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Perché dietro ad ogni grande uomo c'è una pessima sceneggiatura: il problema delle donne nei biopic.

Si sa: come avvoltoi, i membri dell’Academy disegnano cerchi concentrici intorno a una precisa selezione di film. Sono i film dei temi. Di quali temi si tratti non ha importanza, purché siano drammi umani incredibilmente toccanti nell’acqua tiepida della trama in cui, solitari, galleggiano.

Quella dei temi è una pratica talmente consolidata che è diventata una battuta ricorrente tra gli spettatori più perspicaci (o, se si vuole, i più cinici). Ne ha preso atto Robert Downey Jr. in Tropic Thunder, ne ha preso atto Kate Winslet, interpretando se stessa in Extras: «Non è che abbiamo bisogno di un altro film sull’Olocausto […] Io lo faccio perché ho notato che, se fai un film sull’Olocausto, hai l’Oscar assicurato». Ironicamente, quattro anni più tardi Winslet avrebbe vinto il suo primo Oscar per The Reader, un film sull’Olocausto.

Una delle sottocategorie più care tra i film di temi, salvaguardata come un gorilla di montagna, è quella del genio tormentato. È una categoria a sé, quella del genio, e a buon titolo. Non soltanto perché un buon genio tende ad attirare, quasi senza sforzo, un film biografico e, per ogni film biografico, c’è un membro dell’Academy con gli occhi inumiditi pronti a sgorgare lacrime. Negli ultimi dieci anni, undici oscar su venti sono stati ricevuti da attori e attrici di biopic; 38 i “migliori attori” e le “migliori attrici” nominati per avere interpretato persone realmente esistite.

In modo ancora più significativo, la storia del genio è accolta con tanto entusiasmo perché è l’archetipo delle sceneggiature perfette, quelle che seguono alla regola la struttura inizio-sviluppo-finale. Meglio ancora se la sceneggiatura attraversa l’intera esistenza del genio, perché + ore di genio sullo schermo = + lagrime quando qualche evento tragico si verifica. Ed è inevitabile che si verificherà. La storia del genio implica un’infanzia difficile, la lotta interiore, Stephen Hawking, il superamento dell’incomprensione dei propri simili o delle proprie costrizioni fisiche, l’isolamento, Stephen Hawking, la creatività attratta e pervertita dalle droghe, dall’alcol, dall’impulso autodistruttivo. Soprattutto, la storia del genio implica una donna e tutto il suo amore.

Love & Mercy, 2014.

“Tutto il suo amore”
Lo insegna la cultura popolare, con quel detto sul grande uomo e la grande donna; lo diceva Charles Rennie Mackintosh – l’architetto che ha dato forma a Glasgow – di sua moglie, l’artista Margaret MacDonald: “sei in metà se non in tre quarti dei miei lavori architettonici”. La narrativa hollywoodiana ama le buone storie d’amore almeno quanto ama le mediocri storie d’amore. L’armonia nata dall’intesa intellettuale di due anime affini non può che essere un elemento di cui nutrire la storia del genio. Ora, buttate casualmente lo sguardo sugli occhi degli executive di Hollywood? Umettati? Proseguiamo.

Il genio è un giovane uomo promettente, un campo magnetico di potenziale. Ma è incompleto. Entra in scena un personaggio femminile. Avvenente, nel fiore degli anni, di un’intelligenza superiore alla media.

Quando un genio viene ricompensato con la donna che gli spetta, lo spettatore viene gratificato da una parata di fuochi artificiali, notti stellate, baci di fronte a panorami mozzafiato. Riflettono lo stato interiore del giovane genio, finalmente innamorato, e della sua giovane compagna, che ricambia.

Eccolo, il primo che comincia a tirar su col naso. Ignoriamolo per il momento.

