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Mainstream pop mai così "strano", elettronica postumana, rapper impazziti e un po' di sano black metal: 30 dischi per ripassare il 2016 in musica.

Benvenuti alla nostra inevitabile classifica di fine anno, categoria “dischi belli usciti nel 2016”. È probabile che il vostro artista preferito qui sotto non ci sarà, ma tra i trenta titoli sotto elencati c’è davvero quasi tutto quello che secondo noi valeva la pena di essere ascoltato (abbiamo detto QUASI, ok?). In ogni caso, buon ascolto.

30. Dawn Richard – Redemption
(Local Action)
Quest’anno ho preferito Dawn Richard (o D∆WN) a Beyoncé non solo perché ritengo che Redemption non abbia nulla da invidiare a Lemonade, ma perché sono convinta che, nonostante i miliardi di dollari in meno, Dawn Richard meriti in questo momento più attenzione di quella che concederemmo alla stessa Beyoncé (e poi non credo che a Beyoncé cambi qualcosa se per una volta le preferiamo un’altra). Sembra di capire che l’ex Danity Kane abbia lasciato la via sicura del pop canonico come si lascia una relazione travagliata, con tanto di ritorni di fiamma e delusioni. La cosa più difficile è continuare a comunicare nel pop includendo elementi stranianti, diventando un caso-limite: questo in Redemption succede anche grazie alle produzioni di Machinedrum, prova schiacciante che quando affianchi a un artista illuminato il producer giusto si riesce ad aggiungere un pezzo alla coperta. (Virginia Ricci)

29. Rkomi – Dasein Sollen
(Thaurus)
Dasein Sollen è probabilmente il lavoro più canonicamente rap uscito dalla “nuova scuola” italiana, tanto da spingere artisti come Marracash a confessarmi “mi rivedo molto in lui”, ma al contempo ha un pubblico molto ampio che con il rap non ha nulla a che fare (cfr. Calcutta). L’EP contiene 7 tracce, 2 featuring e una serie di immagini e concetti che lasciano basiti per la facilità con cui dipingono un immaginario preciso mantenendo attorno a sé un’aura di mistero. Il 2016 è stato l’anno in cui più sotto-filoni sono stati identificati in quella macro-categoria che è il rap, e Rkomi è riuscito a creare la sua, con un piede nel nuovo è uno nella tradizione. (Tommaso Naccari)

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28. Nicolas Jaar – Sirens
(Other People)
Dopo l’elezione di Donald Trump un mio amico ha scritto su Facebook: “Spero che gli artisti di ogni genere e grado ritrovino la forza per poter produrre qualcosa di forte e significativo”. La tesi è che nei momenti di grossa incertezza e “crisi”, l’arte – possiamo anche chiamarla industria culturale – debba tornare a fare la sua parte. Io non so se Nicolas Jaar entri nel suo ragionamento, ma è chiaro come l’elettronica (etichetta a maglie larghe) sia ormai diventato lo spazio di convergenza ideale per raccontare quello che sta succedendo, e Sirens è stato accolto come un lavoro politico e al tempo stesso personale. Uno spazio che raccoglie, sintonizza, metabolizza e cerca di gettare in avanti. (Hamilton Santià)

27. Katie Gately – Color
(Tri Angle)
È come se un asteroide avesse colpito i cervelli di Laurie Anderson, Kate Bush, Holly Herndon e di una serie di astronauti falliti che hanno l’hobby dell’homestudio e smanettano con i campionatori; Katie Gately sa scrivere pezzi pop che in apparenza sembrano roba da intellettuali (la nostra ha un passato da sound designer e ha già remixato Björk), ma sguscia fra le valli del senso con tanta maestria che la vedo bene a sonorizzare qualche pubblicità dei Lego: secondo me farebbe un botto che altro che colori, proprio tutto l’arcobaleno. (Demented Burrocacao)

