in cui persi la casa, la famiglia, gli amici, i soldi e il lavoro”. Lo stesso Montemagno non si nasconde dietro un dito e in uno dei suoi ultimi video ammette: “Ogni volta che mi sono trovato senza lavoro non è stata una passeggiata di piacere” e spesso ricorda come sia passato dall’essere conduttore di Sky a imprenditore col network Blogosfere (poi venduto al Sole 24 Ore) fino al trasferimento a Brighton in Inghilterra dove risiede ancora oggi.
Ad aver teorizzato il rapporto tra successo e fallimento in questa società ossessionata dalle startup ci aveva già pensato Peter Thiel. L’imprenditore ugualmente famoso per aver fondato Paypal (prima) ed essere consigliere tecnologico di Donal Trump (poi) ha affrontato l’argomento nel 2012 durante una lezione all’Università di Stanford. Al centro della sua riflessione c’è il concetto di “capro espiatorio” mutuato dal lavoro di René Girard ma traslato nel contesto delle società tecnologiche. Qui il CEO è un vero e proprio Re che è necessario periodicamente rovesciare con qualunque mezzo. Il fallimento è dunque elemento essenziale del successo, tra i due concetti esiste un rapporto di reciproca dipendenza che, come ricorda Thiel, è chiaro sin dall’antichità. “Secondo Aristotele la tragedia serviva proprio a ridurre la rabbia della gente comune contro le persone più in vista. La lezione di qualunque tragedia è che anche i migliori hanno i loro difetti. Tutti prima o poi cadono. Era davvero catartico per la gente comune vedere accadere cose terribili a persone straordinarie, anche se solo in una messa in scena. Le tragedie erano strumenti politici che trasformavano l’invidia e la rabbia in pietà. I cittadini dunque si ritiravano soddisfatti nelle loro piccole case invece che ribellarsi contro le classi agiate”.
Il fallimento è considerato naturale finché è quello di qualcun altro. Ma il soluzionismo tecnologico fornisce risposte: una miriade di app per il miglioramento personale, consulenti connessi da remoto, tutorial su WikiHow.
Chi ha approfondito lo strano rapporto tra la promessa di abbondanza della tecnologia e la rabbia ancestrale insita nella natura umana è l’artista e ricercatore Silvio Lorusso. Già nel 2014 col divertente progetto Kickened aveva raccolto tutti i crowdfunding di Kickstarter che non erano riusciti a superare il loro obiettivo venendo inesorabilmente “cassati”, spesso in maniera spettacolare. Il suo saggio sull’estetica del fallimento parte proprio dalle riflessioni di Thiel approfondendone le intrinseche contraddizioni: “Oggi la migliore narrazione a proposito del successo è quella prodotta nell’universo delle start up e nel mondo dell’imprenditorialità. Qui paradossalmente il fallimento e il successo si mescolano. Imprese di successo adottano il linguaggio della cooperazione e dell’inclusione per fare del mondo un posto migliore, ma per raggiungere questo obiettivo devono per forza di cose sconfiggere la concorrenza. Il fallimento è considerato naturale finché è quello di qualcun altro. Dove trovare dunque sollievo? Ovviamente il soluzionismo tecnologico fornisce risposte: una miriade di app per il miglioramento personale, consulenti connessi da remoto, tutorial su WikiHow”.
Una di queste ultime catarsi collettive è avvenuta con la discussione pubblica riguardo la lettera lasciata da Michele, il ragazzo friulano che ha deciso di suicidarsi ad appena 30 anni. Sono stati i suoi genitori a volerla diffondere online sostenendo che loro figlio fosse stato in qualche modo “ucciso dal precariato”. Una semplificazione perdonabile a chi sta affrontando un dolore del genere, ma che tradisce la necessità di trovare un colpevole unico e facilmente individuabile a cui addossare ogni responsabilità. Lo stesso Michele nella sua lettera parla di una “realtà sbagliata” in cui non si può “pretendere un ambiente stabile”. Proprio perché in tanti si sono riconosciuti nelle sue accuse (o vi hanno reagito con una rabbia uguale e contraria) per qualche giorno questa triste storia è stata la tragedia condivisa su cui un’intera nazione ha potuto sublimare le proprie paure. Prima di tutto quelle riguardo il nostro travagliato rapporto con lo stesso concetto di lavoro e subito dopo l’incapacità di reagire a questa situazione di instabilità diffusa.