Quando un genio incontra una donna, davanti a lui si formano nuove prospettive inattese. La compagna ha aperto la strada a un nuovo tipo di intelligenza: l’intelligenza dei sentimenti. Ciò che ne consegue è un nuovo eccitante turbinio di scoperte scientifiche e/o artistiche per il genio. “L’amore è il carburante dei cervelli,” direbbe Paulo Coelho, pulendosi lo spazio tra le dita dei piedi.

Offrendo il suo amore, la musa del genio gli permette di accedere a dimensioni altre. Come dicono a Livorno, la fia ci fa, la fia ci sfa.

[Una nota: la rilevanza dell’innamorata non ha eguali in senso narrativo. Tuttavia, per par condicio, gli sceneggiatori concedono il ruolo di ispiratrice di invenzioni sia alla donna angelo sia alla donna comune. In pratica, nei loro film assistiamo a una sfilata di apparizioni fantasmatiche da parte di personaggi femminili che, per amore, per desiderio, o per il semplice fatto di fare cose da donne, ispirano i geni. Da una parte, sono schierati i vari John Nash che fanno la propria scoperta degna di Nobel perché stanno pensando di scoparsi una bionda qualsiasi; i vari Alan Turing che pongono fine a una guerra mondiale mentre osservano gente flirtare (gli altri capivano che era un flirt, ma Alan, quello Sheldon che non è altro, comprende solo il significato superficiale delle parole). Dall’altra parte c’è l’amore puro di Stephen Hawking che specula sulla creazione dell’universo roteando per i prati di Cambridge con il suo amore e poi teorizza la visibilità dei buchi neri mentre lei gli sfila il maglione; di Johnny Cash, che non sa funzionare se non è in tour con June Carter; di Ray Charles, che trova la sua voce dopo che la sua anima gemella dal bel polso gli dice “Devi trovare la tua voce”.]

La teoria del tutto, 2014.

Ma torniamo a concentrarci sul secondo tipo: la donna-angelo. Dopo la parata di fuochi artificiali, in cambio dell’ispirazione che offrono e in qualità di uniche che lo comprendono, le donne del genio si trasformano nella sua unica, indefessa, generatrice di cure e attenzioni. Sono le incoraggiatrici di geni. Come gli spingitori di cavalieri, sono lì per ricoprire una specifica funzione.

Come per ogni personaggio secondario che si rispetti, le loro azioni sono connesse o dipendono da quelle del protagonista. Come per ogni personaggio secondario scritto maldestramente, il loro panorama interiore gravita unicamente attorno a pochissimi sentimenti. Possiamo incolpare di tutto questo gli sceneggiatori e i produttori di Hollywood? In verità sì. Se guardiamo agli ultimi quindici anni, possiamo ricondurre il successivo malgoverno a un momento preciso della storia del cinema:

John Nash che riceve il Nobel per l’economia nel 1994. Cercando commosso lo sguardo della moglie Alicia, tra il pubblico, conclude il suo discorso con: “È solo tramite le misteriose equazioni dell’amore che si può trovare logica o ragione. Stasera sono qui solo grazie a te. Sei l’unica ragione per cui sono. Sei tutte le mie ragioni. Grazie.”

Ovviamente, le parole non sono sue. Sono di Akiva Goldsman, uno sceneggiatore. Figuriamoci: alla cerimonia per il Nobel, John Nash si è limitato a ritirare il suo premio, fare un inchino, ed esporre il suo pensiero durante un seminario sulla teoria dei giochi. Nash, matematico rispettato e schizofrenico diagnosticato, non ha mai inneggiato a equazioni dell’amore come il finale di A Beautiful Mind, il film, suggerisce. (Se proprio, la biografia da cui il film è tratto induce a pensare a uno scenario più complesso, come suggerisce il Guardian, anche solo se si pensa all’esempio di Nash che porta Alicia ai picnic universitari per mostrare “di essere il padrone di questa bella, giovane donna” e poi la butta a terra e le pianta un piede sul collo.)