26. Kendrick Lamar – Untitled, Unmastered
(Top Dawg)
So di far parte di una minoranza, ma a me To Pimp A Butterfly non era piaciuto. Non dico che non sia stato un disco importante – ben oltre l’aspetto musicale, intendo – e meno ancora che fosse brutto; semplicemente, per me era sovraprodotto (scusate il calco), con troppe influenze famolostrano messe lì senza sufficiente direzione artistica. Bene: Untitled, Unmastered è una raccolta di scarti, idee e abbozzi incisi in quel periodo e, per quanto mi riguarda, è molto più incisivo e genuino di TPAB. Il paragone più azzeccato (non mio) usato per descrivere il rapporto tra i due dischi è quello esistente tra The River e Nebraska: e io da bravo springsteeniano ho sempre apprezzato più Atlantic City che Hungry Heart. (Costanzo Colombo Reiser)

25. Oranssi Pazuzu – Värähtelijä
(Svart)
Un anno fa eravamo qui a disquisire dei Liturgy come una sorta di punto d’arrivo nel discorso di decontestualizzazione legato a tutto quello che a vario titolo chiamavamo black metal, o metal estremo. I finlandesi Oranssi Pazuzu arrivano l’anno successivo con la loro opera più ambiziosa, a riportare tutto in carreggiata: l’attitudine di forzata osservanza a trecentosessanta gradi presente in Värähtelijä è quasi inedita anche a queste longitudini e sembra una delle prime cose, da un bel po’ di tempo a questa parte, su cui ha senso pensare per ragionare sviluppi futuri del “rock”. (Francesco Farabegoli)

24. Luka Productions – Mali Kady
(Sahel Sound)
Il 2016 per me è iniziato con Mali Kady, pubblicato il 5 gennaio su Sahel Sound in edizione limitata di 250 cassette. In Mali e per la precisione a Bamako l’hip hop è forse il genere più diffuso, lo testimonia un portale come RHHM (occhio alla frequenza di post sul loro Soundcloud) e lo stesso Christopher Kirkley, fondatore della prolificissima Sahel Sound, che proprio in Mali ha ormai una seconda residenza. Luka Guindo aka Luka Productions è proprietario di uno studio che produce buona parte dell’hip hop maliano odierno, e le sue tracce – fatte di rapping speditissimo e balafon midi – circolano solo in mp3 e SD card. Mali Kady è quindi la sua prima uscita ufficiale: era dai tempi dei mixtape hip hop in cassetta dei tardi ’90 che non andavo così fiero di questo formato. (Simone Bertuzzi)

23. WWWINGS – PHOENIXXX
(Planet Mu)
Altrove ho scritto che i Wwwings erano i Duran Duran dell’accelerazionismo, perché dove i loro colleghi hi-tech sono cervellotici e pieni di voglia di gridare al mondo le loro elucubrazioni concettuali, il trio russo-ucraino risponde con la fruibilità dei loro esperimenti, che dicono tutto sia a livello di pratica politica che musicale. PHOENIXXX parla alle orecchie facendo mischiotti con i rifiuti della cultura popolare composti di sbuffi urbani e industrie che vengono smantellate per fare posto al nulla, di elettronica moderna ma già obsoleta nello stesso momento in cui l’hai ascoltata, raccontando la storia de post-cortina di ferro e delle post-ideologie; e cosa ancor più importante, rappresenta la rinascita della musica slava in un periodo in cui le macerie dell’ex impero sovietico sono tornate al centro dell’attenzione di tutti. Secondo me se tutto va male li chiama Madonna a produrre qualche singolo. (Demented Burrocacao)

22. Not Waving – Animals
(Diagonal)
Animals è una cosa da dipendenza assoluta e – molto semplicemente – il miglior disco a cui l’ex Disco Drive Alessio Natalizia abbia mai messo mano. Electro Body Music pessimista e scurissima, ultra-cinematografica, vintage e futurista in egual misura, perennemente sul punto di collassare. Uno dei dischi più tesi ed esaltanti che ho ascoltato nel passato recente, quello più impressionante, che influisce di più sul mio stato d’animo (anche se non necessariamente in positivo). (Francesco Farabegoli)

21. Danny Brown – Atrocity Exhibition
(Warp)
“Ha una voce terribile, eppure lo sto ascoltando molto”. In questi mesi, per capire la portata dell’evento di vedere un rapper come Danny Brown uscire per Warp Records, mi sono confrontato spesso con non ascoltatori del genere; e se per il rapper di Detroit la voce può effettivamente essere un ostacolo — anche se in realtà rende il prodotto ancora più originale e ancora meno canonico, come già contribuiscono a fare le produzioni e i temi — resta che il gran lavoro di Paul White rende l’album una delle note liete dell’anno, nonché un incontro tra quella dimensione già mainstream americana (che infatti vede coinvolti artisti come Kendrick Lamar), e una più ricercata elettronica di matrice inglese. (Tommaso Naccari)