Per trovare risposte alla prima domanda ci vengono in aiuto le parole di un altra persona che recentemente ha deciso di togliersi la vita. Lo scrittore Mark Fisher ha saputo riflettere prima e meglio di altri sul conflitto tra individuo e società e sulle problematiche legate al concetto di realizzazione personale. Per farlo ha utilizzato anche il concetto di “volontarismo magico” coniato dal terapeuta David Smail. Scriveva Fisher: “Una delle tattiche di maggior successo della classe dirigente è stata la ‘responsabilizzazione’ del singolo individuo. Ogni singolo membro della classe subordinata è incoraggiato a credere che la sua povertà, la mancanza di opportunità, o la disoccupazione, siano colpa sua e solo sua. Gli individui incolpano se stessi piuttosto che le strutture sociali. E in ogni caso sono indotti a credere in una realtà che non è. Ciò che Smail definisce il “volontarismo magico” – cioè la convinzione che ogni persona ha il potere di diventare ciò che vuole essere – è l’ideologia dominante e la religione non ufficiale della società capitalistica contemporanea, sostenuta sia da “esperti” dei reality televisivi sia dai guru del business sia dai politici. Il volontarismo magico è sia l’effetto che la causa del più basso livello di coscienza di classe che la storia ricordi. È l’altra faccia della depressione – la cui convinzione di fondo è che noi siamo gli unici responsabili della nostra miseria e perciò la meritiamo”.
Per molti il successo dei libri di auto-aiuto, dei video tutorial online e degli altri prodotti editoriali di questo genere sono la risposta motivazionale e tecnocratica alla pulsioni populiste della politica.
Quella di Fisher è una prospettiva fosca che si fonda però su un elemento incontrovertibile: la dissoluzione di qualunque genere di identità di classe. La nebulizzazione del mercato del lavoro così come lo conosciamo ha portato con sé anche quel senso comunitario e di solidarietà che erano parte integrante di una certa idea di lavoro ora scomparsa. Quello che rimane è la nostra assoluta solitudine davanti a sfide che ci sembrano ansiogene e insormontabili. Montagne da scalare con il solo supporto di buzzword come “personal branding” e “digital trasformation”. Come ripararsi con l’ombrello quando fuori arriva l’uragano.
Visioni apocalittiche che sembrano l’antitesi della filosofia dei guru digitali per cui “volere è potere”. Esperti a cui siamo però costretti a tornare per trovare la soluzione alla seconda questione e provare a superare questa situazione di perenne instabilità. Per molti il successo dei libri di auto-aiuto, dei video tutorial online e degli altri prodotti editoriali di questo genere sono la risposta motivazionale e tecnocratica alla pulsioni populiste della politica. Proprio come Trump o Beppe Grillo anche i guru digitali si rivolgono principalmente a chi non ce l’ha fatta (gli altri non hanno bisogno di loro), a chi si sente fregato dal sistema e coltiva una profonda voglia di rivalsa. Nei loro elaborati si semplificano questioni complesse proponendo soluzioni che possano stare all’interno di un video da 6 minuti o in un podcast da 30. Il “selling point” di questa industria motivazionale è la ricetta per un successo imprenditoriale che nessuno di loro è stato in grado di costruire perché altrimenti sarebbe il loro impegno principale al posto della creazione di contenuti di questo tipo. Proprio come un partito perennemente all’opposizione continuano a rifiutare di applicare le proprie ricette di buon governo preferendo mantenersi in uno stato di perenne transizione. Questo fa di loro degli osservatori privilegiati mai veramente coinvolti nella materia di cui discutono.
Ogni grande startup si autodefinisce una “beta” continua, un’evoluzione senza fine che permette alla piattaforma di adattarsi al mutevole scenario tecnologico che resta destinata a non giungere mai a uno stato di completezza finale. Questa scaltra strategia di sopravvivenza basata sulla continua transizione funziona per chi si occupa di tecnologia e per chi la produce. Ma soprattutto deve valere per noi che la consumiamo e ne dobbiamo trarre profitto, evitando di finire col vestire i panni dell’animale immolato per il bene comune. Citando ancora una volta le parole di Peter Thiel a Stanford: “Il segreto per evitare di diventare il capro espiatorio è quello di prolungare il momento della fondazione, la chiave è quella di incoraggiare e raggiungere l’innovazione perpetua”.
Giornalista e autore video ha lavorato per MTV e Wired Italia. Per Indiana Editore ha scritto il libro dedicato alla cultura digitale Atlante delle cose nuove. Pensa di essere un ottimo ballerino, ama fare il DJ ai matrimoni.