 

Se è vero che le parole non sono di John Nash, è altrettanto vero che il prodotto ha venduto, e una nuova generazione di giovani menti sensibili ha scaldato la propria versione in licenza di Final Draft al fuoco dell’amore senza limiti di Alicia e John Nash.

Lui il genio sognatore, lei la testa sulle spalle
I dati raccolti tra il pubblico, d’altra parte, sembravano dare ragione agli studios. Se gli spettatori stessi segnalano di voler vedere una storia d’amore, perché non dargliela? La ripetizione, tuttavia, genera una serie di cliché. E ciò, inutile dirlo, comporta una serie di problemi.

1) È indubitabile: il genio in sé non è cinematografico. Nessuno va al cinema per vedere un saggio asciuttissimo sulla termodinamica dei buchi neri (per quanto, da queste parti, lo si caldeggerebbe). L’elemento-amore è un utilissimo veicolo narrativo per avvicinarci a un personaggio complesso e potenzialmente impenetrabile: a Hollywood piacciono i pesonaggi semi-Aspergici? Ok, diamogli un elemento relazionabile – una relazione affettiva! Tutti ci siamo innamorati almeno una volta nella vita, no? No? Il guaio è che l’espediente visivo e sentimentale sminuisce le intuizioni dei nostri più grandi pensatori riducendole a una brodaglia sciapa “per le masse che capiscono solo il linguaggio del desiderio”. Chi stiamo prendendo in giro? Le masse sono disposte a capire un altro linguaggio, ma nessuno glielo offre. Il ragionamento logico può essere sexy almeno quanto Jennifer Connelly che ti sorride, e se non altro il ragionamento logico non invecchia con una parrucca posticcia male incollata sullo scalpo.

Al polo opposto del ragionamento “diamo al pubblico quello che il pubblico vuole” c’è la scuola di Melvyn Stokes e Richard Maltby che, in Identifying Hollywood’s Audiences: Cultural Identity and the Movies, sostenevano che “l’imprevedibilità del pubblico non è soltanto una leggenda. ‘Nessuno sa cosa crei un campione d’incassi, o quando succederà’, poiché il pubblico crea i campioni d’incassi “non rivelando preferenze che ha già, bensì scoprendo cosa gli piace”.

2) Le incoraggiatrici di geni si esprimono in un solo registro, l’unico che – con supponenza – lo sceneggiatore hollywoodiano presume che il pubblico comprenda: l’amore. La donna entra in scena per mostrare al genio una qualche rivelazione, è l’agente del caos che risolve problemi senza l’uso della logica ma con un impervio acume sentimentale: mentre John Nash si tormenta per le visioni scatenate dalla sua schizofrenia, Alice lo conforta carezzandogli il volto e dicendogli “Vuoi sapere cosa è reale? Questa” [la carezza, NdR].

Precedentemente, gli spiega l’amore equiparandolo alla sua convinzione, non scientificamente confermata, che l’universo sia infinito. Come l’amore. Stranamente, però, sebbene l’unico linguaggio che queste donne sembrano comprendere sia il linguaggio della cura dell’altro, e sebbene nell’economia del film abbiano pochissimo in comune con il genio, continuano a essere definite – dai protagonisti dei film – proprie degne pari.

“Sei eccezionalmente strana,” dice John Nash ad Alice per assolutamente nessun motivo sotto un cielo stellato. È strana? Difficile a dirsi. Fino a questo momento, abbiamo capito a malapena chi lei sia.

L'incoraggiatrice di geni è eccezionale solo a detta del genio. Se avessimo la mente analitica dei protagonisti del film, diremmo che il film non ci dà abbastanza prove per verificare una tesi solida sull'unicità di questa donna.

È il peggior esempio di sceneggiatura pigra, quello di gridare addosso a un personaggio quello che si vuole che il personaggio sia, soltanto perché non si è in grado di renderlo vero in altro modo. Chiamiamolo, per comodità, il principio Seth MacFarlane: in Un milione di modi per morire nel West, al protagonista viene continuamente ripetuto “sei un bravo ragazzo”; “sei troppo buono per questa città”; “sei così buono”. L’abbiamo visto mai essere buono, bravo, un cittadino esemplare? Nah. Sceneggiatura pigra: se mi dicono che sono qualcosa, allora dev’essere vero.