20. Yves Tumor – Serpent Music
(PAN)
Mentre scrivo, Yves Tumor ha appena pubblicato col compagno Dedekind Cut un mixtape che riflette sulla condizione attuale dell’America di Trump. Perché oggi un artista è chiamato a rispondere con la sua produzione alla frammentazione estrema della realtà circostante, al salto nell’assurdo a cui si può reagire creando panorami altrettanto caotici. Serpent Music non ha una voce decifrabile, se non quella del continuo cambio di pelle, del dialogo con una dimensione erotico-esoterica, come se più che una narrazione si cercasse una formula magica per traslare una realtà straniante in una sorta di paradiso perduto imploso, in cui catene di loop si intrecciano con voci angeliche lontane, solitarie, che appaiono e scompaiono da un’altra dimensione. Tutto questo senza alcuna prospettiva salvifica, anzi, lasciando in chi ascolta la sensazione di avere a che fare con una gabbia apocalittica da cui chi cambia pelle, nome e occhi può fuggire, anche se solo per un istante. (Virginia Ricci)

19. L.U.C.A. – I Semi del Futuro
(Edizioni Mondo)
Il disco NATURALISMO dell’anno, sottogenere: Mediterranean Sviaggio/Groove. Il progetto L.U.C.A. nasce dopo anni di ascolti di library music italiana da parte di Francesco De Bellis, e la cosa si sente, ma I Semi del Futuro è un album dalla visione e identità propria che va al di la del semplice italo-70. Intanto affronta ambiziosamente uno dei concept più NATURALISMO di sempre: nascita e evoluzione della vita sulla terra. Poi lo fa approfondendo tutta l’evocazione del complesso naturalistico del Circeo che nei precedenti (meravigliosi) 4 ep di Edizioni Mondo (solo il primo di L.U.C.A.) rimaneva una questione di luoghi (Dune, Laguna, Precipizio, Selva…) mentre qui diventa la base di un percorso iniziatico hippie-misticheggiante nello spaziotempo di un Mediterraneo universale. Risvegliatevi al sole del nuovo equilibrio, oggi, domani, sempre! (Marco Caizzi)

18. Westside Gunn – FlyGod
(Griselda Records)
Finora il rapper di Buffalo si era contraddistinto per i mixtape intitolati con un certo gusto Hitler Wears Hermes (!), da cui era emerso uno dei pochi emergenti capaci di non dire nulla ma di dirlo bene. Ma non un “bene” qualsiasi, un “bene” alla Cuban Linx, con quel misto di spocchia, asocialità e riferimenti cool che rendono certi personaggi speciali. Ora, col suo primo disco ufficiale ha fatto una summa del suo stile, e per quanto dal punto di vista musicale tutto sia solidamente arroccato nello stile classico di New York – senza nostalgismi da supermercato, però – è uno dei pochissimi dischi che quest’anno mi hanno accompagnato dall’inizio alla fine senza asciugare. “Everyday make money and pray – GUSTAFOOOOO“. (Costanzo Colombo Reiser)

17. Amnesia Scanner – AS
(Young Turks)
Fino all’uscita di questo più o meno omonimo EP, gli Amnesia Scanner erano una creatura dai contorni indefiniti che viveva di esoteriche apparizioni online. Ora non è che la nebbia si sia esattamente diradata (ok, uno dei due è Martti Kalliala dei Renaissance Man, se non lo sapevate ve l’ho detto io), ma questa prima “vera” prova ha sorpreso tutti per il fatto di essere… melodica! Dal primo all’ultimo pezzo, sotto gli strati di sound design ipertrofico, tra le spazializzazioni squilibrate, nel cuore delle paranoie digitali c’è sempre un hook in qualche modo orecchiabile, anche se ovviamente fatto a pezzi dalla sintesi granulare. Solo che, invece di rendere il disco più accessibile, queste trovate lo rendono ancora più enigmatico e parodistico, uno sberleffo alla necessità di mantenere la propria umanità nell’universo post-fattuale. È Meme Magick applicata alla musica da club, il che in qualche modo li rende degni successori dei Coil. (Francesco Birsa Alessandri)

