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Cosa sono i live action role play? Potremmo dire che sono la versione adulta del “facciamo che”, un mondo che parte dall’Orlando Furioso e arriva a Game of Thrones.

Nel suo saggio L’istinto di narrare, Jonathan Gottschall attraversa con scioltezza i campi della biologia, delle neuroscienze e della psicologia per portare avanti la seguente tesi: la caratteristica più distintiva dell’essere umano è il suo amore per le storie.

Oltre a parlare di romanzi, cinema e videogiochi, l’autore accenna brevemente anche ai GRV, i giochi di ruolo dal vivo, anche noti come LARP (live action role plays) e li identifica come “un ibrido fra gioco e narrazione […] ci invitano a entrare in ambientazioni finzionali riccamente articolate, non come passivi soggetti immaginanti (come avviene nella finzione narrativa tradizionale) bensì come personaggi attivi”. Leggo e rimugino sull’adeguatezza di questa definizione: se io non sapessi cos’è un GRV, mi basterebbe? Probabilmente no. Tre righe più avanti Gottschall mi frega, usando l’espressione più sintetica e azzeccata che ci sia: un LARP è il “facciamo che” degli adulti.

Definire con precisione il “gioco di ruolo dal vivo” non è facile: più che un fenomeno dotato di senso e caratteristiche unitarie, il LARP è un insieme di singole molteplici esperienze. Stringi stringi, però, la sintesi di Gottschall è abbastanza precisa.

Chi organizza un LARP individua un’ambientazione, uno “spazio narrativo”, e da lì costruisce una storia (per esempio, una storia ambientata a Westeros). Poi, prende uno spazio fisico e lo trasforma nel palcoscenico di questa storia (continuando con l’esempio di Westeros: un castello). A differenza del teatro, qui non c’è pubblico, e la storia stessa non è altro che un abbozzo. Chi partecipa a un LARP veste i panni dell’attore-giocatore, e in quei panni agisce sulla base dell’“input” narrativo iniziale. Fingendosi Lord, Lady e Cavaliere, calati nel ruolo di un personaggio, i giocatori si muovono nello spazio interagendo fra loro e con l’organizzazione. I loro personaggi sono stati invitati per un’incoronazione, ma il futuro re muore: come reagiranno? Chi siederà sul trono? Non è dato saperlo. Saranno le scelte dei giocatori a costruire le conseguenze: la narrativa di un LARP è come un fiore che sboccia, nel quale il contributo degli organizzatori non è che un seme. Il prodotto finale è tanto variabile quanto effimero: ne resterà traccia solo nella memoria dei partecipanti.

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Se il contesto narrativo lo permette, ogni tanto una telecamera può far capolino nel gioco.

Al di là della poesia, quindi, nel nostro LARP-esempio ci sono un tot di adulti in costume che si chiamano a vicenda “Lord” e “Lady”, fingendo per ore di trovarsi ad Approdo del Re. Così banalizzata, l’esperienza è quindi ben descritta dalla formula del “’facciamo che’ degli adulti”. Pur possedendo una maggior complessità, il LARP condivide con i giochi dei bambini le proprie caratteristiche strutturali fondamentali, prima fra tutte l’assenza di un pubblico.

Il LARP è infatti un’esperienza prettamente partecipativa, e richiede quella che Coleridge chiamava “volontaria sospensione d’incredulità”, la stessa forma mentis richiesta al lettore che si approcci a un’opera fantastica. Durante un LARP, per guardare con timore reverenziale un adolescente brufoloso e chiamarlo “sua Maestà”, di sospensione d’incredulità ce ne vuole parecchia; né è possibile mantenerla in presenza di curiosi che sgranocchiano patatine: la performance attoriale del LARP ha un solo pubblico, i partecipanti stessi.

Gottschall prosegue affermando che chi ama questi giochi, pur corrispondendo a una sorta di iper-nerd, non merita di essere preso per il culo. Non perché prendere per il culo qualcuno sia un’attività poco simpatica, ma perché la passione umana per le storie è rappresentata perfettamente da coloro che incarnano “un caso limite del principio di Peter Pan”. Adulti innamorati dell’Isola che non c’è, senza che in questo ci sia nulla di male. Capito, bulletti del cortile?