Allo stesso modo, secondo il principio Seth MacFarlane, l’incoraggiatrice di geni è eccezionale solo a detta del genio. Se avessimo la mente analitica dei protagonisti del film, diremmo che il film non ci dà abbastanza prove per verificare una tesi solida sull’unicità di questa donna.

Non è un problema esclusivamente femminile: ne La Vie En Rose (un film prodotto al di fuori del sistema Hollywoodiano) Marcel Cerdan rappresenta per Édith Piaf la stessa cosa: un rifugio sicuro dalle angherie della vita. Gli esempi femminili in questa categoria, però, sono preponderanti. Ciò è dovuto al fatto che, come si sa, non esistono geni femmina. Solamente geni maschi, bianchi, preferibilmente con accento inglese e la conformazione cranica di Zigo Zago.

Anche il personaggio di Joan Clarke (Keira Knightley) in The Imitation Game si trova a un passo dall’essere interessante ma si esaurisce sul finale. Joan Clarke è una donna ingaggiata per un lavoro considerato “da uomo”; si fidanza con un uomo che sa essere omosessuale perché lo rispetta, e perché vuole proseguire nella propria carriera. Alan Turing non le mostra mai le stelle, e i due vivono contenti così. Alla fine del film, però, eccola china su Alan Turing, a ripetergli quanto lei sia normale e quanto lui, non essendolo, abbia cambiato il mondo. Se il suo dialogo è un inno alla diversità, è allo stesso tempo un sinistro dato al suo ruolo nel film. Non abbiamo bisogno di quello scambio di battute a ricordarci dell’importanza di Alan Turing, stabilita da tutto il resto del film. La stessa scena avrebbe potuto svolgersi in completo silenzio, con due battute annegate in un mare di stima infinita tra i due personaggi. Non è andata così. “Avanti, è la retorica da film da Oscar” non è un argomento sufficiente – se è vero che il pubblico non sa ciò che vuole, diamo al pubblico la possibilità di scoprire ciò che gli piace.

The End of the Tour, 2015.

Le cose possono cambiare? Certo che sì. Debuttati ai festival lo scorso anno (e, recentemente, in sala in Italia), due film biografici indipendenti hanno delineato una serie di interessanti variazioni sul tema “genio”.

Li si pronosticava come titoli facili per gli Academy Awards, e invece non sono stati candidati a nulla (se non a un paio di Golden Globe). Entrambi hanno intrapreso l’avveduta scelta di parlare di un solo evento (o due) nella vita del loro protagonista. Entrambi hanno un approccio all’amore piuttosto singolare.

The End of the Tour (o David – Diventare se stessi) si libera del cliché che, per vendere il genio, si debba a tutti i costi costruire la narrativa dell’affetto tra un uomo e una donna. La storia d’amore c’è, ma è molto inconsueta.

Il giornalista David Lipsky segue David Foster Wallace durante il tour promozionale di Infinite Jest: il risultato si situa a metà tra bromance di pura ammirazione, e astio sconfinato. Il film è la manifestazione più vicina a un equivalente contemporaneo de L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, con Wallace sempre più sulla difensiva, e Lipsky sempre più a disagio di fronte a un’intelligenza che non è in grado di smascherare.

The End of the Tour è, nei fatti, una serie di lunghe conversazioni tra i due protagonisti. Il genio non raggiunge alcuna epifania nel corso della storia, e di certo le sue rivelazioni non sono scatenate da un incontro amoroso. Tuttavia, la sua intelligenza traspare dalle sue parole.

 

Poi c’è Brian Wilson. Che, in un certo senso, significa già giocare sporco. Un film sulla creazione di Pet Sounds? Dài. Avessero come sottofondo Pet Sounds, si guarderebbero con meraviglia anche due ore di slideshow di dittatori del mondo.