16. Skepta – Konnichiwa
(Boy Better Know)
Konnichiwa è, probabilmente, l’album che citeremo negli anni a venire quando sentiremo l’esigenza di dover fornire al nostro interlocutore un esempio da subito efficace di cosa voglia dire “rappare sul grime”. Come già il 2015, anche il 2016 è stato un anno in cui il grime UK e di conseguenza il suo massimo esponente — Skepta, appunto — sono finiti proiettati in un vortice enorme che li ha trascinati in giro per il mondo: dal tatuaggio di Drake alla Nigeria, passando per l’Italia dove nel giro di un anno Skepta si è esibito ben due volte, cosa che raramente succede con artisti rap non italiani. (Tommaso Naccari)

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15. Equiknoxx – Bird Sound Power
(DDS)
L’hanno chiamata “avant-dancehall”, che è una definizione molto scema ma anche molto vera: quello dei giamaicani Equiknoxx è in effetti un dub scheletrico così rarefatto e mutante che starebbe benissimo in qualche selezione weightless grime della coppia Logos & Mumdance, ed è anche talmente tutto spigoli e angoli acuti che ti viene da pensare che il sole che splende su Kingston sia stato definitivamente offuscato da qualche nube radioattiva. Esce sull’etichetta dei Demdike Stare, che nel 2016 sono tornati anche loro con un altro ottimo album (segnate anche questo). (Valerio Mattioli)

14. Kanye West – The Life Of Pablo
(G.O.O.D. Music)
Ho idea che ogni evoluzione discografica di Kanye corrisponda a un gradino sempre più pericolante del suo percorso psichico. Se con 808s & Heartbrake l’affermazione implicita era “sono chiaramente il più grande producer vivente”, in My Beautiful Dark Twisted Fantasy voleva dimostrare che era pure la più grande rockstar vivente, con Watch The Throne ha voluto ritrarre la famiglia reale dell’industria discografica, e in Yeezus c’era già un bel delirio di onnipotenza. Poi è arrivato The Life Of Pablo, a confermare che i suoi deliri fossero reali e, cosa più importante, realizzabili. Allo stato delle cose, solo Kanye può letteralmente presentare un disco così come gli esce dalle proprie turbe cerebrali, decidere di renderne contorta anche la stessa pubblicazione, di pubblicarlo aporetico e continuare a editarlo a suo piacimento (in questo senso TLOP è decisamente il disco più “internet” dell’era internet). Tutto questo mentre si improvvisa grande stilista, millanta di candidarsi alla presidenza USA e si allontana definitivamente da qualsiasi idea di linearità. Se ci pensate, anche questo è un modo di contribuire al progresso: non solo la persona più influente al mondo oggi è un nero, ma è un nero pazzo: name a genius that ain’t crazy, giusto? (Virginia Ricci)

13. AAVV – Mambos Levis D’Outro Mundo
(Príncipe Discos)
La sfida della portoghese Príncipe Discos si è mantenuta anche nel corso del 2016, sebbene qualcuno abbia registrato un calo di interesse (inversamente proporzionale all’interesse da parte di Warp). E la sfida non è per nulla semplice: scavare di continuo in quello che tutto sommato è un territorio molto ristretto, e cioè Lisbona e le sue periferie postcoloniali. Oltre ad aver recentemente dato alle stampe un EP di DJ Nervoso, uno dei pionieri del suono kuduro e tarraxha, quest’anno l’etichetta fondata da DJ Marfox ha pubblicato anche questa ricchissima raccolta di suoni dell’altro mondo, straordinariamente in CD. Dentro si trovano i classiconi di sempre (oltre allo stesso Marfox, Nigga Fox, Nídia Minaj…) ma anche inedite, gloriose promesse tra cui DJ Lycox, Dj Adifox e soprattutto l’apertura di DJ Nunex & DJ Famifox, che, finalmente, traccia una linea indigena verso il Messico del tribal guarachero. (Simone Bertuzzi)

