Ascoltiamo gli ultimi album di Ital Tek, WestSide Gunn, Stephen O’Malley, il nuovo EP degli Amnesia Scanner, e l’ennessimo gioiellino di casa Ghost Box chiamato Hintermass.
Questa domenica salutiamo la primavera con gli acquerelli pastoral-folk degli Hintermass, sprofondiamo nell’Antropocene spinto col primo disco “vero” degli Amnesia Scanner, ci esaltiamo con lo street rap di WestDise Gunn, e filiamo su una monorataia aliena con Ital Tek. Ah, giusto! Poi ci rompiamo anche i coglioni col nuovo Stephen O’Malley. :(
Ital Tek – Hollowed
(Planet Mu)
Ital Tek da Brighton è stato uno dei primi ad aver affrontato un sound sci-fi sfruttando l’ondata bass del prima e dopo dubstep inglese. Poco celebrato in passato, è in realtà giunto ad ottimi risultati nel 2012 con le escursioni footwork spaziali di Nebula Dance (psichedelia cinetica post-rave da pianeta Mu aggiornata ai ritmi d’oggi), a cui sono seguiti mini LP ed EP che sofisticavano sempre più la formula.
Su Hollowed il nostro decide di andare oltre e, distanziandosi completamente dal focus club/rave, costruisce il suo album più ambizioso e narrativo. Quasi sessanta minuti di epopea innegabilmente sci-fi che ha l’obiettivo di suonare “senza tempo”, dando l’impressione di uno scontro tra sonorità da cyberpunk algido e una più organica fiction fumettistica anni ’70. Laddove le altre due grandi OST di inizio anno (l’aggrocene attuale di Fatima Al Qadiri in Brute e l’epica cosmica di Roly Porter) sono una videogioco/internettiana e l’altra cinematografica, Hollowed ha uno strano fascino da fantascienza “a puntate” dalle ambientazioni più disparate. Ma spariti i groove più moderni, Ital Tek perde parte della sua personalità, risultando a volte una sintesi tra gli ultimi (ugualmente “classici”) di Kuedo e Roly Porter.
I momenti migliori sono quando i i trick ritmici imparati in passato vengono usati subdolamente per sgommare nel futuro (quasi toccando le vette di maniaco drift interstellare della sua Pixel Haze VIP), ad esempio nelle triplette sfasate di Reedemer e Nex. Difficile però pensare a Hollowed per singole tracce e non come a un unico flusso da godere senza interruzioni: sull’impianto hi-fi al buio in casa nel più classico dei modi per esorcizzare il mondo megacorp o con le cuffiette in-ear per trasformare la metro in una monorotaia di qualche colonia terrestre su un pianeta lontano. (Marco Caizzi)
Hintermass – The Apple Tree
(Ghost Box)
Che i dischi Ghost Box siano da possedere fisicamente, anche solo per via di artwork e packaging, ormai lo sanno tutti. In tal senso The Apple Tree non fa eccezione, anche se è possibile che i più ignorino chi si celi dietro la sigla Hintermass, ennesima ibridazione tra geni virtuosi di creature appartenenti al mondo parallelo creato dall’etichetta fondata da Jim Jupp e Julian House.
Le mele zuccherine e delicatamente pop di The Apple Tree sono cresciute sotto le cure di Jon Brooks (The Advisory Circle) e Tim Felton (per qualche tempo nei Broadcast), che incrociano una struttura portante di elettronica vintage, fantasmatica e vagamente krautrock, con quella sensibilità folk da leggenda popolare della provincia bucolica inglese tanto cara all’etichetta. Il risultato sono brani strumentali – ma pure scaldati dalla rassicurante voce di Felton – che suonano come l’esito di una residenza estiva a Canterbury dei corrieri cosmici, ai quali non sono stati forniti solo chitarre, percussioni e tastiere ma pure “strumentazione acustica esotica”. Esordio lungo sicuramente meno frammentario ma non molto distante dall’immaginario fiabesco di Belbury Poly. (Chiara Colli)
WestSide Gunn – FLYGOD
(Griselda Records)
FLYGOD è il miglior disco hip hop uscito finora nel 2016 (ci sarebbe anche The Life Of Pablo ma Kanye West è un po’ un caso a parte. Meglio non fomentare la cosa). WestSide Gunn è un rapper di Buffalo ora di casa ad Atlanta, uno di strada; mega-talentuoso e con una voce mega-strana. Questo è il suo disco d’esordio ufficiale dopo un bel po’ di uscite underground che l’avevano fatto conoscere in giro e davvero non ci si poteva aspettare di meglio.