Va detto che Gottschall sa di LARP molto poco, e solo per riferimenti bibliografici. Il che lo assolve dalla pochezza con cui tratta il tema: da dire c’è molto, molto di più.

Alla ricerca di un’identità
L’esempio di Westeros individua quella che potremmo definire la struttura minima, l’ossatura concettuale del fenomeno: uno spazio narrativo che si sovrappone a uno fisico, lo sviluppo di una narrazione basata sull’interazione fra e con i partecipanti, l’assenza di un pubblico osservatore e non partecipante. Nella ricerca di una definizione unica, però, è impossibile spingersi oltre, poiché ci si scontra con un’intrinseca e ineluttabile poliedricità. Un LARP può durare ore, o giorni. Può svilupparsi secondo eventi singoli e autoconclusivi, o attraverso molteplici eventi collegati dal medesimo filone narrativo (le cosiddette “campagne”): l’uso di Westeros non è casuale, dato che l’universo delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco ha ispirato, in Italia, almeno un esempio per ciascuna tipologia (Dracarys è un live autoconclusivo ad alto budget previsto per il 12 agosto, Fuoco Nero è una campagna in corso da circa tre anni che conta già sedici eventi consecutivi).

A Fuoco Nero c’è anche il fuoco, seppur non proprio nero; foto di Andrea Cesarini.

Un LARP può essere costruito intorno a una storia ben definita, che i giocatori “attraversano” senza poterla influenzare più di tanto; o può essere interamente basato sull’attività creatrice che nasce dal confronto fra i personaggi. Può sfruttare meccaniche meta-narrative che adattino la realtà alla situazione immaginata (“questo bastone di polistirolo, se ha un nastro rosso attorno, è una spada infuocata”) oppure può puntare sul realismo: quel che esiste nella narrazione corrisponde a quel che esiste nella realtà (La Leggenda di Parsifal, altro LARP italiano del 2015, era incentrato proprio sulla totale sovrapposizione fra le due sfere). Ogni organizzatore di eventi LARP ha la propria cifra stilistica, i propri strumenti, le proprie convenzioni: l’ortodossia LARP non esiste.

C’è chi ha provato a schematizzare questa complessità sfruttando una teoria formale nata per il “fratello minore” del LARP, il gioco di ruolo da tavolo (Dungeons & Dragons, per capirci): chi organizza (e chi gioca) un LARP potrebbe preferire un approccio gamista (corrispondente a una passione per la sfida, la competizione e le dinamiche di task resolution), uno narrativista (dove il fulcro si sposta sulla storia e sul suo sviluppo) o uno simulazionista (fanculo tutto il resto, ciò che conta è interpretare il proprio personaggio al massimo della coerenza), sull’assunto che non si tratterebbe di scelte esclusive quanto più di un cocktail fra i tre. Come ogni teorizzazione formale, questa, nota come GNS, lascia il tempo che trova, tra mille infinite declinazioni, teorie concorrenti e pippe mentali del caso. La tripartizione ha comunque il merito di individuare i tre “cuori pulsanti” del LARP: gioco, narrazione e teatro.

In questo mare magnum di variabili, il Santo Graal del LARP, tanto ricercato quanto impossibile, è il concetto di identità condivisa. La scarsa attenzione ricevuta dal fenomeno, forse, dipende proprio da questa mancanza. Eppure, microscopio alla mano, ricostruire la storia del LARP permette di individuare qualche coordinata; soprattutto, di capire perché – al netto di un’opinione pubblica che oscilla fra indifferenza e derisione – il LARP sia in continua crescita quanto ad attenzione mediatica e quanto a numeri (c’è chi parla di almeno centomila giocatori “regolari” in tutto il mondo).

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Knights Of Badassdom è un film con Peter Dinklage, e parla di LARP. E fa schifo. Ma parla comunque di LARP.

Radici Vittoriane e auto-consapevolezza
Non è chiaro quale sia il primo evento LARP della storia. Potrebbe essere Treasure Trap, ambientato in un castello inglese nel 1982, di stampo prettamente fantasy e nato dal desiderio di trasporre “dal vivo” quel che prima di allora gli organizzatori avevano vissuto a un tavolo, giocando a Dungeons & Dragons.