12. YG – Still Brazy
(Def Jam)
Da anni siamo inondati da throwback più o meno accettabili del rap newyorchese di metà anni ’90, ma, stranamente, per lungo tempo il mondo dell’hip hop si era scordato del sound californiano dell’epoca Death Row. Bene: YG, dopo un disco d’esordio fiacco, ha finalmente trovato il modo di rileggerne gli stilemi rendendoli attuali e non solo sterili omaggi. Il risultato è un album genuinamente cafone, in senso buono: bassi ciccioni, synth, e un rapper che non fornisce chissà quale cibo per la mente (il pezzo più impegnato s’intitola Fuck Donald Trump, LOL) ma si accontenta di viaggiare sopra ai beat. E va benissimo così. (Costanzo Colombo Reiser)

11. Jute Gyte – Perdurance
(Jeshimoth Entertainment)
Era dai tempi del leggendario Screech Owl dei Wold che non mi imbattevo in un disco di black metal tanto… be’, strano. Che poi, “strano”: diciamo che Perdurance è più una specie di serissima sinfonia pagan-industrial-microtonale (!) che pare provenire da un Walhalla in cui Odino ha smesso pelli ed elmi alati per conciarsi a mo’ di vichingo cyber che ha letto Nietzsche e cita Thomas Ligotti a memoria. Da qualche parte l’hanno eletto a “capolavoro del black metal moderno” e non vedo proprio perché dovrei dissentire. (Valerio Mattioli)

10. Kablam – Furiosa
(Janus)
Una delle cose musicali più belle del 2016 è stato lo sdoganamento della gabber. Lo si può contare nel mucchio di generi dance “impopolari” recuperati da una generazione di producer e DJ come segno di opposizione alle austerità techno oramai scadute nella peggio banalità. Parliamo di culture musicali provenienti un po’ da tutto il mondo (reggaeton, wobbling, Jersey/Baltimore club, ballroom), utilizzate in maniera ibrida e spesso completamente rovesciate di segno per farle portatrici di istanze femministe, queer, non-binary. Kajsa Blom aka Kablam fa parte di entrambi i collettivi che più di tutti hanno costruito questo modo di intendere il club: Janus e Staycore. Furiosa, sua primissima uscita “ufficiale”, sembra un po’ il manifesto di un modo di fare musica elettronica “pesante” privandola di tutte le pose statuarie da Berghain. La dedica alla protagonista di Mad Max: Fury Road non è casuale, e l’uso non-ortodosso della cassa di 909 ultradistorta che associamo – per l’appunto – con la gabber gli permette di giocare dentro breakbeat sudamericani con una potenza riottosa (finalmente) per nulla machista. (Francesco Birsa Alessandri)

9. Rihanna – Anti
(Roc Nation)
E insomma questo è quello che capita al pop quando gli togli la rete di protezione e lo metti in mano a qualcuno che lo gioca da una decina d’anni ai massimi livelli ma sembra non aver mai capito bene quali sono le regole. Inizialmente sembrava perfino un’opera minore di Rihanna, la prima senza un singolo spaccaclassifiche o due. E poi Anti si è rivelato la sua opera più magnificente, la più organica e quella in cui per la prima volta Rihanna sembra avere intenzione di raccontarsi musicalmente: una cosa weird, avventurosa e malatissima nella quale è quasi impossibile aspettarsi cosa arriverà di lì a tre minuti. (Francesco Farabegoli)

8. KA – Honor Killed The Samurai
(Iron Works)
Per il suo quarto disco da solista, l’MC di Brownsville non ha cambiato di molto la sua formula: beat minimali costituiti quasi solo da un loop uniti a testi (auto)biografici che rifiutano l’immaginario da Sex & The City dei vari Drake e Kanye per puntare su qualcosa a metà tra Mean Streets e The Education of Sonny Carson. D’altronde le radici di KA sono – anche anagraficamente – quelle, e se da un lato è paradossale che un quarantenne sappia comunicare più sostanza di tanti suoi colleghi più giovani, dall’altro ciò che conta è che ci sia ancora un liricista più preoccupato delle parole che degli adlib. (Costanzo Colombo Reiser)

