Dall'Amazzonia alla Corea del Sud alla Romania, i sette migliori film del 2016. Contenuti extra: migliore interpretazione, migliore canzone cantata male, migliore gag visiva dell'anno.
Chiariamoci: le classifiche di fine anno sono l’operazione narcisista per eccellenza, una cospirazione del Bilderberg degli editori ai danni dei lettori di riviste. Quando si tratta di cinema, la zona grigia su quale tipo di informazioni possa essere utile si fa ancora più prominente. Considerando che la maggior parte delle classifiche di fine anno ci arriva da siti nordamericani, e considerando il confine labile tra ciò che il pubblico si procura legalmente e ciò che, invece, non ha una distribuzione in un certo paese e arriva tramite altri canali, quali possiamo considerare come i veri confini di un anno cinematografico? Lo scorso anno, a Prismo ci siamo premurati di stilare una classifica che includesse al 90% film distribuiti nelle sale in Italia: era basata su un sistema di punteggio tra redattori. Poi però è successo il 2016. La post-verità, Brexit, il neoliberismo, i morti famosi. I confini geografici non hanno più senso e noi, come nella casa delle libertà, facciamo un po’ come cazzo ci pare, con una lista dei sette lunghi (e un paio di corti) indiscutibilmente migliori dell’anno secondo una (1) persona. Il criterio di selezione è variabile: se è vero che tutti sono circolati in festival italiani e/o internazionali, solo tre hanno avuto una distribuzione nazionale nel 2016. Se non altro, che la lista funzioni come consiglio per gli acquisti in grande, in un mondo ideale in cui il solo mercato unico che conta è quello della libera circolazione di placidi film d’essai. Cominciamo:
7. Safari
(Austria; regia: Ulrich Seidl)
Cosa significa, a livello umano, andare in vacanza in un paese straniero per uccidere animali a distanza?
Joshua Oppenheimer, regista del dittico indonesiano L’atto di uccidere/The Look of Silence, quando parla dei suoi documentari dice che non sarebbe in grado di fare film su altri esseri umani se dovesse mantenere un distacco. È certamente vero per il suo modo di fare film. Ma Ulrich Seidl, regista forse più noto per i suoi lavori di finzione che non per i suoi documentari, è la dimostrazione vivente che anche il procedimento opposto può portare a una rappresentazione della realtà. Seidl non si pone le stesse domande di Oppenheimer, ma ottiene risposte simili sull’assurdità della natura umana. Lo fa con una metodologia sostanzialmente identica a quella dei suoi film non documentari: campi lunghissimi, stilizzazione estrema degli ambienti, attenzione al linguaggio del corpo dei suoi soggetti, inquadrature iperrealistiche. I protagonisti sono turisti austriaci e tedeschi appassionati di safari di caccia: attraverso una serie di interviste e di escursioni, offrono la loro visione del mondo. Per quanto Seidl abbia dichiarato che il film cerca di mostrare il perché i safari suscitino tanto fascino, il distacco che dimostra nei confronti dei suoi cacciatori è al contempo un’eccellente opera di satira e uno sguardo nel raggelante tunnel psicologico dei selfie con cadaveri di giraffe.
6. El abrazo de la serpiente
(Colombia; regia: Ciro Guerra)
El abrazo de la serpiente prende la fantasia herzoghiana dell’uomo bianco nell’Amazzonia e la ribalta su se stessa, raccontandoci una storia simile, questa volta dal punto di vista di quello che la narrativa occidentale ci impone a vedere come l’altro: Karamakate, sciamano di una tribù del luogo, nella sua vita ha due incontri significativi con due “uomini bianchi”, un etnografo e un biologo. La ricerca di una pianta dai benefici portentosi conduce a due viaggi paralleli lungo il Rio delle Amazzoni, intrapresi a distanza di trent’anni, da cui emergono le ferite del colonialismo e i fallimenti dell’incomprensione di un’altra cultura. Il più grande “mai visto al cinema” del 2016.