Potrebbe essere la Hobbit War americana del 1977, un raduno di invasati armati di spade in materassino e nastro argentato, versione faceta di quei war games con cui l’esercito americano, simulando un conflitto armato, addestra le truppe. A risalire nel tempo, troviamo persino la nobiltà vittoriana che ammazza il tempo vivendo in prima persona le scene dell’Orlando Furioso, in rappresentazioni teatrali semi-improvvisate e prive di pubblico che ben costituiscono l’antesignano del LARP: di tutte queste forme, il minimo comune denominatore sembra essere un profondo desiderio ludico.

In A Thousand Stars and No Home, i giocatori interpretano un gruppo multietnico di emigranti alla ricerca di una nuova casa, costretti per ore in una stiva e vittime di abusi sessuali. La simulazione non sminuisce l’esperienza – semmai la rende vivibile senza stress post-traumatico.

Quale che sia il punto d’origine, l’auto-consapevolezza è sicuramente questione degli ultimi trent’anni. Tra gli anni Novanta e oggi, soprattutto, gli “operatori del settore” hanno sviluppato un universo di riflessioni teoriche e produzioni bibliografiche, si sono incontrati a convegni ed eventi internazionali, hanno sfondato le frontiere e creato una vera e propria comunità internazionale. La chiave di volta di questa “vocazione globale” è il Knutpunkt, un evento annuale che si svolge a rotazione in Norvegia, Svezia, Finlandia e Danimarca. Qui, tra dimostrazioni LARP, tavole rotonde e conferenze, LARPers da tutto il mondo si confrontano e scambiano esperienze. In quasi vent’anni, il Knutpunkt ha sfornato migliaia di pagine di articoli accademici, riflessioni e interventi: dal valore politico del LARP alle teorie formali, alle frontiere sperimentali, al burro di Nonna Papera. Non sembra esserci argomento vergine. Eppure eccoci qui, che di LARP continuiamo a parlare: anche solo nel tentativo di muovere quel passetto in più, di portare la masturbazione intellettuale fuori dal cerchio dei soliti noti. Di convincere chi legge che il gioco di ruolo dal vivo ha dignità e potenziale al pari di qualunque altro media.

Certo una cosa è dirlo, una è provarlo. L’idea che il LARP sia un medium, cioè un “mezzo di comunicazione”, riposa sulla possibilità che organizzare un evento di gioco di ruolo dal vivo significhi tanto intrattenere chi vi partecipa quanto comunicargli qualcosa: un’idea, un concetto, una sensazione. Il tutto, come sempre, tramite una storia.

Oltre l’intrattenimento?
Quest’istanza di “serietà” dei contenuti è stata avvertita dalla comunità LARP fin dai primi anni Novanta. Si può dire che a recepirla per primo sia stato il cosiddetto movimento del “Nordic LARP”: secondo l’usuale schema frattale d’indefinibilità, “il Nordic LARP non esiste, ma tutti sappiamo cosa sia”.

L’idea che il LARP non si riduca a essere quattro scemi che si danno le mazzate ha portato i Nordic LARPers a costruire esperienze di gioco particolarmente intense, di esplorazione della sfera emotiva intima dei giocatori, ma anche di maggior “attinenza” con la realtà. Non è un mistero, d’altronde, che il “filtro” offerto dal personaggio permetta di fare esperienza di situazioni forti, impensabili nella quotidianità e potenzialmente dirompenti, se rielaborate a mente fredda: in A Thousand Stars and No Home, LARP scandinavo recentemente portato in Italia in occasione del Modena Play, i giocatori interpretano un gruppo multietnico di emigranti alla ricerca di una nuova casa, costretti per ore in una stiva e vittime di abusi sessuali. Gli emigranti sono alieni, il viaggio della speranza avviene a bordo di una navicella e gli abusi sono simulati attraverso precise tecniche meta-narrative, ma il tutto non sminuisce certo l’esperienza – semmai la rende vivibile senza stress post-traumatico.