7. Bon Iver – 22, A Million
(Jagjaguwar)
C’è una costante in 22, A Million. Il disvelamento. Justin Vernon/Bon Iver si nasconde dietro numeri, suoni, gli effetti che alterano la voce, una lingua sempre più enigmatica, dietro parole iniziatiche e una simbologia che parte dalla geometria dei riferimenti grafici (la copertina) per arrivare ai titoli delle canzoni, piene di caratteri ASCII. Stiamo parlando di qualcosa di nuovo: the artist from the future. Un “futuro” che è sì legato allo spazio psichico costruito da social network, capitalismo finanziario, deriva tecnologica totale e una totale atomizzazione dell’essere umano; ma è anche legato a strategie di resilienza, di consapevolezza nei propri mezzi e limiti e capacità di usarli come elementi per disegnare una nuova (forse) traiettoria precisa. (Hamilton Santià)

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6. AAVV – Gqom Oh! The Sound of Durban Vol. 1
(Gqom Oh!)
Posso rimuginarci su quanto voglio, ma se il 2016 è l’anno in cui il gqom sudafricano ha spiccato il volo verso nuovi orizzonti di diffusione e apprezzamento è essenzialmente grazie a questa compilation. Diciamo in generale grazie a Gqom Oh! e al lavoro del romano Francesco Cucchi aka Nan Kolè, ma non solo. Durban ha brulicato di gqom, questo strano e potentissimo derivato della house e del kwaito, da molto prima che le venissero puntati contro i riflettori di mezzo mondo; era solo questione di captare le giuste frequenze e reindirizzarle verso sistemi di mercato che favorissero in primis i suoi giovanissimi inventori. Gqom Oh! The Sound of Durban vol. 1 è un po’ il manifesto di tutto ciò, e gli artisti che vi compaiono hanno contribuito a incidere nella storia una diapositiva della loro città attraverso la forza di un suono. Oggi più che mai il gqom è vivo e pulsante, e come ogni altro genere del mondo maturerà, muterà, si metterà in discussione ancora più e più volte. Citando lo stesso Kolé, “il confine tra musica underground e mainstream a volte è molto sottile,” perciò non c’è più nulla da temere. (Sonia Garcia)

5. Mykki Blanco – Mykki
(!K7)
La prima volta che vidi Mykki in azione rimasi folgorato. Dalla classe, dalla schizofrenia, dall’estetica, dal continuo scambio di registri e di ruoli fra uomo, donna, trans, gay, b boy, drag queen, alieno, aggressivo, dolce, depresso e al contempo eccessivamente vitale. Insomma, mi sono detto: costui è un grande. E infatti in Mykky c’è tutta la storia dell’hip hop sperimentale, virata se possibile in maniera ancora più insondabile, eccentrica ed eclettica, tanto che non capisci più dove è la zona dell’amaro e quella del dolce sotto la lingua. Arrangiamenti futuribili su una fragile fune per cui basta poco e va tutto in vacca, ma questo ESSERE VERO si sente ed è la forza di questo inno all’imperfezione e quindi alla bellezza. Forse è il nuovo Prince, o semplicemente Prince era il vecchio Mykki Blanco. (Demented Burrocacao)

4. Lorenzo Senni – Persona
(Warp)
A breve esporrò su queste pagine la mia teoria sul rapporto tra Persona e l’abuso prolungato di Red Bull. Intanto mi limito a dire che, col suo ultimo EP, Lorenzo Senni è riuscito a iniettare un sentimento di inquietante, parossistica euforia nelle ormai classiche spire per sequencer partorite da qualche spietata intelligenza macchinica dei precedenti Quantum Jelly e Superimpositions. E l’effetto, nonostante le apparenze, è tutto tranne che kitsch: perché in tempi di 24/7 e “skills emotive” imposte, l’overdose da energy drink è una cosa seria, datemi retta. (Valerio Mattioli)

3. Elysia Crampton – Elysia Crampton Presents: Demon City
(Break World Records)
Ciò che mi ha colpito fin dal giorno zero di questo disco, è stata la dedica a Bartolina Sisa, rivoluzionaria aymara che nel 1781 capeggiò un’insurrezione indigena ai danni delle truppe spagnole a La Paz, Bolivia, durata 184 giorni. Una volta catturata, queste ultime la giustiziarono e mutilarono il suo cadavere in pubblico, come intimidazione verso la restante comunità. Il suo lavoro più recente Dissolution of the Sovereign: A Time Slide into the Future (or: a Non-Abled Offender’s Exercise in Jurisprudence), mostra un livello di rielaborazione ulteriore del tema, una dimensione apocalittica in cui le parti del corpo di Sisa riprendono vita grazie all’azione di un’Intelligenza Artificiale. Mi piace che sia tutto partito da Demon City, però, realizzato in collaborazione con i suoi fidati Chino Amobi, Lexxi, Rabit e Why Be. Lodato e premiato praticamente da chiunque, questo disco non ha bisogno di ulteriori prevedibilissimi pipponi sui significati emotivi e/o politici insiti nella musica della sua autrice Elysia Crampton — anche se ammetto di essere ancora un po’ tentata dal farli. A differenza del precedente American Drift, qui ci sono meno fronzoli cumbieschi, meno latinidad travolgente, e più spirito guerriero, “severo” per l’appunto. Per un futuro più crunktribaloso. (Sonia Garcia)