Miglior corto: Thunder Road
(USA; regia: Jim Cummings)
Funerali nella grande provincia americana, figli poliziotto, un unico pianosequenza, roba di Bruce Springsteen. Sembrano gli ingredienti più appropriati per una minestra da Sundance – e, al Sundance, il film ha scatenato reazioni molto emotive – a un centimetro dall’essere sbracata e superflua eppure il corto, scritto, diretto e interpretato da Jim Cummings riesce a essere perfettamente misurato e misuratamente comico. Quando sembra dirigersi verso l’area “Sundance-generico”, sterza e fa tutto giusto. Seconda miglior canzone cantata male del 2016, solo perché la prima è in cima a questa lista.
5. Carol
(UK/USA; regia: Todd Haynes)
Sono rari quei film che, con la loro fastidiosa ossessione per l’epoca storica, non finiscono per diventare uno sterminato cimitero di scenografia senza ambizioni narrative. Carol non è così, lui è diverso. È la storia di due donne che finiscono per innamorarsi l’una dell’altra negli anni Cinquanta. Anche con tutta quella maniacale attenzione ai colletti delle signore, anche se è un dipinto di Edward Hopper in movimento, Carol ha un’unica intenzione: raccontare due sentimenti – l’innamoramento e il senso di tradimento della fiducia – e farli sembrare il più atroce battesimo del fuoco della storia dell’umanità.
Miglior racconto animato: Edmond
(UK; regia: Nina Gantz)
Un racconto sui rapporti interpersonali, il cannibalismo, le tendenze suicide e l’enorme senso di vergogna che si prova a convivere con le proprie pulsioni espresso in dieci minuti di pupazzetti in feltro.
4. Wiener-Dog
(USA; regia: Todd Solondz)
C’è chi dice che, con la vecchiaia, Todd Solondz – il più grande cineasta satirico degli Stati Uniti – si è rammollito, che un tempo non avrebbe inserito sequenze musicali coi bassotti nel mezzo di una riflessione misantropica sull’egoismo della gente. Che questo è, tutto sommato, il suo film più brioso. Che, in fondo, qui non ci sono pedofili seriali, la paralisi cerebrale, il classismo rivoltante. E invece le cose sembrerebbero diverse: se prima la tesi di Solondz era che l’umanità è fondamentalmente difettosa ed egoista, ma in fondo cerca di fare qualcosa per migliorarsi, qui la tesi è che l’umanità è destinata a fallire. Seconda migliore gag visiva dell’anno (le ragazzine coi capelli rossi).
Migliore interpretazione e non c’è altro da dire: Teyonah Parris in Chi-Raq
(USA; regia: Spike Lee)
3. Fuocoammare
(Italia/Francia; regia: Gianfranco Rosi)
A proposito di documentaristi che raccontano il senso degli esseri umani tramite il contatto con altri esseri umani: in verità Fuocoammare neanche dovrebbe starci, in una lista di film semifaceta che parla di bassotti e gag più belle – dovrebbe stare in una lista che dice solo “Fuocoammare”. D’altra parte, non inserire uno dei documentari più importanti dell’ultimo decennio sarebbe un crimine grave, nonché una slealtà nei confronti della sua portata cinematografica.
2. Agassi
(Corea del Sud; regia: Park Chan-wook)
Il titolo internazionale è The Handmaiden, ma la prima volta che ho letto il titolo originale sul sito di Cannes mi sarebbe piaciuto pensare “Finalmente il tanto atteso adattamento cinematografico di Open!”; il film, naturalmente, non c’entra niente con il celebre tennista, ma è l’adattamento di un altro libro, Ladra di Sarah Waters, originariamente ambientato nell’Inghilterra vittoriana. Park è un veterano delle interpretazioni sui generis di romanzi occidentali situati nell’Ottocento: sette anni fa riadattava la Teresa Raquin di Zola a una storia di preti vampiro, oggi traspone un feuilleton di amore omosessuale nel puritanesimo inglese di fine Ottocento alla Corea degli anni del protettorato giapponese. Non manca – è ovvio – il rigoglio visivo che ha sempre caratterizzato i suoi film, ma il registro in questo caso si basa sulla sensualità, suggerita o esplicita. È anche uno dei drammi in costume più divertenti che vedrete al cinema.