Questo genere di LARP – fortemente incentrati sui nuclei “simulazionista” e “narrativista” – sono tendenzialmente studiati per un numero di giocatori ristretto, vista la delicatezza dei temi e la difficoltà di trattarli in contesti “di massa”. Il che crea uno dei tanti paradossi del LARP: dove il numero dei partecipanti cresce, così come l’attenzione mediatica, diminuiscono pretesa artistica e potenziale comunicativo. Così, dai dieci-venti-trenta giocatori di un LARP di impostazione “nordica”, si passa gradualmente alle formule evolute dei blockbuster, LARP ad alto budget e alto profilo, come College of Wizardry (Harry Potter, ma senza violazioni di noiosi trademark) e Monitor Celestra (ambientato nell’universo di Battlestar Galactica), entrambi da più di cento partecipanti.

Senza tuttavia arrivare mai davvero a modelli di “profittabilità”: che si tratti di dieci o cinquemila persone, le spese vive di un LARP si mangiano tutto. Salvo rare eccezioni, chi ne organizza uno non ha mai un ritorno economico. I partecipanti pagano una quota che va a coprire tutto, eccetto (di norma) i loro stessi costumi. Nel paradosso, resta fermo un punto troppo spesso sottovalutato: quello dell’assoluto volontarismo degli organizzatori. Gli introiti vanno a coprire affitto degli spazi di gioco, costumi dell’organizzazione, materiali, le scenografie; se va bene, i trasporti. Quasi mai, comunque, il tempo speso per la creazione dell’evento.

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Sfido chiunque a distinguere questo trailer di Hell on Wheels, LARP ispirato all’omonima serie tv, dal trailer della serie stessa.

Fra il New Italian Epic e la funzione delle storie
Il panorama italiano sembra avere il pregio di un certo equilibrio: gruppi come Terre Spezzate e Chaos League hanno recepito da tempo le “lezioni nordiche”, tentando al contempo anche di superarle. In effetti, nella vocazione “seriosa” del Nordic LARP si scorge talvolta una certa pedanteria: questo è il significato che voglio offrire al giocatore, vediamo come impacchettarglielo. Il che corrisponde pressappoco a scrivere un libro di narrativa per convincere il lettore del proprio punto di vista. Nel suo recente manifesto, la Chaos League inverte la direzione: è proprio una storia profonda, potente e coinvolgente a lasciare sempre qualcosa addosso a chi la vive. Partiamo da questo, allora: dalla storia che vogliamo raccontare.

Esattamente come con un buon romanzo, i significati arrivano trattando con capacità argomenti interessanti. Quali che siano le tecniche LARP che corrispondono a una “buona scrittura”, è certo che nelle storie esiste un potenziale enorme. Un potenziale che non è, come sostiene Gottschall, mera conferma dell’etica corrente: attribuire alle storie una funzione di pura conservazione dei valori è riduttivo e, forse, anche un po’ reazionario. Vicini al collettivo Wu Ming, quelli della Chaos sanno bene che nelle narrazioni è intrinseco un potere sovversivo, distruttivo dei canoni, confondente. È uno dei punti fondamentali del New Italian Epic (il “movimento” stilistico-letterario portato alla luce da Wu Ming 1), sintetizzabile nella seguente massima: “le storie sono asce di guerra da disseppellire”.

L’ambiguità morale che Gottschall individua, un po’ schifato, nelle narrazioni moderne, non ha niente di intrinsecamente sbagliato. Anzi. Offre a chi la incontra la chance di confrontarsi con la complessità, di mettere in discussione i punti fermi. Ma di nuovo, il sociologo va scusato: la sua attenzione è tutta dedicata alle narrazioni in generale, e al ruolo che esse hanno nella formazione dell’individuo. Cioè, prima di tutto, dell’infante. Quando si parla di LARP, come lui stesso ci ricorda, si parla di “giochi narrativi per adulti”: e di vivere la complessità, gli adulti avrebbero un estremo bisogno.

La poliedricità, insomma, non è solo di tecniche e contenuti, ma anche di senso. Il che conferma che il LARP merita di essere equiparato a qualsiasi altro mezzo di espressione. Altri suoi congiunti, se accettano per un attimo la deminutio, sono anche i videogiochi: strumenti di narrazione interattiva anche loro, ugualmente capaci di offrire tanto svago ed evasione quanto significati ed emozioni.