2. Frank Ocean – Blonde
(Boys Don’t Cry)
Onnipresente in tutte le classifiche, e a ragione: Blonde (o Blond, boh) è un album pop/soul/mainstream (tutto per evitare la parola “black”) unico. Se nel precedente Channel Orange Frank Ocean riuscì a regalarci canzoni soul contemporanee dalla fragilità “steviewonderiana” su un quadratissimo pop da FM, qui fa esplodere tutto con una naturalezza rara. Blonde ha una produzione freddissima, trasparente, frammentata, piena di soluzioni subdolamente bizzarre che in realtà assecondano il songwriting di Ocean, e la stessa tracklist è strutturata in un modo per cui dopo i primi tre numeri google-pop non si capisce mai se l’album è finito o è in procinto di finire o se magari è andato in loop. Ci si perde semplicemente dentro gli emo-trip di Frank, che non a caso fornisce come unico appiglio degli ululati che appaiono ogni tanto in sottofondo. A me gli ululati piacciono, ma se non vi piacciono difficilmente capirete perché questo è un vero e proprio DISCODIO. (Marco Caizzi)

1. Autechre – Elseq 1-5
(Warp)
Col loro mutismo postumano più algido di un iceberg pre-riscaldamento globale, gli Autechre rappresentano da oltre vent’anni quella simbiosi tra uomo e macchina da sempre agognata dall’immaginario digitale tutto. Da qualche tempo però è come se i due di Manchester avessero finalmente oltrepassato il tanto vagheggiato limite, e cioè: se prima la loro musica puntava al ritratto iperrealista di un mondo totalmente artificiale e a zero tasso di emotività, un’opera come Elseq 1-5 è essa stessa quel mondo, e ad ascoltarla ci si trova davvero faccia a faccia con un ignoto che a noi risulta tale perché, semplicemente, in quella dimensione non siamo contemplati. Titanico e intimidente già nella durata (sono circa quattro ore e mezza in solo formato digitale, nel senso che un’edizione “fisica” non è stata prevista), il nuovo mastodonte del duo è anche il trionfo di un suono mai così tridimensionale, astratto sì ma reale, e per il quale la stessa espressione “alta definizione” è penosamente approssimativa. È davvero una musica che da sola prende vita seguendo oscure logiche oltre le soglie dell’umana comprensione: un pomeriggio l’ho ascoltata con attenzione nel corso di una session psicotropa (che come sapete, è il modo migliore per testare i dischi) e mi sono trovato dinanzi a una specie di creatura aliena somigliante a un enorme scarabeo in qualche misteriosa lega metallica traslucida e nera, che mutava forma mentre i miei occhi attoniti cercavano di seguire visivamente arcani geroglifici audio che schizzavano da tutte la parti e montavano come maree di silicio di cui ero in grado di cogliere ogni singola molecola e atomo. Effetti delle solite sostanze, direte voi. Un chiaro messaggio da un futuro che già manipola il nostro presente, potrei rispondere io. In ogni caso: Elseq 1-5 non sarà il capolavoro definitivo del duo che già ha firmato classici come Tri Repetae e Confield, ma gli Autechre del 2016 rischiano di essere persino più attuali (e necessari) di quelli di vent’anni fa. Una lezione per tutti. (Valerio Mattioli)

Redazione Prismo
La redazione di Prismo vive in una cascina nelle colline tra Busto Arsizio e Varese dove passeggia per i campi ragionando su paradossi filosofici e coltivando marijuana così potente che la puoi fumare solo in un bong costruito dentro la tua mente.

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