Terza migliore gag visiva dell’anno (lei dipinge proprio male). Maggior numero di erezioni scorte in una sala cinematografica nel 2016.
1. Toni Erdmann
(Germania/Austria/Romania; regia: Maren Ade)
“Non sono femminista, altrimenti non potrei tollerare gente come te” dice Ines, co-protagonista di Toni Erdmann, a un collega che la definisce tale. Lei è una donna in carriera, tedesca trapiantata a Bucarest, occupa una delle più alte cariche in un’azienda di consulenza per le grandi compagnie. Quello della “femminista” è solo uno dei sottili affronti che riceve giornalmente in un ambiente a prevalenza maschile. Ma è vero, lei non è femminista. Gioca il gioco dei signori, ricicla la stessa formula nei confronti della sua assistente, l’unica altra presenza femminile. Quando non la fanno finire di parlare, si impunta per finire di parlare. Quando – di conseguenza – le danno della stronza, finge di ignorare l’esca, passa avanti. Quando le chiedono di andare a fare shopping con le mogli dei dirigenti anziché discutere di strategie aziendali, somatizza. Si sarà fatta, un tempo, la domanda “Avere una carriera dev’essere così?”. La risposta che si è data è “sì”. Ines è una donna che vive un’esistenza molto solitaria in una città straniera.
Ma in Toni Erdmann, il suo isolamento non è l’unica delle nostre preoccupazioni. Perché la storia non è solo la sua.
Il Festival di Cannes non è rinomato per la sua predilezione verso il genere comico. La tendenza è quella di avere al massimo una-due commedie in una selezione ufficiale di venti titoli. È per questo motivo che quando, a maggio 2016, la tedesca Maren Ade ha presentato in competizione Toni Erdmann – che non solo era una commedia, non solo era la commedia di una donna!, ma era una commedia di quasi tre ore – sono rimasti tutti un po’ destabilizzati.
Parliamo, quindi, del lato “comico” del film: entra in scena Winifred, padre di Ines, nonché il suo esatto opposto. Un uomo che vive di lavoretti, che al pensionamento di un insegnante fa cantare ai bambini delle elementari una canzone sulla morte, un appassionato di burle e travestimenti. Quando il suo migliore amico – il suo vecchio cane – muore, Winifred decide di andare a trovare la figlia a Bucarest.
È il classico scenario del “ritorno in famiglia”, in cui la narrazione è portata avanti dal conflitto generazionale tra persone che, per genetica e per convenzione, dovrebbero amarsi ma non lo fanno. È un espediente narrativo su cui si fonda buona parte della filmografia di Ozu e del cinema indipendente nordamericano: due persone i cui mondi non possono coesistere finiscono per coesistere: esploderanno o finiranno per comprendersi a vicenda?
Ines, che deve comportarsi da uomo in un mondo che non la accetta comunque, riceve un padre ingombrante, malvestito, che non sa prendersi sul serio. Il suo lavoro e la dimensione famigliare, quest’ultima semi-abbandonata da anni, non possono convivere. Lui le chiede se lei sia felice, lei gli risponde che “felicità” non è una parola “forte”. È qui che si intromette un elemento nuovo. Una parrucca di capelli neri in testa, dei denti finti da cavallo, (talvolta) un grattaformaggio e Winifred si trasforma: Toni Erdmann è il suo alter ego. Mette Ines e i suoi colleghi in difficoltà, li fa piombare in un universo a loro sconosciuto, l’universo della farsa.
In presenza di Ines, Winifred/Toni Erdmann crea un’escalation di eventi che non ha senso descrivere, perché l’intero valore del film è dato dal suo sviluppo nel tempo: ogni situazione di imbarazzo crea un’ulteriore situazione di imbarazzo, espandendo la valanga dell’interazione famigliare. Senza il tempo di cui necessitano, quello che ci troveremmo a descrivere del film sono situazioni comiche senza soluzione di continuità.