Leaving Mundania, di Lizzie Stark, è uno degli esempi più recenti dell’attenzione ricevuta dal LARP a livello mediatico

Homo Fictus e Homo Ludens
Nel loro manifesto, quelli della Chaos League rifiutano nettamente anche il problema “identitario” del LARP: così come il New Italian Epic parla di “oggetti narrativi non identificati” (testi che ibridano le caratteristiche del romanzo con quelle di reportage, saggio, articolo di cronaca e di altri generi “di discorso”), i Ruoli Vivi della Chaos sono “oggetti ludici non identificati”. Prescindere da definizioni, in fondo, significa anche non darsi limiti: rinunciare a dire ciò che il LARP è, per non dover mai limitare ciò che può essere.

Resta però un problema: la comprensione del LARP da parte di chi non lo conosce. Forse è un problema irrisolvibile: forse la natura partecipativa del gioco di ruolo dal vivo lo rende più simile a una conoscenza esoterica, comprensibile solo in via esperienziale. Il che si risolverebbe con un suggerimento: chiuso il browser, iscrivetevi a un LARP.

Sta di fatto, però, che chi sta fuori è spesso convinto di avere un’idea ben precisa di cosa sia il LARP: quattro scemi in costume che si danno mazzate.

La soluzione non può essere, ovviamente, l’annichilimento del LARP “poco serio”. Stigmatizzare eventi come Battle for Vilegis nei quali la dimensione ludica, di evasione fa da padrone, significa accettare la retorica del gioco come settore di esclusiva pertinenza infantile: buono, per gli adulti, solo quando sia in grado di offrire qualcosa “in più”.

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A Battle for Vilegis non si deve aver paura dei lividi

Forse la risposta è prima di tutto accettare (ma davvero, a ogni livello) che il gioco, in sé e per sé, ha sufficiente dignità da potersi integrare nella vita di un adulto. Da Call of Duty a Heavy Rain, da un LARP al teatro, nella consapevolezza delle diverse funzioni e del diverso potenziale ma senza mai fare classifiche (non all’inizio, almeno). E una volta fatto questo, riprendere la lezione dell’homo ludens di Huizinga, sociologo finlandese secondo il quale la vera caratteristica qualificante dell’essere umano è la sua passione per il gioco. Sintetizzarla con quella dell’homo fictus di Gottschall. Forse il LARP non è altro che questo: l’unione di due riflessioni antropologiche che aspettavano solo di incontrarsi. La conferma empirica di una tesi ancora da formulare: quella dell’Homo Larper.

Epilogo
Sono circa le quattro del pomeriggio, e il padiglione “Games” del Lucca Comics 2015 brulica di umanità sudaticcia. Mark Rein-Hagen, il creatore del gioco di ruolo Vampire: The Masquerade, ascolta con pazienza le cazzate che gli racconto. Fra la povertà dei concetti e le barriere linguistiche, non sono sicuro che gli arrivi proprio tutto. A un certo punto, per non far stagnare la conversazione, gli racconto dell’associazione culturale cui appartengo: facciamo gioco di ruolo dal vivo, Mark, presente? Secondi Figli, ci chiamiamo, giochiamo a una roba ispirata a Game of Thrones. Baffi da Unione Sovietica e sorriso sornione, lui annuisce e si scola il dodicimillesimo bicchiere di tavernello. Yeah, I know. It’s funny. You know George R.R. Martin? Eh, cazzo, sì, ma almeno mi hai ascoltato? One time he told me that the idea for ASOIAF came to him because of a LARP campaign he used to play. Cioè, aspetta. Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, Game of Thrones, quella roba lì, è nata da un gioco di ruolo dal vivo? Mark annuisce vigorosamente e si riempie l’ennesimo bicchiere. Io resto in silenzio. Dal LARP al LARP, un cerchio che si chiude.

Se non vi basta questo, allora getto la spugna.

Luca Pappalardo
Classe 1989, in realtà si chiama Luca Marco. Tra la laurea e il dottorato scrive di Diritto con il suo nome esteso e di altre cose con quello ridotto. Ogni tanto si improvvisa attore. Inoltre, vive a Pisa.

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