Il film su Brian Wilson si intitola Love & Mercy e di certo non cambia le carte in tavola nel panorama dei biopic indipendenti. A livello narrativo il film è situato nella Democrazia Cristiana dei film indipendenti, quell’area inamovibile, centrista, in cui molto viene fatto alla stessa maniera di Hollywood, ma con molti meno soldi. Nonostante un abile sceneggiatore (Oren Moverman di Io non sono qui, il biopic astratto su Bob Dylan) e un primo minuto stravolgente (e a schermo completamente nero: guardatelo in un cinema), non c’è molto di innovativo.

Eppure, Love & Mercy è un film interamente finanziato dal proprio regista, dopo anni che il progetto passava di mano in mano e dopo un tragico susseguirsi di film tv tarocchi sui Beach Boys. E questo, per la nostra storia, ha significato.

Affrancatosi dalla zavorra economica dei grandi studi cinematografici, e quindi dall’idea di avere trenta executive arcigni che ti fiatano sul collo urlando “Introiti! Introiti!”, Love & Mercy si prende qualche libertà e attua una minima, chirurgica, riforma ai “film biografici con dentro l’amore”.

Love&Mercy, 2014.

La storia intreccia due momenti della vita del protagonista; nel primo, un Brian Wilson nemmeno venticinquenne comincia a comporre quello che diventerà uno dei migliori dischi di cui l’umanità disponga, Pet Sounds – nel processo, le sue allucinazioni uditive si intensificano, aprendo la strada a una serie di difficoltà psicologiche che affliggeranno il musicista da quel momento in poi. Nella seconda fascia temporale, da Pet Sounds sono trascorsi vent’anni, e Wilson è completamente succube di un losco psicoterapeuta che conduce una terapia alternativa; una terapia che, guarda caso, gli garantisce parcelle astronomiche e l’uso esclusivo di una delle magioni del suo paziente, nonché il controllo più assoluto sulla vita del fondatore dei Beach Boys.

Il centro focale della prima parte del film è indubitabilmente Brian Wilson; il centro focale della seconda parte è Melinda Ledbetter, una donna impiegata in una concessionaria. Brian Wilson la incontra quando va a comprarsi una Cadillac. I due, poco a poco, cominciano una relazione; la donna comincia a rendersi conto della situazione in cui si è ritrovata, dell’entourage che la segue ovunque lei vada, del ridicolo dottore che esige un verbale di tutto ciò che lei e il fidanzato si dicono, e finisce per “salvare” Brian Wilson. Tu quoque, Melinda Ledbetter?

Non proprio: la differenza tra Melinda Ledbetter e gli esempi di cui sopra è sottile, ma percepibile. Innanzitutto, nella seconda parte di Love & Mercy vediamo il mondo quasi interamente attraverso gli occhi di lei. In secondo luogo, Ledbetter non salva Brian Wilson metaforicamente, con le sue cure, le sue attenzioni, il suo potenziale di musa. Sì, il musicista le dedica una canzone e le mostra le stelle, ma fortunatamente non è quello il punto. Melinda Ledbetter salva Brian Wilson letteralmente, con una serie di documenti legali. Il suo linguaggio non è soltanto quello della cura dell’altro, ma è anche quello delle diffide giudiziarie.

Di fronte a un uomo che è stato trasformato nel guscio di se stesso, la futura moglie di Brian Wilson  è l’indubbia protagonista di una buona metà di Love & Mercy, e il cambiamento è piacevole. Non che l’amore non sia importante, ma amore e compassione possono manifestarsi in più di una forma, non sempre quella cui siamo stati abituati.

Laura Spini
Nata a Bergamo, non è la sua omonima Google vittima del raggiro di una santona. Ha tradotto e collaborato per una serie di case editrici e riviste italiane, sulle quali ha scritto di cinema, videogiochi, e pistoleri memorabili.

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