La Romania delle corporation qui immortalata è un luogo violentemente iperrealistico, fatto di discoteche, macchine con autista, centri commerciali, appartamenti asettici per persone sole, gente un pelo troppo vecchia che si diverte in maniera un pelo troppo giovane. Praticamente, l’antimateria di Winifred: un luogo in cui tutti prendono troppo sul serio qualsiasi cosa, anche la propria sessualità, e dopo il lavoro si trasformano in demoni arrapati dalla cocaina.
Si tratta di una Bucarest specifica, che Maren Ade ha studiato a fondo fin dalla genesi di Toni Erdmann. Nei sette anni trascorsi dal suo secondo lungometraggio, Ade ha lavorato come produttrice (anche) in Romania. Nel mentre, da sceneggiatrice, integrava le location che visitava nel tessuto della trama di Toni Erdmann. È un modus operandi anomalo: il processo di scrittura tipico compie l’operazione opposta: “prima mi immagino un posto, poi lo trovo nel mondo”. Ma è un modus operandi che trasforma ogni location, ogni tassello in parte essenziale della trama.
Non è l’unico accorgimento registico che dà un’impronta distintiva al film. Lo stile visivo (luci naturali, camera a spalla) è una scelta estetica che Maren Ade aveva già fatto sua in un film precedente (Alle Anderen del 2009) – è un’imperfezione intenzionale che gioca anch’essa sullo sviluppo nel tempo. Più scorrono le scene, meno ci lasciamo distrarre dalla forma, più ci accorgiamo che il film è una pedana in cui la recitazione regna indiscussa. Anche qui, lo stile è ben distinto: quella del set è per Ade la piattaforma in cui sperimentare, liberandosi dalle prescrizioni della sceneggiatura: come era chiaro dalle sue scelte estetiche, la regista rifiuta la perfezione in senso kubrickiano e utilizza “la scena” come tela bianca in cui provare, insieme ai suoi attori, un tono, poi un altro, poi un altro ancora. Al punto tale che, ai tempi delle riprese, gli interpreti non erano sicuri che Toni Erdmann sarebbe stata una commedia.
La sintesi di questa sperimentazione è la fase di montaggio: la varietà di stili viene unita e riesce comunque a evocare una coerenza stravolgente. Tutti gli stili sono integranti per rendere viva la storia. È il motivo principale per cui Toni Erdmann è un mondo che contiene più mondi, e riassumerlo sarebbe come descrivere Quarto Potere come un film su un tipo a cui manca la sua slitta.
Di rado i film su “molti temi” riescono a funzionare a livello narrativo. Eppure, Toni Erdmann riesce, contemporaneamente, a essere un film su quanto sia tragico avere la compulsione di essere ridicoli in tutto e per tutto; un film su quanto sia ridicolo essere seri in tutto e per tutto; una riflessione mai dogmatica sulla sistemica umiliazione della donna sul posto di lavoro; un’analisi sul senso di isolamento in età avanzata; un “ritorno in famiglia” con conflitto generazionale; una meditazione sulla nostalgia, e sullo strano rapporto di affetto che si può instaurare tra un padre e una figlia; un pamphlet sulla delocalizzazione delle aziende. E una commedia.
A proposito di fattori sistemici: Toni Erdmann ha ottenuto i riconoscimenti più alti agli European Film Awards. È il primo caso in cui una regista donna abbia vinto per il “Miglior Film”. Se, in stagione di premi, le lodi ricevute dovessero sfociare in un corrispettivo nordamericano, Maren Ade sarebbe la quarta regista donna in settant’anni a ricevere un Oscar per il Miglior Film Straniero.
Migliore gag visiva dell’anno (il grattaformaggio).
Nata a Bergamo, non è la sua omonima Google vittima del raggiro di una santona. Ha tradotto e collaborato per una serie di case editrici e riviste italiane, sulle quali ha scritto di cinema, videogiochi, e pistoleri memorabili.