In due parole trattasi di street-rap nudo e crudo, roba East Coast metà anni ’90, ma molto moderna e aggiornata, e non è un modo di dire. I beats sono fantastici: spesso sono questi loopponi funk-soul mandati avanti all’infinito, talvolta pure senza la batteria sotto. Roba minimale e narcotica. La parte del leone la fa Daringer ma dentro ci sono anche nomi grossi tipo Roc Marciano, The Alchemist e Apollo Brown. Insomma, una cremeria.
Lui dal canto suo a rappare è parecchio forte ma ha una voce talmente particolare che è uno da prendere o lasciare. Di certo è pieno di quotables e se amate il genere questa è roba che fa assolutamente per voi. Segnatevi questo nome: Griselda Records, la sua etichetta. Ne vedremo delle belle. (Filippo Papetti)
Stephen O’Malley – End Ground
(iDEAL Recordings)
È l’episodio conclusivo di una trilogia di dischi solisti che Stephen O’Malley ha fatto uscire (solo vinile, tiratura di 700 copie) sulla svedese iDEAL. L’episodio precedente si chiamava Fuck Fondamentalist Pigs, uscito nemmeno quattro mesi fa e dedicato ai fatti di Charlie Hebdo (con dichiarazione politica allegata alla cartella stampa, poco più che un vaneggiamento a caso).
Sicuramente End Ground è un ottimo modo per entrare in contatto con la poetica del chitarrista di Seattle, nel senso che contiene l’unica cosa per cui viene di solito chiamato in causa: drone di chitarra, amplificatori vintage, volumi altissimi, suoni che si slabbrano e generano vibrazioni armoniche di stampo quasi mistico. Il principale difetto del disco è che il cosiddetto drone metal non è più così sulla cresta dell’onda, e chiunque possa essere interessato a un disco come End Ground possiede già a casa decine di album con dentro la stessa identica sbobba, e su tutti c’è stampato il nome di Stephen O’Malley. Nonostante l’incredibile perizia con cui vengono confezionati gli artwork sta diventando davvero difficile trovare una (anche solo blanda) giustificazione a buttarci via le 16 sterline che servono a comprarlo su Boomkat.
Il principale pregio del disco, d’altra parte, è che il chitarrista suona da solo. Questo permette alle chitarre di risuonare in un modo che può sicuramente sembrare dozzinale e patetico, ma sempre meglio che l’infinito gioco di rimandi, decontestualizzazioni e orpelli estetici buttati nell’opera dei gruppi principali a cui SOMA presta di tanto in tanto le chitarre, che se nei primi Duemila potevano avere un senso, stanno grattando il fondo del barile da un decennio. Non credo ci sia niente di male a preferire Dylan Carlson a LaMonte Young, e da questo punto di vista lo spirito originario di Stephen O’Malley risiede molto di più nel suo lavoro solista che nella sterminata opera dei Sunn O)))). (Francesco Farabegoli)
Amnesia Scanner – AS
(Young Turks)
L’ultima volta che ne avevo parlato da queste parti, dicevo che una delle cose belle degli Amnesia Scanner è che ai dischi fisici hanno sempre preferito una politica molto coerente e tutta “virtuale” (una volta si diceva così) fatta solo di criptiche comparsate online, siti incomprensibili, messaggi cifrati in chiave transumanista, radiodrammi sci-fi per soundcloud ecc ecc. E adesso invece che mi fanno? Un EP (in vinile!) per Young Turks, l’etichetta di Jamie XX e FKA Twigs. Che dire, ci sono cascati anche loro. Alla fine uno se lo aspettava anche, dài.
Comunque: sarà un peccato sul piano diciamo così filosofico-estetico, ma la cosa importante è che AS è una piccola bomba di pop appiccicoso per l’Antropocene. Anzi, è musica che ti fa pensare a un mondo in cui il genere umano per come lo conosciamo si è ormai estinto, e il suo posto è stato preso da creature totalmente artificiali ma non meno sensuali e, uhm, reali. Diciamo che al “pop sbilenco contemporaneo”, gli Amnesia Stanner stanno un po’ come un saggio di Timothy Morton sta al pensiero ecologista tradizionale. Anzi, sono quasi sicuro che Morton li apprezzerebbe. Già che ci siamo, chiamiamolo Object Oriented Pop. (Valerio Mattioli)
La redazione di Prismo vive in una cascina nelle colline tra Busto Arsizio e Varese dove passeggia per i campi ragionando su paradossi filosofici e coltivando marijuana così potente che la puoi fumare solo in un bong costruito dentro la tua mente.